Marco Bugatti, autore e cantante dei Grenouille, ci ha parlato di ciò che muove lui e la band brianzola, tra musica, politica, voglia di cambiamenti e Simpson.
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Grenouille sono da qualche anno uno dei gruppi più apprezzati all’interno del panorama brianzolo e non solo, grazie alla loro musica elaborata, in bilico tra richiami grunge e psichedelici, e a testi capaci di coniugare poesia ed introspezione con uno sguardo lucido sulla società moderna. Abbiamo intervistato Marco Bugatti, cantante ed autore dei brani della band, per capire da dove viene la musica dei Grenouille e che direzioni sta prendendo in vista del prossimo album, che seguirà l’esordio “Saltando dentro il fuoco” e l’EP “In Italia non si può fare la rivoluzione”. Ecco cosa ci ha detto.
Partiamo dal presente, dalle ultime settimane, quelle del referendum. Per l’occasione avete rielaborato un brano di Eddie Vedder per invitare al voto e per far riflettere chi vi ascolta sul futuro. Come è nata l’idea di fare questa cover?
Avevo già seguito con interesse le votazioni comunali, e poi anche la campagna elettorale per i ballottaggi, dove, secondo me, il Pdl ha utilizzato tutti i suoi trucchi comunicativi peggiori. Prima dei ballottaggi Milano era tappezzata di manifesti, sembrava un romanzo di Orwell. Era chiaro che Berlusconi non voleva perdere l’amministrazione della sua città e l’aveva trasformata in un laboratorio per effettuare disperati esperimenti di controllo mentale di massa. E poi c’era la questione del nucleare, dopo quello che era successo in Giappone; non ho mai capito come potessero permettersi di continuare a insistere sull’energia nucleare contro tutto e contro tutti. Usando anche lì dei trucchetti per evitare di doversi confrontare con il volere popolare. Loro sono stipendiati da noi, siamo noi i loro datori di lavoro, io al lavoro se non faccio quello che mi dicono, alla lunga mi mandano a casa. Per cui, mentre andavo a votare per il ballottaggio, mi stavo canticchiando Hard Sun e mi sono venute in mente le parole in italiano. Si può dire che l’ho scritta durante il tragitto tra casa mia a Milano e il seggio elettorale e ritorno. Si sentiva nell’aria che stavano per perdere, lo slogan “il vento cambia” era davvero azzeccato.
Dopo il referendum e le precedenti elezioni amministrative siete ancora convinti che “In Italia non si può fare la rivoluzione”, come sosteneva il vostro brano dello scorso anno?
Il titolo di quella canzone è ovviamente sarcastico. La “rivoluzione”, come concetto comunista sessantottino, ovviamente non si può fare, non si è mai potuta fare, è stata un’utopia nel nome della quale si sono fatte una marea di cazzate. La rivoluzione di cui ha bisogno il nostro paese è una rivoluzione mentale, di valori, di atteggiamento. Sono stato molto contento della vittoria della sinistra alle amministrative e ai referendum, ma allo stesso modo mi stupisce come non siano ancora stati in grado di sfruttare l’onda alta della partecipazione che la gente ha voluto dimostrare, dopo tanti anni, alla discussione politica. Quell’entusiasmo si sta pian piano esaurendo, e il fatto che la sinistra non sia in grado di intercettarlo e sfruttarlo a suo favore è, a mio parere, incredibile e frustrante.
Il brano appena citato ha anche un altro livello di lettura, quello legato al mondo musicale. La rivoluzione in questo ambito è più facile o più difficile rispetto a quella a livello sociale? Oppure le due cose devono per forza andare di pari passo secondo voi?
Purtroppo vanno di pari passo, perché certi atteggiamenti, certi comportamenti di sopraffazione (mors tua vita mea) sono talmente tanto radicati nel comportamento personale di ognuno di noi che purtroppo dominano anche l’ambiente musicale alternativo. Ci credevo veramente che in questo ambito potesse essere diverso ma, con mia grande delusione, ho scoperto che non è così. Per questo ho scritto quella strofa, per riuscire ad esorcizzare quella delusione.
Negli scorsi mesi avete fatto una serie di date in duo acustico. Come mai questa scelta? Come sono andate?
Abbiamo fatto questa scelta per vari motivi. Prima di tutto avevamo l’esigenza di portare su un palco le canzoni nuove per entrarci in confidenza, capire come suonarle al meglio e come dargli la giusta espressione. Successivamente abbiamo sempre pensato che una bella canzone rimanga tale anche senza troppi effetti, distorti, studi di registrazione da centinaia di euro al giorno. Volevamo riuscire a far stare in piedi le canzoni anche con una chitarra e una voce, come in spiaggia e devo dire che sono soddisfatto del risultato. Ovviamente non puoi fare un concerto di un’ora perché rischi di annoiare la gente, ma noi volevamo, per quanto possibile, obbligarla ad ascoltare le parole, l’emozione, e a volte è più facile farlo senza avere troppo frastuono che ti impedisca di capire. Ci abbiamo provato e mi pare che ci siamo riusciti. Adesso stiamo arrangiando tutto anche con altri strumenti
In queste date avete suonate anche dei nuovi brani. Finiranno in un disco? Avete già pianificato registrazioni e data di uscita o per ora siamo ancora in una fase embrionale?
Certamente. Abbiamo già una decina di canzoni che finiranno nel nostro nuovo disco che cercheremo di far uscire per l’inizio dell’anno prossimo. Non sappiamo ancora se sarà un disco elettrico o acustico o una via di mezzo, ma penso che sicuramente sarà un disco particolare, meno stereotipato rispetto a “Saltando Dentro al Fuoco” e avrà comunque una matrice Rock and Roll, qualsiasi scelta andremo poi a fare.
Nell’EP dello scorso anno avete sperimentato elementi sonori che invece non erano presenti nel primo disco. Quali degli “esperimenti” lì fatti avrà un seguito?
Penso che quegli esperimenti ci siano serviti per capire che cosa NON dovrà andare nel prossimo disco dei Grenouille. Abbiamo sperimentato su di un Ep per poterci dare la possibilità di sbagliare, abbiamo sbagliato molto, per cui penso che di quell’Ep rimarrà soltanto la voglia di sperimentare. Ma la direzione che prenderemo sarà un’altra, ancora diversa.
Nell’EP c’era anche una cover, “I fiori”, di un giovane gruppo siciliano, Il Pan Del Diavolo. Quali altre band italiane, più o meno nuove, vi piacciono?
Io?Drama, Albedo, Arturo Fiesta Circo, Tre Allegri Ragazzi Morti, Giorgio Canali….
A livello locale, Milano e Brianza, come vedete invece la situazione musicale, per quanto riguarda band, locali e pubblico?
Vedo una situazione in costante crescita a livello di locali e di gruppi originali con qualcosa da dire. La cosa non ha un suo corrispettivo a livello di pubblico, che secondo me ha ancora bisogno di un po’ di tempo per capire che la gente si sta risvegliando dal torpore catodico. Sono processi lunghi…
Ne “La terza guerra mondiale” i versi iniziali “Oggi ho deciso di farmi male” possono ricordare le parole di “Hurt”, il pezzo dei Nine Inch Nails reso poi eterno da Johnny Cash. Entrambi i brani sembrano un modo per esorcizzare il dolore, affrontandolo in maniera diretta. La musica può avere un valore terapeutico, sia per chi la scrive che per chi la ascolta?
Assolutamente si. Certe persone pensano che la musica dovrebbe celebrare soltanto ciò che c’è di positivo nella vita. Niente di più falso. Non esistono messaggi positivi o negativi, ma solo frasi, emozioni che a volte, per quanto strani o estremi possano sembrare, possono aiutare qualcuno a sentirsi meno solo.
“Un grave danno” si conclude con una citazione di Homer Simpson (“Spero di non aver causato un grave cervello al mio danno”). Come mai questo omaggio a Matt Groening?
Adoro i Simpson da sempre. Trovo che l’ironia sia una delle più alte forme di accettazione dei propri limiti dei propri difetti e i Simpson non sono soltanto un cartone animato divertente. Mettono in scena i difetti umani, i difetti culturali americani (e quindi di riflesso anche i nostri) ma lo fanno con un grandissimo amore nei confronti dell’umanità e delle persone. Quella citazione è fortemente voluta, perché vorrei dare alla mia musica questo forte senso di amore nei confronti della diversità e dei difetti umani che tutti ci portiamo dentro, nonostante tutto.