Il primo incontro della rassegna di Brugherio ha visto protagonista l'autore parmense Paolo Nori, classe '63, autore di romanzi dal forte taglio ironico e apprezzato traduttore di letteratura russa
Sarebbe stato difficile chiedere di più, come prima serata. Bruma 2011 ha offerto al proprio pubblico di affezionati uno scrittore di razza, dotato di uno stile originale e inconfondibile, esaltato ulteriormente, se possibile, nell'atto della lettura ad alta voce. La biblioteca civica di Brugherio ha potuto infatti apprezzare la bravura di Paolo Nori, capace di far piegare in due dalle risate con la stessa facilità con cui di colpo riesce a evocare riflessioni profonde, come è accaduto ieri quando lo scrittore ha letto un suo discorso, Noi e i governi, contenuto nella sua ultima fatica: "La meravigliosa utilità del filo a piombo" (edito da Marcos y Marcos).
Paolo Nori durante una sua lettura
Grazie ad una simpatia naturale e ad una dialettica tanto semplice e spontanea da sembrare quasi studiata, Nori ha conquistato fin da subito il pubblico, trasformando ogni domanda di Camilla Corsellini in una possibilità di raccontare aneddoti ed esperienze. L'impressione è stata quella di avere di fronte una persona, prima ancora che un autore, con tanta sete di condivisione delle proprie conoscenze, apprese nella vita come in università (è laureato in letteratura russa, con una tesi sul poeta Velimir Chlebnikov). Tante le considerazioni sulla Russia e in generale sulla «smania di conoscere il mondo» che lo ha portato a lavorare in Algeria, in Iraq e in Francia. Esperienze lavorative, però, che Nori considerava alienanti: «erano lavori su cose di cui non mi importava niente – spiega – e accumulato un gruzzolo in virtù delle trasferte, decisi di lasciarli; poi, per disperazione, provai a diventare scrittore». Era il 1996, e tre anni dopo il rischio di Nori avrebbe pagato: nel '99, con "Le cose non sono le cose" (Fernandel editore), l'esordio di una carriera destinata a non fermarsi più.
Nella formazione dell'autore, ad ogni modo, è la Russia il paese straniero che gioca il ruolo più importante: «nel '94 ci andai da solo in auto, per preparare l'esame di dottorato – racconta – e il diario di quel viaggio fu la prima cosa che scrissi nella mia vita per qualcun altro. L'esame andò male». Dagli scrittori russi, che ha tradotto tanto (Gogol, Charms, Puškin, Turgenev, Chlebnikov), Nori ritiene di aver imparato l'importanza della lingua colloquiale in letteratura, una fortuna che gli italiani non avrebbero: «in Russia la lingua dei nobili era il francese, solo i poveri e gli ignoranti parlavano il russo – spiega – ecco perché quando Puškin scrisse le sue opere che hanno fondato la lingua letteraria russa, aveva a disposizione un serbatoio di espressioni vive a cui poter attingere. In Italia – prosegue – questo non è stato possibile, perché l'italiano stesso era la lingua colta, dunque chi come Manzoni volesse scrivere in italiano era legato ad un registro troppo elevato rispetto al parlare quotidiano, che da noi era il territorio dei dialetti. Nei miei romanzi – conclude – io cerco di far entrare il mio italiano regionale, la lingua che ascolto per strada».
Paolo Nori e Camilla Corsellini
Caratteristica di molti romanzi surreali di Nori è la presenza di un narratore che somiglia tanto all'autore, anche dal punto di vista biografico: «più che di aderenza fra me e lui – precisa – parlerei di punti in comune. Questo personaggio ha una voce diversa dalla mia, anche se gli sono successe le stesse cose che a me. Si tratta – continua – di due storie autonome». Sulla scia del critico formalista russo Šklovskij, Nori è fortemente convinto che lo scrittore debba saper descrivere le cose come se le vedesse per la prima volta, cosi che anche il lettore «possa vedere quelle stesse cose tolte dall'imballaggio. Chi scrive non deve conoscere il mondo, deve saperlo guardare».
Al termine dell'incontro, abbiamo rivolto all'autore una domanda sulla traduzione: è un'attività che favorisce la produzione artistica originale o al contrario fa correre il rischio di restare ingabbiati nella fantasia altrui? «Non ci ho mai pensato – confessa – ma le ritengo due cose diverse, due aspetti dello stesso mestiere. Io non credo ci sia il rischio di riscrivere, almeno se si traducono grandi classici, opere che è difficile rifare oggi, anche volendolo coscientemente. Ad ogni modo – conclude – i capolavori non ingabbiano mai la fantasia, al contrario la aiutano».