Esistono tanti modi per raccontare l’universo femminile e la rete di rapporti della donna con se stessa e con gli uomini. La donna sul palco - Elena Lietti con "Posso uscire anche a mezzanotte" - ne ha scelto uno tra i più potenti: l’autoironia.
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olevamo emozionarci a teatro, volevamo una prospettiva nuova nuova su cose vecchie vecchie come le differenze tra uomo e donna, volevamo un modo originalissimo di festeggiare l’8 Marzo senza scadere nel delirio da ormoni impazziti? Ce l’abbiamo fatta. E mai titolo fu più azzeccato per il tema a cui introduce.
Lo spettacolo ha visto Elena Lietti protagonista di quattro monologhi, scritti a partire da Il caso di Alessandro e Maria di Giorgio Gaber e Sandro Luporini e da L’attesa di Franca Valeri. Il tutto condito con la fantasia disneyana di Biancaneve e di Una principessa con la pistola, dalla scrittura di un’attrice che ha dentro un mondo vivace e scintillante tutto da raccontare.
Una donna si prepara mentre aspetta che arrivi il suo uomo, e nel frattempo saltella da un punto all’altro del bagno, accenna improbabili passi di danza, si guarda allo specchio e cerca l’espressione più vicina alla bellezza ideale, si raccoglie i capelli e poi li ravvia con un colpo di collo che ha dell’illusionistico. Ma soprattutto, vaneggia e farnetica tra l’eccitazione dell’attesa e il timore che lui non verrà.
Una Biancaneve, che ha ben poco di fiabesco, mescola con difficoltà ma con tanta buona volontà la voglia di essere tradizionale («Cucinerò, rassetterò, laverò per voi» pronunciato con una vocina assai inquietante) e l’indole tutta moderna alla “vorrei ma proprio non mi riesce, però che stanchezza!”.
E poi c’è la donna che tutte, almeno una volta, siamo state: quella del primo appuntamento, che asseconda ogni genere di luogo comune, dalla cui bocca fuoriescono a intermittenza imbarazzanti risate isteriche, frasi improbabili che tentano di definirci inquadrandoci in un «IO sono fatta COSÌ» (quasi esistesse un modo unico e definitivo di descrivere una personalità); quella donna che cerca affannosamente passioni comuni col suo interlocutore e lancia gridolini di avvenuta conquista quando ne scova uno, e che parla del tempo con un inesauribile interesse perché, si sa, dopo un po’ i discorsi si esauriscono. E poi la passeggiata verso casa, e poi il bacio al portone, e poi e poi e poi.
Ma anche le principesse si ribellano. Già: non sempre le principesse sono quelle che attendono l’arrivo di chissà quale Marcantonio, o meglio, lo fanno ma dopo un po’ si stufano. Vogliono conquistare da sé la propria libertà e vogliono dettare anche loro le regole del gioco. E allora si arrabbiano, ma il furore le rende contraddittorie, impacciate, di un’aggressività remissiva.
«Stai zitto, non fiatare. Ma insomma, arrabbiati un po’! Insultami, litiga con me, e ammira il modo in cui ti tengo testa! Oltre alla mia bellezza, mai appariscente, ma innegabile. Innamorati, disperati e poi inginocchiati e chiedimi di sposarti. Nooo! Sarò libera di cambiare idea?! Guarda come fai schifo, lì a strisciare per me. Dichiarami il tuo amore, non ce la fai perché hai paura dei tuoi sentimenti, sei innamorato di me ma ancora non lo sai, sarai stato traumatizzato da qualche stronza prima di meee! Vattene e non farti più vedere. Aspetta, non dicevo sul serio, dove sei andato..?»
Potrebbero essere aspetti diversi della stessa persona, alternanze di lucidità e follia. Potrebbero essere persone diverse del tipo: “Guarda quanto sono diverse le donne” o “Meno male che io sono così e non così”. Potrebbero anche essere momenti diversi di una stessa storia d’amore: l’entusiasmo infantile e l’eccitazione iniziali, la sensazione di essere sospesi nel vuoto (ma sempre un po’ più giù di tre metri sopra il cielo, si spera), quella rabbia per un’attesa frustrata che si trasforma in un’accondiscendenza da mamma sempre accogliente dopo due sole paroline dolci, quel punto di non ritorno che si raggiunge quando si è toccato il fondo.
Esistono tanti modi per raccontare l’universo femminile e la rete di rapporti della donna con se stessa e con gli uomini. E per non ridurre ai minimi termini la formula di questo stupefacente (in tutti i sensi) spettacolo, la donna sul palco ne ha scelto uno tra i più potenti: l’autoironia. Che l’ha portata a travestirsi a seconda del ruolo sociale che di volta in volta ci troviamo a interpretare, a dichiarare la sua difficoltà nel farlo, a indossare in fondo una mise minimale come a rendere manifesta nient’altro che l’essenza, l’unica cosa che conta.
Forse ci hanno confinate in questa condizione di attesa. Ma forse noi vi ci siamo così bene adattate che potremmo e vorremmo anche gestirla noi, adesso. Una cosa tipo “Sono sul divano ad aspettarti, ma questo divano l’ho comprato io e ne ho scelto il colore”. Chi lo ha detto che non ci piace essere tradizionali, Donne con la D maiuscola; uomini, chi l’ha detto che vogliamo assomigliarvi a tutti i costi o che non ci va più di aspettarvi?
Sì, un’attesa. Tanto forte e sentita allora da essere personificata, pronta a scendere a lievi compromessi pur di completare il percorso prestabilito. E poco importa se lo ammazzeresti, se ti ha fatto aspettare, se ti ha telefonato all’ultimo e ti ha detto che era talmente in ritardo che era meglio non venire del tutto, o che mentre lo aspettavi era già alla stazione pronto a prendere un treno. E più si allontanava dall’idea di raggiungerti e più lo inseguivi trovando una soluzione approntata al momento: «Potremmo andare al secondo spettacolo, passa anche solo due minuti così ti saluto, ti raggiungo alla stazione, che importa se è tardi, sono autonoma, figurati, non devo rendere conto alla mamma dell’ora in cui esco, posso andare e venire quando mi pare. Posso uscire anche a mezzanotte».