Da "se non ora quando" all'Egemonia sottoculturale di Panarari, dal film della Zanardo alla mostra della Neshat a Palazzo Reale. Storia di tirannie e Puttanesimo
«Una cultura diffusa propone alle giovani generazioni di raggiungere mete scintillanti e facili guadagni offrendo bellezza e intelligenza al potente di turno, disposto a sua volta a scambiarle con risorse e ruoli pubblici. Questa mentalità e i comportamenti che ne derivano stanno inquinando la convivenza sociale e l’immagine in cui dovrebbe rispecchiarsi la coscienza civile, etica e religiosa della nazione.» Sono le parole con cui è stata lanciata la manifestazione “Se non ora quando” per domenica 13 febbraio 2011. Parole che ci ricordano della condizione in cui è (stata) ridotta la donna nel nostro Paese.
Ma da quando le cose stanno così? Quand'è che abbiamo comiciato questa discesa agli inferi?
Ma da quando le cose stanno così? Quand'è che abbiamo comiciato questa discesa agli inferi? Se leghiamo la questione femminile a quella più generale del Paese, ridotto nello stesso modo a corpo da abusare, molti indizi portano ad un momento preciso: l'arrivo della televisione spazzatura negli anni Ottanta. Quando, attraverso lo strumento di fascinazione più appiccicoso e diffuso della storia, la valanga di pelle scoperta, battutacce da bar, brutta musica e anche peggiori programmi ha cominciato la sua travolgente infezione, invadendo i tinelli di tutta l'Italia e le discussioni di ogni luogo, pubblico e privato, di tormentoni che vertevano sul nulla (“Has fidanken!”) e sulle enormi tette di ballerine mute, difronte alle quali cosa vuoi star lì a pensare? “Don't make me think” appunto, non farmi pensare. È lì che abbiamo cominciato ad abdicare al nostro ruolo di essere ragionanti per indossare i panni luccicanti e plasticosi di consumatori full time: consumatori di informazioni e notizie senza carpirne il senso, consumatori compulsivi di merci di cui non si ha bisogno, consumatori di risorse irriproducibili, consumatori di corpi. Consumatori di un Paese che da allora non ha più pensato al futuro, fottendosene di seminare per le stagioni a venire, raccogliendo a man bassa, dissipando le poche risorse di cui dispone perché ereditate dai secoli scorsi: la cultura e l'ambiente. È da allora che la mission di questo Paese è diventato star meglio che si può ora, fregandose del domani, degli altri, del come arrivarci. Perché questo è un paese che non pianta più alberi, li abbatte e basta. È un paese che sputa nel piatto in cui mangia, cioé la cultura, che poi è l'unico motivo per cui qualcuno dall'estero arriva qui.
Quello che neppure la propaganda mussoliniana poté fare – cosa volete che siano le adunate di Piazza Venezia a confronto con l'audience - è riuscita a fare la televisione: modificare l'animo di un popolo. E se questo lo diceva già Pasolini, morto ben prima che i canali commerciali aggredissero i gangli vitali del Paese, ora sono in molti – mai abbastanza – a ricordarcelo. Per dirne un paio Lorella Zanardo e Massimiliano Panarari. Della prima, rivista sul palco della manifestazione di Giustizia e Libertà al Palasharp di Milano, presentiamo in apertura di pagina la versione integrale di “Il corpo delle donne”, film più citato che visto.
Del secondo abbiamo letto e consigliamo caldamente “L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip” in cui abbiamo trovato la ricostruzione meticolosa della rete sotterranea (ma neanche tanto) che lega i centri di diffusione della distrazione di massa italiana. L'elenco dei contemporanei maître à penser, tutti rigorosamente ripugnati dalla sola idea di un pensiero vagamente complesso, da una prospettiva che vada oltre il prime time: Simona Ventura, Maria De Filippi, Alfonso Signorini, Bruno Vespa e Antonio Ricci. Ognuno di questi ha una visibilità che neanche a metterli tutti insieme i pensatori di sinistra potranno mai raggiungere con i loro noiosissimi tomi, le loro complicatissime (e inutili?) elaborazioni. E cosa propugnano questi messaggeri del santo share? Il nulla mischiato al niente: apparire, assecondare la piacevolezza, ridurre lo scontro (salutare esercizio di confronto e dialogo) a gazzarra fra galline, solleticare vanità o qualsiasi altro basso istinto (gelosia, invidia, curiosità...). Una pattuglia di predicatori del vuoto siderale in cui responsabilità e merito sono vocaboli sconosciuti più che obsoleti.
Che Paese volete che ne venga fuori? Che idea di Paese volete che si facciano i ragazzi? Che donne (e uomini) volete che crescano in un contesto così? A chi interessa cosa sai fare nel lavoro, cosa hai studiato, per cosa hai fatto sacrifici e sudato? Quello che conta è quanto sai arruffianarti gli spettatori, i dirigenti, il ministro o il loro capo. Quello che conta è la sostanza pelosissima di un presente dove tutto è superficie. E allora via alla sua lucidatura: chirurgia estetica come fosse una sgambata al parco, Puttanesimo a gogò, ignoranza ostentata.
Quindi la colpevole di tutto questo sarebbe la televisione? Il grande vecchio sarebbe chi ne detiene le chiavi, nella fattispecie il grande vecchio porco? Troppo consolatoria come risposta. Troppo comoda. Certo chi arriva dopo - a cose fatte - e non conosce un senso diverso della vita, difficilmente troverà gli strumenti per costruirsi (o anche solo immaginare) un futuro fuori dallo schema venditi/compra/venditi. Ma chi questo imbarbarimento l'ha visto in diretta (!) che alibi ha?
Sin da piccoli abbiamo sentito i vecchi di casa ripetere il mantra: voi state troppo bene, siete viziati. Loro avevano vissuto la guerra, la fame, l'emigrazione ma erano e sono rimaste persone oneste e rispettose. Noi, i nostri figli, i nostri amici viviamo come disagio insopportabile un semaforo, l'iper chiuso la domenica; sbaviamo per il nuovo iPhone e ci lanciamo in discussioni animatissime per il rigore non dato o per l'ultima scimmia messa sul palco dalla De Filippi. E – spesso - non siamo persone oneste e tantomeno rispettose. Facciamo mediamente schifo e chi ci rappresenta non è (tanto) meglio o (tanto) peggio di noi. Per colpa nostra soprattutto, perché la televisione l'avremmo potuta spegnere quand'era il momento.
Oggi potremmo usare la televisione nella forma che il nuovo decennio ci sta offrendo: quella connessa via web. Confusa e bulimica certo, eppure ricca di possibilità come i mille canali del digitale terrestre non potranno mai essere, perché 999 sono di vendita 24 ore su 24. La libertà di scegliere è la libertà stessa; non l'illusione data dal Puttanesimo (venditi e il paradiso sarà tuo), ma la reale capacità di indirizzare la propria vita. Ma questo è privilegio di pochi, ancora.
Siamo tramortiti, anestetizzati dalle merci e non ci rendiamo conto che in realtà la libertà di scelta che crediamo di padroneggiare è limitata alla nuance dello stesso tessuto, della stessa ideologia, dello stesso destino. Mancano, impietosamente, idee realmente alternative di società, di futuro attorno cui costruire un'alternativa politica e culturale. E infatti il collante per questa mediocre classe politica “di sinistra” resta il sempiterno antiberlusconismo, ovvero la stessa sostanza con cui quello lì innaffia il suo dorato eden, lussureggiante di piante di moplen.
Quindi? Dobbiamo rassegnarci e convertirci tutti al Puttanesimo? O ci salverà un ritorno di progetti forti, resistenti, profondi e convincenti?
Per liberarsi degli aguzzini, della tirannia occorre guardarla in faccia e affrontarla
L'arte, quando non è infettata anch'essa dal Puttanesimo dei marchettari, sa essere profetica e indicare direzioni come gli spin doctor e i portaborse non sapranno mai fare. “Donne senza uomini” è la mostra di Shirin Neshat in corso a Palazzo Reale di Milano. La Neshat è artista straordinaria, capace di incantare senza ruffianerie. Presenta 5 video, anelli concatenati uno all'altro. Frammenti del film vincitore di Venezia 2010 riassemblati con il respiro che l'arte può permettersi rispetto al cinema. 4 storie di donne alle prese con la sopraffazione dell'uomo, della società, della Storia. La connotazione temporale è un pretesto (la restaurazione dello Scià in Iran, il paese da cui la Neshat è esule). Come in ogni capolavoro il senso trascende la contingenza e può essere applicato in molti contesti. Sono scontri duri a cui le donne (e i giovani e gli uomini e i bambini e tutti) non possono sottrarsi. Non perché li vogliano affrontare per farsi del male da sole, ma perché per liberarsi degli aguzzini, della tirannia occorre guardarla in faccia e affrontarla.
Hanno succhiato ogni goccia di dignità rimasta e l'hanno sacrificata sull'altare del Puttanesimo.
Oggi in questo Paese non esiste un tiranno solo, a meno di considerare tale un vecchio rattuso in balia di mignotte e impianti idraulici, come a tanti fa comodo per nascondere la propria inconsistenza. I tiranni sono tanti, tantissimi. Sono fra di noi, anzi dentro di noi. Hanno succhiato ogni goccia di dignità rimasta e l'hanno sacrificata sull'altare del Puttanesimo.
Finché non ammazzeremo, ognuno, il tiranno personale che coviamo in seno, saremo in balia del vuoto, della superficialità e delle armi di distrazione di massa. E il corpo delle donne e del Paese sarà alla mercé del miglior offerente.