«11 interventi con pluralità di linguaggi dall’installazione alla scultura, dalla fotografia all’arte multimediale». Dal 25 settembre al 20 novembre 2011
forma mentis
ovvero degli equilibri sbilanciati
25 settembre / 20 novembre 2011
da martedì a venerdì 15.00 /18.00
sabato, domenica e festivi 10.00 / 18.00
ingresso libero
inaugurazione
sabato 24 settembre 2011 / ore 18.00
Serrone Villa Reale
viale Brianza 2 | Monza
Si può parlare di una sola “forma mentis” nella società contemporanea?
O non sarebbe più opportuno declinare l’espressione al plurale?
Al tempo della www non si può più immaginare un’unica forma di analisi del reale. Tantomeno oggi in cui la “liquidità” del pensiero rimbalza multiforme e caotica a livello planetario.
E’ necessario rielaborare nuovi schemi di interpretazione del presente.
Incidere sulla realtà ricomponendola con un atto che ha in sé una forza creatrice ed è esso stesso forza creatrice.
Non si tratta di adattarsi alla realtà per non soccombere, bensì di essere malleabili ai cambiamenti, essere protagonisti nel gestirli con atteggiamenti capaci di ripensare il mondo.
Il concetto stesso di progresso si regge sull’introduzione di nuovi punti di vista, di nuovi e inaspettati modelli di rielaborazione di noi stessi e della realtà esterna.
Generare nuovi modelli significa elaborare nuovi codici comunicativi e comportamentali.
L’espressione artistica, artefice primaria di questo processo di cambiamento, rinnova continuamente il proprio linguaggio. Lo rende flessibile ai tempi, lo elabora per interpretare e anticipare ipotetici nuovi scenari.
Non a caso nell’arte il problema del linguaggio è centrale.
Ci sono temi che ricorrono da sempre nella storia dell’uomo e dell’arte, ma che appaiono sempre nuovi perché nuove sono le modalità di approccio e soprattutto perché sono nuovi i linguaggi espressivi utilizzati.
Cercare percorsi linguistici sconosciuti significa addentrarsi in una foresta intricata dove è facile perdersi, ma dove non è possibile non entrare.
Significa sviluppare sensibilità più raffinate e adeguate alla decodificazione e – a volte – all’anticipazione di ciò che accade nell’oggi e nel futuro.
Restare ancorati ad un linguaggio senza la capacità di sbilanciarsi e di mettere a rischio le certezze acquisite, significa rinunciare ad esplorare i cambiamenti della contemporaneità.
La fedeltà di un artista ad un linguaggio che rende riconoscibile la sua opera, rischia di diventare uno “stile” che lo ingabbia, cristallizza e fossilizza. La sfida è quella di non smettere mai di cercare.
Una continua ricerca che non consente tregue e che, nel tentativo di superare l’equilibrio acquisito, lo fa diventare instabile per essere più attenta alle nuove istanze.
Con un ossimoro si potrebbe parlare di “equilibrio sbilanciato”.
Gruppo Koinè
Equilibri sbilanciati
di Angela Madesani
Pare anacronistica, in un tempo di consumismo culturale, come quello che stiamo vivendo, la storia del gruppo Koinè, formatosi nel 1995. Un gruppo artistico del quale fanno oggi parte undici persone: dieci uomini e una donna (1). Nel corso degli anni il gruppo primigenio, composto da sei persone, è andato modificandosi, alcuni si sono aggiunti, altri se ne sono andati. Ma, in tutto questo, è rimasto integro lo zoccolo duro iniziale, le motivazioni per le quali Koinè è nato. Il breve testo che sto qui scrivendo non si propone di ripercorrere la sua storia, di sviscerarne le poetiche - sarebbe molto difficile (2) - di elencarne opere e mostre. È questa, piuttosto, una riflessione sul nostro presente artistico in relazione all’operare di un insieme di artisti in controtendenza con le mode vigenti, che proprio nell’essere gruppo, nello stare insieme, nel continuo confronto e nella discussione, ha trovato la sua forza. Forse riuscire a stare insieme per così tanti anni, indenni alle tempeste, alle burrasche causate dalle indubbie difficoltà, sta proprio nella capacità di sapere affrontare la diversità.
Se analizziamo la contemporaneità non è cosa rara trovare coppie di artisti che hanno lavorato o che lavorano da molti anni insieme: Bernd e Hilla Becher, Anne e Patrick Poirier, Gilbert & George, Botto e Bruno, solo per fare alcuni noti esempi. Ma non è altrettanto comune trovare gruppi di lavoro, costituiti da più di due persone. Eccezione che conferma la regola è quella di Studio Azzurro. Ma la faccenda è diversa. Koinè è un gruppo di lavoro dove ognuno produce la sua opera, Studio Azzurro è un grande gruppo di lavoro in cui tutti lavorano alla stessa opera, apportando le singole competenze. Studio Azzurro si forma negli anni Ottanta, prendendo le mosse da una precedente situazione, il Laboratorio di Comunicazione Militante, un’importante esperienza che ha avuto luogo negli anni Settanta, con un chiaro intento politico, in un particolare momento della storia del nostro Paese. Di matrice sociale, mutatis mutandis, è anche la ricerca di Studio Azzurro, che utilizza la tecnologia, l’interattività per coinvolgere gli spettatori e che esce dall’elitarismo un po’ snob dell’arte contemporanea. Le mostre del gruppo milanese riescono sempre a fare grandi numeri di visitatori, che vengono chiamati a partecipare all’opera, in controtendenza al pubblico di nicchia dell’arte. Le loro mostre, con un termine che poco mi piace, sono spesso eventi mediatici, ai quali un certo sistema dell’arte non ha dedicato, nel corso degli anni, la dovuta attenzione. Koinè è ancora diverso. Nasce in un momento storico e sociale particolare, gli anni Novanta del XX secolo, in un Paese come il nostro che stava vivendo un grande mutamento politico e di conseguenza sociale. Erano gli anni della neonata seconda Repubblica. La loro è chiaramente una presa di coscienza di fronte a una situazione in mutamento. Sin dall’inizio si pongono in un atteggiamento da resistenti. Ciò che, sin da quegli anni, lega il gruppo è una pulizia mentale da tutti condivisa. Per anni Koiné rifiuta di esporre in luoghi deputati all’arte, scegliendo di farlo in luoghi alternativi. Una scelta oggi assai comune, che in quel momento non lo era così tanto. Solo oggi, dopo molti anni, si trovano in tal senso degli spazi di apertura, come per l’occasione che questo catalogo accompagna. Quella di aprirsi non è una facile scelta di comodo, quanto una, per certi versi, dolorosa decisione per riuscire a rendere maggiormente visibile la propria ricerca.
Si tratta di una sorta di compromesso, che mi pare sia da giudicare in senso positivo.
Mi tornano in mente, proprio a proposito del compromesso, le parole dello scrittore israeliano Amos Oz.
Quando nel 1995 alcuni artisti, provenienti tutti dalla Brianza, alcuni amici da anni, altri no, decidono di unirsi, non è certo per una sintonia linguistica, tecnica, anzi. Sin dall’inizio vanno profilandosi, in tal senso, posizioni assai diverse. Il bisogno di unione nasce, piuttosto, dalla necessità di dare e di trovare solidarietà. È bene sottolineare che nessuno di loro sbarca il lunario facendo l’artista e forse proprio questa libertà, questa indipendenza dal mercato, dalle gallerie, dal sistema, per usare un termine coniato da Achille Bonito Oliva, nel corso degli anni Settanta, è la loro forza è il senso del loro stare insieme. Mi pare che questa mostra dal titolo ampio e chiaro al tempo stesso, Forma mentis, costituisca una riflessione sul loro atteggiamento nei confronti del mondo dell’arte. Così è da leggere l’anacronismo di cui parlavo inizialmente. Interessante è la straordinaria - nel senso filologico del termine - capacità di riuscire a mantenere il legame intatto, saldo, nel corso degli anni, attraverso le diverse esperienze, in cui, spesso, il luogo assume una valenza primaria. Si pensi in tal senso all’ex-Ospedale psichiatrico di Imola, a Topolò, al parco delle Groane.
Quando ci si accosta al gruppo, con la necessaria lentezza per conoscere i diversi lavori, si avverte precipuo il senso della ricerca. Si percepisce il piacere dei singoli nell’affrontare insieme le diverse situazioni. Non si avvertono coercizioni, le stesse che si avvertirebbero se ci fosse di mezzo una logica mercantile. E questa non è una critica a quest’ultima, solo una presa d’atto della differente situazione. Ognuno di loro è libero di partecipare alle diverse iniziative. Si discute molto, si mettono i diversi problemi in comune, ma alla fine ognuno decide quale sarà la sua opera, con che materiale realizzarla e via di questo passo, per poi esporla all’interno del contesto comune.
Da sedici anni i componenti del gruppo si riuniscono una volta alla settimana, una costanza davvero singolare. Pare di trovarsi di fronte a un positivo caso clinico…un’affermazione ironica? Certo, ma nemmeno troppo.
Come già detto uno degli interessi precipui di Koinè è l’ambito sociale, politico. Nulla di istituzionale certo, ma ben di più: è qualcosa che va a insinuarsi nel tessuto dei fenomeni.
Ogni volta che si affronta una situazione lo si fa in modo impegnato, consapevole, tenendo in chiara considerazione il contesto. Sin dall’inizio il loro interesse si è focalizzato sui luoghi, sull’ambiente, per alcuni solo da un punto di vista fisico, per altri, storico, mnemonico. Il tentativo è quello di entrare, di fare emergere l’anima più profonda e latente delle situazioni. Così a Imola, dove il gruppo invitato insieme ad altri artisti, è riuscito a cogliere la straziante poesia di un luogo che per anni ha ospitato malati di mente. Anni in cui la legge Basaglia (3) era ancora lontana a venire, anni in cui i manicomi, i luoghi della malattia mentale, erano ghetti obsoleti, dove troppo spesso venivano abbandonate persone, considerate reietti pericolosi e fastidiosi di una società che non voleva e non era in grado di accoglierli. Il tentativo di offrire una lettura di insieme del lavoro di Koinè, di quella forma mentis evocata dal titolo, potrebbe fare intravedere nel loro ormai lungo percorso la volontà di costituire un’isola felice nel complesso mondo dell’arte. Un’isola felice, che sino ad ora ha potuto fare a meno del sistema, del mercato, della critica, delle istituzioni artistiche. Un’isola felice che ha tentato e molto spesso è riuscita a creare arte per tutti, al di là del passepartout, oggi assai in voga, dell’arte pubblica, riuscendo a fare un’operazione di matrice realmente sociale, che coinvolge non solo la solita élite, ma anche la gente comune, al di là delle coercizioni del sistema, che affronta la cosiddetta “arte” con la semplicità del quotidiano.
Forse un’utopia realizzata? Non esageriamo, ma… Certo è che in questi lunghi e complessi sedici anni in cui il Paese e il mondo ne hanno viste di tutti i colori, Koinè è riuscita a restare in piedi, viva e vigorosa e ha comunicato agli altri la sua voglia di esistere e - ci sia concesso - di resistere.
(1)Daniele Arosio, Enzo Biffi, Ermenegildo Brambilla, Marco Gaviraghi Calloni, Laura Cazzaniga, Mariangelo Cazzaniga, Dario Cogliati, Giacomo Manenti, Piero Macchini, Antonello Sala, Michele Salmi.
(2) Koiné non ha una poetica di gruppo. Ognuno degli artisti che ne fa parte, infatti, ha una ricerca individuale.
(3) La Legge Basaglia è legge italiana numero 180 del 13 maggio 1978 "Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori". Il riferimento è allo psichiatra veneziano Franco Basaglia, promotore della riforma psichiatrica in Italia. La Legge 180 è la prima ed unica legge quadro che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici.