Dossier: L'amore (di questi tempi). L'amore di altri tempi. Appunti tra dialetto, amore e sesso. “Amor, pancia, rogna e toss in coss che sa fan conoss” (Amore, pancia, rogna e tosse sono cose che si fanno capire)
L'
amore tra persone, uomo e donna in particolare, comprendendo ovviamente anche il sesso, interessa un difficile rapporto con il nostro dialetto e quello lombardo in genere. Nel dialetto le espressioni gentili e amorevoli, come le intendiamo in italiano nel rapporti amorosi, non sono molto presenti anzi sembrano non voler appartenere al carattere presunto “virile” delle espressioni.
Anzi dai proverbi e detti si desume un atteggiamento grossolano come pensiero e costume rivolto alle donne in particolare ed ai sentimenti. Anche le canzoni in dialetto, come ad esempio quelle cantate da Svampa sottolineano aspetti comici dell’amore e del matrimonio.
Un verso provenzale del 1170 di Bernart de Ventadorn, come:
Ai, las! Tan guidava saber
Ahimè! Tanto credevo sapere
d’amor, e tan petir en sai!
Car eu d’amar no’m posc tener
Celeis don ja pro no aurai.
Tolto m’a il cor, e tout m’a me,
e se mezeis e tot lo mon:
e can se’m tolc,no’m laisset re
mas desirer e cor volon.
(Ahimè! Tanto credevo sapere d’amore, e tanto poco ne so! Che non posso tenermi d’amare quella da cui nulla mai otterrò. Tolto mi hai il cuore, tolto mi ha me stesso, e se stessa m’ha tolto e tutto il mondo: nulla, togliendomisi, m’ha lasciato se non desiderio e cuore bramoso.)
troverebbe difficile e anomala traduzione in lombardo. Pure tra i “trobador” vi erano numerosi italiani che viaggiavano e stavano dalle nostre parti tanto da scrivere anche sulla Lombardia.
Spesso il nostro dialetto sfugge, quasi si trattasse di una autocensura, da termini espliciti di amore e gentilezza, rifugiandosi sovente in espressioni ironiche e anche grottesche, spregiative che assumono volta per volta il carattere di insulto o complimento a seconda del contesto.
I Trovatori provenzali insegnarono a parlar, novellar e cantar d’amore a gran parte d’Europa, compresa l’Italia, dal sud al nord e fu una grande stagione di rinnovamento di pensiero e rapporti umani.
Stefano Protonotaro in Sicilia, sempre agli albori delle lingue che sostituiranno il latino, canta d’amore:
Pir meu cori alligrari,
chi multo lungiamenti
senza alligranza e joi d’amuri è statu,
mi ritornu in cantari
(per rallegrare il mio cuore, che molto a lungo è stato privo di allegrezza e gioia d’amore, ritorno a cantare..)
Sottolineo come il tema d’amore partecipò allo sviluppo delle lingue romanze e non solo, con linguaggio e sensibilità che ancora colgono la nostra fantasia di letteratura e d’amore nella vita.
Al Nord d’Italia, anni dopo, non è dominate il canto d’amore laico, ma quello religioso, didattico, proverbiale, morale o di costume, qualche volta irriverente e ironico, cito solo la “Invettiva contro amore” di Auliver, veneto, precursore dei maccaronici:
Eu, las zaitif, fais aisì con’ chi struza
Al zeuch, et altri n’ha’plaxir e l’asio;
e, quand eu cred meilg brancar zoi, el me muza,
et eu rimang col cor smarid e sfrasio;
Amor sovent tute el corp me speluza,
(Io, che sono infelice, faccio così con chi patisce al gioco, e altri ne hanno piacere e vantaggio, e quando penso di afferrare la gioia, essa mi sfugge e rimango col cuore smarrito e disfatto)
Non voglio qui dilungarmi perché di altro voglio parlare, ma mi sembra importante segnalare come i nomi, le parole, gli atteggiamenti, la struttura di una lingua vengano da lontano, anche da molto lontano, come spesso, per i toponimi di luoghi a noi domestici.
Il nostro dialetto, a differenza di altri, non ha avuto storicamente un periodo di esplicita dignità di lingua se non per la grande figura di Carlo Porta. Questo grande poeta non sfugge al tema di oggi e a un rapporto particolare tra amore e lingua, amore e dialetto che rifugge dalla “dolcezza” insita nel tema e che ha caratterizzato molti aspetti della espressione letteraria e poetica del nostro Paese e nella stessa figura della donna.
Tornando a bomba, poteva capitare che incontrando un conoscente si dicesse: “cuma la stà cala louggia da tua surela e sal fa cal asan da to fredell?” (come stà quella porca — troia — di tua sorella e cosa fa quell’asino di tuo fratello?) e quello tutto contento rispondeva “stan tucc ben, sensa travai e ti, cume mai te na mo da murì?” (tutti bene e senza fastidi e tu come mai non sei ancora morto?). La espressione di amicizia e gentilezza si doveva riconoscere dal modo di esprimere la frase, dal tono di voce e dal contesto in cui si esprimeva, non evidentemente dal contenuto specifico che avrebbe potuto essere, con altro tono, molto offensivo.
Nel contempo nel nostro dialetto la “volgarità” è nobilitata alla normalità di espressione nel linguaggio comune, sia popolare che nobile, ma ciò nulla toglie ad altri aspetti che poi saranno meglio evidenziati, di un costume poco attento ai sentimenti ed al rispetto della donna. Fino ad anni non così lontani le famiglie nobili milanesi si esprimevano in dialetto, non certo come la nobiltà russa che per distinguersi usava come prima lingua il francese, ma penso, per identità territoriale e facile comunicazione con il proprio personale di servizio e di lavoro. In questo senso sono esplicite le poesie di Carlo Porta che sovente si rivolgono direttamente, come servizio (ad esempio per celebrazioni) o come esplicita ironia, quasi pasquinate, a personaggi d’epoca, compreso Napoleone con la doverosa irriverenza propria del linguaggio dialettale e del suo stile.
Spesso anche l’accostamento sembra determinato da una scelta di abbrutimento tra cose che non hanno relazioni se non di sprezzo, ironia o comicità. “Non gh’è sabet senza sul, no ghe dona sensa amur, no ghe pràa senza erba e non ghe camisa sensa merda” (Non c’è sabato senza sole, non c’è donna senza amore, non c’è prato senza erba e non c’è camicia o mutanda senza merda).
Un accostamento tra cielo, l’amore della donna, la natura dei prati e la merda sulla camicia, quasi a significare che le cose belle debbono essere sempre riportate ad una realtà non certo romantica.
“Per il mal d’amur hin pocch i rimedi, immurtalàa in canson, pouesia, tragedi; al sa cura in dal lett, per un destin tant stramb la medesima se troeuva in mess aj gamb.” (Per il mal d’amore sono pochi i rimedi immortalati in canzoni, poesie e tragedie, questo male si cura, per un destino molto strambo, con una cura che si trova in mezzo alle gambe). Come si vede il detto dialettale arriva presto al sodo senza tanto rigirare.
L’amore e il sesso si sovrappongono, sovente l’amore diventa un limite, una malattia e come tale da trattare. La donna è infedele, chiacchierona, avida, mangiatrice di uomini, bugiarda . “L’amur e i donn la san lunga” (L’amore e le donne la sanno lunga) esprimendo un concetto critico e sospettoso di equivalenza tra amore e donna; “L’è dificil troeuvà ul medigh de la malatia de l’amur” (È difficile trovare il medico per la malattia d’amore); “Quej che gh’han indoss la fevra de l’amur se ne fan nigott de decott e dutur” (quelli che sono colpiti dalla febbre d’amore non se ne fanno nulla di decotti e dottori); “A fa perfett la dona hin minga assè tri B: brava, bela, bona, ghe voeur anca i daneè” (a rendere perfetta una donna non bastano tre B: brava, bella e buona, ci vogliono anche i soldi). Un concetto questo ricorrente in molti proverbi e detti; “Del ramm e del curamm, anca i donn con pù se batten pù diventann bon” (come per il rame e il cuoio, anche le donne con più si battono con più diventano buone). Infelice proverbio a dimostrazione di un costume di violenza anche popolare e maschile verso le donne; “I donn gh’han pront i lacrim come la pisa i cann” (Le donne hanno pronte le lacrime come i cani la pipì); “El cor di donn l’è fàa cumè un melon, a chi ghe na d’ha una feta, a chi un bucon” (Il cuore delle donne è fatto come un melone, a chi ne danno una fetta e a chi un boccone); “La dona, per pinina che la sia, el diavul la surpasa in furberia” (La donna anche la più piccola, sorpassa in furberia il diavolo).
Ma anche, rinsavendo qualche volta: “Quand se voeur ben se n’ha a maa da nagutt,” (Quando si vuole bene non si ha paura di niente).
Molto diverso il modo di esprimersi in dialetto in altre aree de paese, per quanto ne sappia, sia nel Centro Italia che al sud o in altre lingue romanze come per la bellissima stagione di trovatori sopra citata. Con precisazioni necessarie sul fatto che spesso in espressioni e poesie dialettali, in genere, prevale l’ironia sia sottile che pesante, l’essere sarcastico e irriverente, come in particolare negli autori romani, dice il Belli sulle romane:
Nun ce sò donne de gnisun paese
che pòssino stà appetto a le romane
ner confessasse tante vorte ar mese
e in ner potesse dì bone cristiane.
…..
Averanno er su’ schizzo de puttane,
….
ma a divozione poi, corpo d’un cane,
le vederai ‘gnisempre pe le chiese.
……
E pe la santa Casa der Signore
è tanta la passione e la smaniaccia,
che ce vanno pe fà sino a l’amore.
E a Sondrio, di rimando, simbolicamente o meno, e sempre di Chiese parlando: “Le miga bela la gesa se la gh’ha miga un bel campanil” (Non è una bella Chiesa se non ha un bel campanile”).
Ma a Bergamo, parlando di dolcezza, non scherzano sull’amore e sesso: “Tira pio tant u pel de potana che sento caài che trota” (Tira di più un pelo di signora che cento cavalli che trottano).
Da noi come leggerezza per i rapporti amorosi, come si è già notato, non si è certo da meno:
Nel bus che i donn gh’han suta al ventar, l’è un bel vizi metagal dentar; dopo ul gioeuch, quand ul fund s’è tucàa, l’è a tirall fora che l’è un pecàa.” (Nel buco che le donne hanno sotto il ventre , è un bel vizietto metterlo dentro; dopo il gioco, quando si è arrivati alla fine, è a tirarlo fuori che è un peccato).
Fortunatamente, anche se raramente, si parla anche d’amore: “Ama se te voeu ves amà” (Ama se vuoi essere amato), oppure: “L’amur la fa de tutt. L’amur al supera tuscoss.” (L’amore fa fare di tutto. L’amore supera ogni ostacolo”; “I donn hin la fin dal mund” (Le donne sono la fine del mondo).
Ho trovato anche, tra tanti luoghi comuni e offese per le donne considerate cose: “Al scur i donn hin tucc bej a una manera” (Al buio le donne sono tutte uguali), anche una ammissione tirata, tirata: “Tucc parlen ma di donn, ma ghe né puranca de bon” (Tutti parlano male delle donne, ma ce ne sono anche di buone).
In genere l’organo femminile è sottinteso, raramente simboleggiato, ma compreso nel termine generale indicante la donna, mentre l’organo maschile acchiappa ogni simbolo di erezione che appartenga al lessico familiare, di lavoro o del paesaggio urbano e naturale. Si è già citato del “campanile”: “Dona, danasion de tucci jusej fin tant che in minga faà a brandej” (Donna dannazione di tutti gli uccelli fino a tanto che non sono ridotti a brandelli). A Mantova, le donne al lavoro nei campi, per prendere in giro alcune compagne e gli attributi dei loro mariti, dicevano e rilanciavano “Chi gh’l’ha dor e chi ‘dargent, e chi gh’l’ha da gnent” (Chi c’è l’ha d'oro e chi d’argento, e chi c’è l'ha di niente).
A Milano si diceva “Trav in pè e dona in pian, tegnen su el Domm de Milan” (Trave in piedi e donna in piano tengono su il Duomo di Milano). In effetti anche oggi, i recenti (e non solo) scandali politici danno ragione al proverbio pavese sopra citato che trova riscontro anche nel nostro dialetto “tira pusè un pel da fioca che quatar cavaj tacà alla scoca.” (Tira di più un pelo di fica che quattro cavalli attaccati alla scocca).
Anche la bellezza o meno della donna e il matrimonio hanno parte rilevante nei proverbi ed in genere prevale una volgarità minore o una ironia più leggera, ma sempre l’atteggiamento prevalente è negativo.
“La dona bela l’è cumè un bombon, la gha fa gula a tucc i muscon, gha gira inturno tucc i rondon e tucc na vurarian un bucon” (La donna bella è come un bombon, fa gola a tutti i mosconi, le girano intorno tutti i rondoni e tutti ne vorrebbero un boccone).
“El vin e i donn trann a l’ari ul coo” (Il vino e le donne fanno andare fuori di testa); “I donn veduv gh’han el diavul adoss” (Le donne vedove hanno il diavolo addosso); “Chi se spusa d’amur crepa da rabia” (Chi si sposa per amore muore di rabbia); “El primm ann brazz a brazz, el secund pattej e fass, el terz ann cuù a cuù, el quart ann, quant mai t’hoo cugnusu” (Il primo anno a braccetto, il secondo coi pannolini e le fasce, al terzo culo contro culo, e al quarto anno: quanto mai ti ho conosciuto); “I consulasion d’un omm hin du, quand al mena a cà la spusa e quand la portan via”( Le consolazioni di un uomo sono due, quando porta a casa la sua sposa e quando la portano via) . Vi sono però anche molti proverbi che assomigliano a consigli popolari: “Un omm sensa un tuchell de mieè l’è un muscon sensa coò e sensa peè” (Un uomo senza una moglie, comunque sia, è come un moscone senza testa e senza piedi); “Bona mieè fa bon marì” (Buona moglie fa buon marito) . E alle donne: “Putost che restaà con un palett, spusa un vegett” (Piuttosto che restare come un paletto, sposa un vecchietto). “Ul destin d’oman e donn l’è stramb, a volt sa decid tuscoss in mess ai gamb” (Il destino degli uomini e delle donne è strambo, a volte si decide tutto in mezzo alle gambe); “La merda l’è la richessa di spus” (La merda è la ricchezza degli sposi). “L’amur l’è minga pulenta, l’è un basin de menta” (L’amore non è polenta, è come un bacino di menta); “Nè a tavula nè in lett, ghe vor minga da rispett” (A tavola e a letto si può fare tutto); “Dona bruta la fa i bej gioch” (Donna brutta sa fare bei giochino).
Il Porta fu un grande poeta e solo la limitazione del dialetto non lo ha fatto comprendere pienamente, come è stato, per esempio, per gli autori veneti o quelli dove il dialetto corrisponde anche ad una etnia storica. Non è un caso che fu compreso prima dalla storiografia letteraria di autori del sud che del nord semplicemente perché dovevano tradurlo per capirlo. Non poteva che lasciare stupiti che nel 1815 da noi, qui nel milanese (il Porta ha soggiornato anche a Monza) si potesse parlare d’amore e di sesso con un poemetto dal titolo. “La Ninetta del Verzee”. Oltre cinquanta strofe in cui la Ninetta racconta la sua vita e come sia diventata prostituta. Come nei proverbi qui citati e a dimostrazione della libertà del linguaggio dialettale al di la della volgarità del contenuto (se detto in italiano) il Porta si esprime con grande realismo e modernità. Comincia il poemetto in attesa dell’erezione del cliente e termina con la richiesta alla serva del catino per lavarsi:
Bravo el me Baldissar!
Bravo el me nan!
L’eva poeu vora de vegni a trovamm;
Tel set, mattascion porch, che menemann
L’è un mes che no te vegnet a ciolamm?...
…ahja i me tett!
Che bel cojon, sont minga on scoldalett.
Pover tett, nèe! Te sentet com’hin froll?
…….
Ven scià.. settet giò on poo..già l’è anmò moll..
…..descorrem un poo,
Che subet che l’è all’orden te la doo.
E poi la Ninetta racconta la sua storia e le sue vicissitudini dell’amore che la portata a fare la prostituta. Al termine della sua storia termina anche la prestazione:
L’ha ciapaa sto cioll! Scià, sciaà el me nan,
dammel, car…teou.. l’è tova…oh dio.. Ciccin!
Vegni!…Vegni!.. ghe sont!... Cecca, el cadin!”
(Bravo il mio Baldassare! Bravo il mio bambinone! Era ora che mi venissi a trovare. Lo sai, mattacchione porco, che ormai è un mese che non sei venuto a ciurlarmi?... Hai le mie tette! Che bel coglione, non sono mica qui per scaldare il letto. Povere tette né! Senti come sono frolle? …Vieni qua .. siediti un po’.. tanto è ancora molle.. chiacchieriamo un po’, che appena ti tira te la do.)
Porta scrisse anche sonetti di contenuto erotico, alcuni molto divertenti, sempre in dialetto e molti dei quali volle fossero distrutti prima di morire.
Anche la storia dell’amore tradito nel poemetto dal titolo “Lament del Marchionn di gamb avert” (lamento del Minchione dalle gambe aperte) merita una lettura, per parlare di amore e dialetto in una storia di sempre. Lui bruttino, con le gambe storte, suona il mandolino nelle balere dei primi dell’800. Conosce lei, bella che faceva la bella vita, non solo lo tradisce, ma gli ruba tutto scappando con un altro. Amore complesso nella Milano del 1816. Un poemetto lungo, articolato in tre parti.
Nelle tante pagine del Porta, che per me è un piacere talvolta rileggere, trovate comunque la conferma del difficile rapporto tradizionale e letterario tra amore e dialetto nostro. Difficile perché l’amore è sempre stimolo letterario all’ironia, alla commedia e allo scivolamento erotico e sessuale, come se il linguaggio, le parole che compongono il nostro dialetto non fossero adatte alla tenerezza che pure l’amore ispira. Come se la figura della donna che pure è stata in gran parte anche ideale nella nostra letteratura delle origini e moderna, ma anche nelle canzoni e filastrocche popolari, fosse passata sopra, per contenuti e modalità di espressione, sul nostro dialetto. Non certo nel costume dato che rapporti moderni e antichi della nostra zona hanno sempre motivato il rispetto e legame tra i sessi e nell’amore oltre che nel matrimonio e nei ruoli. Non a caso nelle Cascine patriarcali, sino a non molti anni fa, c’era il Regiù e la Rigiura ed era lei a tenere le chiavi di tutto l’ambaradan appese alla cintura. Il Contadino, alle prime nevi, si chiudeva in casa tirando il paletto, si sedeva con la moglie davanti al fuoco de camino e diceva: “Pan vin e gnoca e poo cà fioca” ( Pane vino e gnocca e che fiocchi pure).
Ho sempre pensato che il Porta non fu perseguitato perché in dialetto pochi lo potevano leggere, ancor meno che in italiano. La sua poesia ha contenuti e forme meritevoli di un legame con i centri cosmopoliti, come Parigi, dove la libertà di espressione e di stampa non solo era di natura sociale e politica, ma anche per le avanguardie letterarie oltre che artistiche in genere. Aveva anche un legame profondo con un dialetto ostico alla gentilezza e facile alla volgarità.
Vorrei terminare con un proverbio positivo sull’amore, anche se in questo maledetto dialetto non gentile:
“Luntan dai oeucc luntan dal cor, ma se l’è amur sincer, nol moeur
(Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, ma se l’amore è sincero, non muore)
Ho voluto dare un panorama e ho tralasciato molte cose, per cui il risultato è frettoloso. Spero comunque che alcune idee e citazioni, tra nostro dialetto (visto con i proverbi e alcune citazioni letterarie), amore e sesso, possa incuriosire. Magari mi verrà voglia di continuare.