Intervista a Giacomo Verde, in occasione della sua partecipazione a Contaminazioni. Trent'anni di ricerca in più campi, dal video alla musica, dal teatro per ragazzi all'attivismo

 

La seconda serata di Contaminazioni1011, rassegna di teatro contemporaneo che già da qualche anno si svolge al TeatrOreno di Vimercate, ha visto come protagonista Giacomo Verde col suo nuovo progetto “Doppio Me Stesso #0.0”. Abbiamo incontrato l’artista pisano prima del suo spettacolo, per indagare sui vari campi d’azione che lo occupano, tra attivismo, arte e nuovi usi della tecnologia.

Iniziamo parlando di questo tuo nuovo spettacolo, intitolato “Doppio me stesso #0.0”. Puoi anticiparci ciò che farai in scena? Cosa deve aspettarsi chi viene a vederti?

La prima cosa da dire è che non recito, non è una messa in scena, non c’è un personaggio che viene interpretato. Io sono me stesso sulla scena, allestisco un set tra video, computer e personaggio virtuale che mi permette di giocare con queste diverse possibilità che le macchine mi offrono. C’è la telecamera che inquadra sé stessa, che entra in loop, con cui entro in relazione con la mia faccia e la mia mano; c’è il personaggio virtuale che a un certo punto entrerà in campo, in relazione con l’altro schermo e così via. Diciamo che sono dei giochi, delle ricerche di senso che io faccio in tempo reale di fronte agli spettatori.

Quindi c’è una base da cui parti e dell’improvvisazione?

È completamente improvvisazione; c’è uno schema di progressione, di accensione della macchina e un finale che dovrebbe essere più o meno stabilito. Esattamente come finisce non lo so, nel senso che ho una canzone che dovrei mettere, ma deciderò se usarla o meno in base al clima che si crea.

Lo “#0.0” del titolo è dovuto al fatto che è una prima versione o ad altro?

Ci sono due motivi: uno perché appunto è una prima versione e quindi è un punto di partenza; l’altro punto è inteso come grado zero di teatralità, il tentativo di azzerare tutto ciò che è la spettacolarità superflua, togliere tutto il possibile e rimanere al grado zero della comunicazione tecnologica e della macchina scenica.

Nelle scorse settimane sei stato impegnato in una mostra a Pisa, “Tra Arte e Attivismo”. Com’è andata? E secondo te, è ancora forte ed utile il legame tra arte ed attivismo?

La mostra è andata abbastanza bene; è venuta molta gente all’inaugurazione e anche nelle giornate successive. Soprattutto ci sono stati degli eventi collaterali all’esposizione che hanno funzionato bene: sia gli eventi di vee-jaying, sia l’inaugurazione di una targa virtuale dedicata ad un anarchico, Pietro Gori, l’autore della canzone “Addio Lugano Bella”, e ancora altre cose, ad esempio un meeting di artisti digitali; quindi è andato molto bene. Sul legame tra arte e attivismo il problema è che non c’è mai stato, c’è sempre stato poco; è una cosa che non è stata approfondita fino in fondo. Anche nel mercato dell’arte, che non è l’arte ma un’altra cosa, c’è questa commistione, questa ricerca, ma secondo me è sempre fatta in maniera superficiale, un po’ distaccata. C’è poca conoscenza da parte del mondo dell’arte di ciò che vuol dire compromettersi politicamente, darsi da fare, sporcarsi le mani; dall’altra parte, quella dell’attivismo, non c’è conoscenza delle possibilità che può dare l’arte, l’azione creativa. Questo in generale, poi fortunatamente ci sono delle eccezioni ogni tanto, la storia ci insegna di incontri felici che ci sono stati tra arte e attivismo. E questo penso continuerà ancora, perché ce n’è sempre bisogno.

 

 

Sei coinvolto nel progetto AHA, che punta ad unire l’attivismo politico con quello artistico e tecnologico. Come pensate di farlo? Quali mezzi usate?

Questa è una storia che c’è già da un po’, dagli anni ’90 in Italia ci sono artisti che mettono assieme queste cose e che teorizzano l’incontro tra l’attitudine hacker, l’arte e così via. Io per esempio, nella mia arte, che prevede sempre l’utilizzo di tecnologie, se non avessi un’attitudine hacker non potrei utilizzare le macchine in teatro; il teatro secondo me ha un’attitudine hacker, nel senso che può mostrare un utilizzo alternativo delle macchine, alternativo a quello che è il sistema, a quello che è il mercato delle macchine e che ti propone di usare internet e il computer soltanto in una direzione. Invece l’attitudine hacker ti porta a dire “no, perché lo devo usare in quel modo? Io voglio provare ad usarlo in un altro modo”. In effetti, in questo modo, sono gli hacker a portare realmente avanti l’evoluzione delle macchine, proprio perché non si accontentano di quello che c’è.

Tra gli eventi che hai citato prima, collegati alla mostra, c’era anche una serata musicale in cui hai fatto il vj. Come ti trovi a lavorare in questo ambito? E ci sono generi musicali con cui ti trovi più a tuo agio?

Io uso un modo particolare di fare vjing. Utilizzo un sistema che mi sono inventato che si chiama proto-vjing. Non utilizzo in maniera massiccia un programma e non utilizzo dei clip video già registrati da loopare come fanno normalmente gli altri. Io utilizzo dei lucidi o degli oggetti che riprendo in macro con una videocamera, quindi le immagini le faccio in tempo reale, non le ho registrate. Su queste immagini che riprendo in tempo reale intervengo anche con gli effetti di un programma da vj. È un lavoro un po’ diverso, che mi permette molto di improvvisare. Nella maniera classica puoi improvvisare solo il mixing, nella mia modalità invece improvvisi anche le immagini, è qualcosa di più articolato, più complesso. Così risulta un’estetica completamente diversa da quella del normale vjing, che è basata su loop cinematografici o sul macinamento di immagini e di immaginari, che siano il cinema, la televisione o dei grafismi. Lavorando invece con i lucidi e con gli oggetti viene fuori un’altra estetica, un altro segno.

 

 

In campo musicale è molto interessante anche il tuo progetto ISP, che ribalta le consuetudini, creando suoni a partire dalle immagini e non viceversa. Come è nata questa idea? E come funziona, a grandi linee?

L’idea è nata dal fatto che io mi trovo sempre a lavorare con musicisti e a dover seguire loro; va bene anche così, è bello, molto divertente. Allora, semplicemente, da questa esperienza mi sono chiesto “perché non provo a fare anche il contrario, a far nascere la musica dalle immagini?”. Ho scoperto che non ci sono software che fanno questo. O meglio, ci sono software che trasformano le immagini fisse, delle fotografie, e le fanno diventare musica; ma per video in tempo reale non è invece possibile. Allora io utilizzo un programma che viene utilizzato per fare spettacoli interattivi, soprattutto di danza. È una telecamera che riprende la scena e ne fa un fermo immagine, poi tutto quello che si muove all’interno della scena diventa attivo;poi puoi decidere nell’immagine quali sono le zone attivabili e quali no. Io, invece di inquadrare una scena, inquadro lo schermo del mio computer con la telecamera; inserendo oggetti e materiali attivo alcune zone dello schermo, che sono collegate a dei suoni midi, che ho sempre sul computer. A seconda di come ho programmato l’attivazione di questi suoni, vengono fuori composizioni diverse, muovendo gli oggetti o attivando parti diverse dello schermo. Non è ancora quello che vorrei: io vorrei che fosse proprio l’immagine, il colore, i contrasti, il movimento. In questo momento ci assomiglia molto, ma ancora non ci siamo, è solo un primo passo.

Siamo vicini ad Arcore, quindi la domanda su “Berlusconi non esiste” è quasi obbligatoria. È un progetto artistico di rivolta iconica, in cui rielabori l’immagine della faccia del Premier dopo l’aggressione di Milano. È una beffa al potere del tipo “il re è nudo” o è qualcosa di più?

Quello è nato come mio gesto di rivolta iconica. La faccia di Berlusconi è diventata un’icona contemporanea pesante; in più mi sono accorto che l’immagine del suo ferimento dopo un po’ era sparita dalla circolazione, non si trovava più. Quindi mi sono detto “No, non è possibile, non è giusto”. Quell’immagine, per quanto è ambigua, molto ambigua, perché lo mette dalla parte delle vittime ma al tempo stesso lo rovina, rovina la sua immagine. Questo è molto interessante, per cui ho deciso di appropriarmi di quell’immagine, con un gesto artistico classico, di rielaborarla, come gesto di demistificazione di qualunque immagine, in particolare di quelle del potere, come questa appunto. Quindi faccio una rielaborazione grafica col computer, ma poi anche pittura, così che diventa un quadro.

 

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Negli ultimi anni, in campo video, stai lavorando anche con i cellulari. Cosa ti ha spinto a lavorare anche con questi apparecchi? Pensi che abbiano prospettive artistiche?

Certo, la ricerca artistica col cellulare è già partita da un po’ di tempo; ci sono già artisti che fanno installazioni, video, film. Ad esempio Pippo Del Bono ha fatto un intero film col cellulare. Siccome a me interessa vedere come funzionano le macchine e cosa possono dare, a un certo punto mi è stato chiesto di scrivere un testo proprio sul rapporto tra cellulare e videoarte. Allora ho detto “prima di scrivere, devo provare”. Ho provato a vedere cosa poteva fare il cellulare di diverso dalla telecamera, perché se fai quello che fai normalmente con la telecamera che divertimento c’è? Ho provato a lanciarlo in aria, a legarmelo a un piede, cose così, e devo dire che è molto particolare, perché il cellulare ha un tipo di utilizzo diverso dalla telecamera; poi te lo porti in tasca e ti permette di riprendere le cose in una maniera completamente diversa. Anche le persone, se riprese dal cellulare, non si comportano come davanti a una telecamera. A parte poi il valore di controinformazione mediatica che questo strumento sta assumendo, e che è molto interessante: basti vedere quello che è successo ultimamente in Egitto, dove molte informazioni ed immagini sono passate proprio attraverso i videocellulari. È interessante perché è una riappropriazione dal basso delle immagini e dell’informazione. Le possibilità artistiche ci sono, come in qualsiasi mezzo, in qualsiasi macchina.

Un altro spettacolo che stai portando in giro per l’Italia è “Bit e Bold e il racconto di Biancaneve”, dedicato a un pubblico di ragazzi. Com’è lavorare con i più giovani? E come si rapportano all’arte digitale, rispetto alle generazioni precedenti?

Io lavoro con i bambini e per i bambini da sempre, da quando ho iniziato, quasi trent’anni fa. L’esperienza è andata crescendo, e devo dire che i bambini rispetto alle macchine sono più disincantati, sono più interessati e curiosi di quanto lo siano gli adulti, proprio perché vivono una condizione di vita che è quella della curiosità. Poi, vivendo in questi tempi, qui e ora, sono bombardati da cartoni animati a soggetto tecnologico, con linguaggi tecnologici. Soltanto i Pokemon, ad esempio, con la loro idea di evoluzione, sono qualcosa che per la nostra generazione non esisteva, non avevamo il concetto di evoluzione. Grazie a loro i bambini capiscono anche concetti legati all’uso delle tecnologie. Ce ne sono anche altri, per esempio Yu-Gi-Oh, dove utilizzano un deck computerizzato che rende reali le carte usate per giocare; ci sono così dei termini che sentono già nei cartoni animati e quando si trovano in casa un computer sono già predisposti. Mio figlio, che ha undici anni, si è aperto un canale su Youtube da solo, senza che glielo insegnassi io. Poi ha cominciato a riprendere i videogame e a commentarli, pubblicandoli sul suo canale, che è una cosa bellissima, un modo attivo e propositivo di utilizzare la rete e anche i videogame. Non è semplicemente starci davanti a giocare, ma diventa un mezzo di comunicazione con altre persone. Quindi bisogna stare attenti a criminalizzare o a preoccuparsi troppo per queste cose; di solito il problema dei videogame è per gli adulti, perché non sanno come funzionano e si preoccupano, perché perdono una forma di controllo. Se tu parli di queste cose con i tuoi figli invece non c’è problema.

 

 

Per il futuro che idee hai? Quali traiettorie seguiranno la tua creatività e la tua arte?

Ci sono dei progetti che stanno nascendo in questo momento. Per esempio un progetto europeo per un personaggio virtuale che tratta il problema tra donna e scienza, che uscirà in sei musei europei. Poi, forse, c’è un progetto televisivo sui 150 anni dell’Unità d’Italia, molto particolare. Ci sono diversi canali, diversi campi d’azione, insomma.

Gli autori di Vorrei
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi

Nasce nel 1984. Studi liceali e poi al Politecnico. La grande passione per la musica di quasi ogni genere (solo roba buona, sia chiaro) lo porta sotto centinaia di palchi e ad aprire un blog. Non contento, inizia a collaborare con un paio di siti (Indie-Eye e Black Milk Mag) fino ad arrivare a Vorrei. Del domani non v'è certezza.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.