Dossier: L'amore (di questi tempi). Una storia normale, attuale, ma nello steso tempo eterna circa le sorti degli esseri umani. Il rapporto misterioso tra amore, morte e follia.
“Dite, o vecchio giusto, e tu, donna degna di tanto marito, che cosa avete da chiedere”. Filemone, scambiate poche parole con Bauci, dichiarò agli dei il pensiero concorde di entrambi:” Chiediamo di essere sacerdoti e custodi del vostro tempio; poi, come abbiamo vissuto sempre uniti, la stessa ora porti via tutti e due”.
Ovidio, Metamorfosi, VIII, 686-695.
H
o sempre creduto nella funzione catartica dell’opera d’arte, soprattutto del teatro e del cinema. Catarsi vuol dire purificazione, superamento delle proprie passioni, capacità di vedere dall’esterno e dall’alto sé stessi nelle vicende della propria vita, soprattutto in quelle più drammatiche.
Per questo, da ultra-ottantenne, e approfittando di una assenza di mia moglie, sono andato a vedere il film Amour di Michael Haneke: il dramma di due miei coetanei nella fase conclusiva della vita.
L’antefatto non viene raccontato, ma è importante immaginarlo. L’affettuosità dei comportamenti reciproci, l’appartamento signorile in cui vivono nel cuore di Parigi, tutto testimonia un amore in un certo senso assoluto di una coppia legata dalla comune passione e impegno professionale per la musica.
Inesorabilmente, accade che la moglie si ammali in modo irreversibile e progressivo, trasportando anche il marito in un vortice dall’esito tragico.
Una storia normale, attuale, ma nello steso tempo eterna circa le sorti degli esseri umani.
Lui (impersonato da Jean-Louis Trintignant) si trova di fronte al problema di dover scegliere tra assistere egli stesso la propria sposa (Emmanuelle Riva), oppure, come suggerisce la figlia e tutte le persone “ragionevoli”, portarla in un istituto per anziani (conosco bene tutte e due le esperienze: ho assistito per anni un fratello affetto da una malattia rara, ho portato mia madre anziana in una “serena” casa di riposo). Sceglie di assistere la moglie, che gli aveva chiesto di “non portarla mai più in un ospedale”. Lo fa con una naturalezza straordinaria, diventa il suo compito quotidiano e completamente assorbente, non gli causa nessuna sofferenza. Il suo comportamento è così convincente, che ti fa dire: “Dovesse capitare a me, voglio fare così, con lo stesso spirito. Cosa potrebbe esserci di più importante?”.
Fin qui, il film potrebbe essere scelto dalla CEI (Conferenza Episcopale Italiana) per un premio alla dedizione e all’amore.
Ma la scelta del protagonista non è ispirata da una visione religiosa, bensì, si potrebbe dire, da un’etica laica. O forse di più: dall’amore in quanto tale, astratto dalla realtà. Certi momenti richiamano alla mente i film surrealisti di Cocteau, in particolare la scena finale, in cui la figlia immobile guarda l’appartamento svuotato, sparito: l’assurda contingenza delle cose.
Improvvisamente, l’uomo comincia a dare segni di squilibrio mentale. E la storia si conclude con un annullamento prima della compagna, e poi di sé stesso.
Ma il dramma mi ha fatto ripensare anche a un aspetto eterno delle vicende umane, che forse oggi fa sorridere molti ma, a mio parere, per pura inconsapevolezza e rimozione: il rapporto misterioso tra amore, morte e follia.
La letteratura in proposito è infinita, e spazia dall’Orlando Furioso al dramma di Carmen e Don José. Ma anche la realtà dovrebbe indurci a meditare sul perché delle tragedie, familiari e non, che i media ci raccontano ogni giorno.
Stranamente mi è tornata alla mente la leggenda, questa volta di due giovani, splendidamente narrata da Virgilio nelle Georgiche: Orfeo e Euridice. Orfeo era anch’egli un musicista straordinario, ed era perdutamente ed esclusivamente innamorato di Euridice. Quando questa morì, morsa da un serpente mentre fuggiva da un pretendente che la insidiava, Orfeo scese negli inferi per farsela restituire. Con la sua cetra e il suo canto commosse a tal punto gli dei infernali da convincerli a violare la legge dell’irreversibilità della vita. Riconsegnarono ad Orfeo la sua amata, a una condizione: che non si voltasse a guardarla prima di tornare sulla terra. Ma nel cammino verso la luce, preso da un’improvvisa follia Orfeo si voltò, vanificando in un attimo la sua straordinaria impresa. Si mise allora a vagare disperato in luoghi gelidi e inospitali, “ammansendo le tigri e trascinando col canto le querce”, ma soprattutto rifiutando di unirsi con qualsiasi altra donna. Cosa che certe baccanti considerarono così offensivo da materializzare la sua follia: in un’orgia notturna ne dilaniarono il corpo.
Ma oltre a questa leggenda, me n’è venuta in mente un’altra, ancora di vecchi, e raccontata da Ovidio: quella di Filemone e Bauci. Che poverissimi e innamorati l’uno dell’altra per tutta la vita, accolsero una sera due viandanti che chiedevano ospitalità. Nella loro miseria e frugalità li trattarono con grande stile e lietezza, quasi un "pranzo di Babette" in una capanna. Ma guarda caso, si trattava di Giove e Mercurio. Giove gli chiese: “Qual è il vostro desiderio più grande?” Risposero: “Quello di morire insieme”. Quando venne il momento, furono trasformati in due alberi, con i rami intrecciati in modo inseparabile.