Un bene culturale come è la Villa e la sua totale gestione da parte di un privato che, per propria imprescindibile natura, è costretto a produrre utili di bilancio per sopravvivere. Una convivenza impossibile?

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e recenti vicende collegate al bando per l’assegnazione della gestione della Villa Reale ad un soggetto privato per ben 30 anni (poi ridotti a 22) dovrebbero sollecitare alcune riflessioni che vadano un po’ oltre la stretta contingenza del fatto in sé. Cominciamo col dire che l’espressione “industria culturale” è fortemente ingannevole, benché largamente impiegata. E questo perché unisce due concetti, quello di “industria” e quello di “cultura”, che non sono affatto assimilabili e anzi presentano caratteristiche in certi casi opposte. L’ ”industria” (intendendo con questo termine la generica attività di produzione o di commercializzazione di beni di consumo) è costretta, per sua stessa natura, a produrre un profitto economico che remuneri il produttore.

Se un’azienda è in perdita economica, lo sanno anche i bambini, essa prima o poi chiuderà. Le attività culturali invece, prese nelle forme più ampie, sono tutte più o meno largamente in perdita economica e i loro deficit sono ripianati dallo Stato

Se un’azienda è in perdita economica, lo sanno anche i bambini, essa prima o poi chiuderà. Le attività culturali invece, prese nelle forme più ampie, sono tutte più o meno largamente in perdita economica e i loro deficit sono ripianati dallo Stato. Editoria, giornalismo, cinema, teatro, attività espositive e museali, ecc. non producono quasi mai utili e i loro disavanzi sono dunque coperti dall’intervento pubblico in varie forme e modi.

Certamente oggi, rispetto al passato, si è anche capito come rendere meno pesanti questi deficit e quindi più vantaggiosa economicamente l’attività culturale (si pensi allo sviluppo del merchandising o delle sponsorizzazioni) ma il dato di fondo permane: fare cultura non è come costruire automobili, e il profitto non può essere l’unico metro per valutare la “redditività” di un’iniziativa culturale. Inoltre, mentre l’industria produce beni materiali immediatamente consumabili, la produzione culturale produce “beni immateriali” il cui effetto si può valutare in tempi molto lunghi. Sfogliare un giornale, visitare una mostra, leggere un bel libro o vedere un bel film non danno effetti subitanei, ma, nel lungo periodo, contribuiranno a formare un cittadino migliore e dunque una società migliore e anche più ricca.

Sfogliare un giornale, visitare una mostra, leggere un bel libro o vedere un bel film non danno effetti subitanei, ma, nel lungo periodo, contribuiranno a formare un cittadino migliore e dunque una società migliore e anche più ricca

Investire nella cultura è dunque necessario e lo Stato moderno ha compreso questo, assumendosi l’onere economico dei passivi che le attività culturali inevitabilmente generano. È la stessa cosa che accade in altri importanti settori delle moderne società occidentali: scuola, università, sanità, trasporti sono tutte attività che, dal rigido punto di vista contabile, risultano in deficit e dove lo Stato ripiana questi deficit ritenendole di primaria importanza per lo sviluppo e la crescita sociale.

Fatte queste premesse, veniamo al caso del bando sulla Villa Reale. Non voglio entrare nel merito dei dettagli di questo bando, delle cifre spesso ballerine che sono comparse nell’ultimo periodo (canone, durata, percentuali sugli utili, ecc.), delle dichiarazioni di questo o di quel personaggio politico locale, quanto sottolineare il dato di fondo che rende assai scettici o addirittura fortemente contrari molte persone (me compreso) sui vantaggi di questa operazione. Il dato di fondo è l’ossimoro tra un bene culturale come è la Villa (e dunque con le caratteristiche di scarsa redditività economica di cui sopra) e la sua totale gestione da parte di un privato che, per propria imprescindibile natura, è costretto a produrre utili di bilancio per sopravvivere. Di questa contraddizione sono ben consapevoli anche i sostenitori del bando, che, in più occasioni, si sono affrettati a ribadire che la Villa manterrà il suo alto profilo culturale e la mano pubblica avrà l’ultima parola su ogni decisione. Ma non è certo con le dichiarazioni di buone intenzioni che si può eludere la stridente contraddizione tra la corretta gestione di un bene culturale e gli obblighi di redditività di impresa. Se un domani la società di gestione dovesse decidere se inaugurare in Villa una prestigiosa mostra d’arte medievale o ospitare il congresso nazionale dei produttori di gorgonzola, è evidente quale scelta verrà presa, dato che la prima iniziativa (come sempre in questi casi) non produrrà utili (né eventuali deficit saranno coperti dalla Stato, trattandosi di gestione privata) mentre la seconda li prometterà belli e lucrosi. L’unico modo per gestire la Villa da parte di un privato, se mai ciò avverrà, sarà di dedicare un 20% dei propri investimenti ad attività genericamente culturali e il restante 80% ad attività che producano reddito, senza guardare troppo per il sottile alla loro effettiva valenza culturale.

È questa la Villa che vogliamo? Sana economicamente ma destinata ai congressi nazionali dei produttori di gorgonzola?

La domanda a questo punto è: è questa la Villa che vogliamo? Sana economicamente ma destinata ai congressi nazionali dei produttori di gorgonzola? Tanto valeva farne un casinò, famosa provocazione lanciata anni fa da Cicciolina, ma che forse, nell’ottica della “redditività” economica a tutti i costi, tutt’altro che strampalata. E la seconda domanda è: c’erano alternative a darla in gestione ad un privato, visto che il preventivo dei costi di restauro tocca i 200 milioni di euro e la finanza pubblica di questi tempi è in palese sofferenza? Sul problema dei finanziamenti pubblici due modesti suggerimenti a cui mi pare nessuno abbia accennato. In primo luogo stupisce che non si sia percorsa la strada della sponsorizzazione – anche parziale – delle spese di restauro. Il recente caso degli interventi di restauro del Colosseo interamente finanziati da uno sponsor privato per un valore di 25 milioni di euro dà molta materia di riflessione al proposito. Anche senza arrivare a queste dimensioni di spesa, possibile che in uno dei più ricchi comparti industriali d’Europa non si trovino sponsor in grado di compartecipare al restauro e alla rinascita di un bene di così altro valore come la Villa monzese? Qualcuno hai mai sondato seriamente questa strada? In secondo luogo occorre guardare ai più recenti strumenti di finanza locale nati negli ultimi anni. Non penso solo alla possibilità di emissione di bond comunali (che comunque resta un prestito alle casse pubbliche, da restituire nel tempo), ma soprattutto alla cosiddetta “tassa di scopo”, ovvero un’imposizione fiscale aggiuntiva ma rigidamente finalizzata ad un preciso intervento pubblico. Scelta forse impopolare, dirà qualcuno, ma coraggiosa e chiara. Siamo sicuri che se ai cittadini monzesi venisse richiesto di pagare una tantum qualche decina di euro di tasse in più in un anno strettamente destinate al restauro del maggiore monumento cittadino si leverebbero molte voci di protesta? Io credo proprio di no. Queste (ed altre) strade potevano essere seguite, invece di sbarazzarsi del problema affidando la Villa ad un privato e sostenendo che solo così tornerà all’antico splendore.

P.S. Avevo appena terminato questo intervento, quando sul “Cittadino” è uscito il resoconto di un interessante convegno organizzato dal Collegio Architetti e Ingegneri il 5 maggio scorso sul futuro della Villa. Sergio Boidi, docente al Politecnico e moderatore del convegno, dichiara: “Il deficit dei complessi monumentali non deve allarmare: è giusto che la cultura sia sostenuta e deve essere sostenuta dallo Stato”. Perfetto ed essenziale.