Dossier: Spazi comuni, luoghi di socializzazione. Incontro con Andrea Pontiroli, fondatore del Magnolia e autore del libro in cui si spiega come organizzare una serata di musica live di successo
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a musica è una delle principali modalità di espressione e di socializzazione, è stato così dagli albori della civiltà fino ad oggi, partendo da forme rituali per piccoli nuclei per giungere, soprattutto a partire dagli anni ’60, alla creazione di eventi, i concerti, in grado di accomunare un numero enorme di persone, con un impatto sulla società di forza a volte devastante.
Andrea Pontiroli sa come si organizza un concerto, lo dimostra praticamente ogni giorno, estate ed inverno, al Circolo Magnolia e con Godzillamarket, l’agenzia di booking che cura tra gli altri i Ministri. Da un paio d’anni a questa parte ha deciso di insegnare quest’arte (che poi tanto arte non è) anche ad altre persone tramite un corso che si tiene proprio presso l’Arci dell’Idroscalo. Da quest’esperienza è nato “Un concerto da manuale – Soluzioni semplici per organizzare spettacoli”, un libro basato sulle dispense del corso e uscito pochi mesi fa per la NdA con l’intento di divulgare il più possibile le regole d’oro per la riuscita di uno spettacolo musicale, dalla serata in un piccolo locale per poche persone fino al grande festival.
Abbiamo seguito la presentazione del libro di Andrea, accompagnato per l’occasione da Filippo Cecconi, responsabile della comunicazione del Magnolia nonché membro ormai stabile dei Ministri, tenutasi presso lo Spazio Tribù di Cantù, un luogo centrale per la fertile scena rock della cittadina comasca. Davanti a un buon numero di persone, in gran parte attive nell’ambito musicale, Pontiroli ha parlato a ruota libera, dimostrando innanzitutto vera passione per ciò che fa e, oltre a questa, una serie di idee lontane dai luoghi comuni e dalla mentalità tipicamente italiana, fatta di amicizie, favori e furberie, che purtroppo contraddistingue anche il settore della musica live nel nostro paese.
Dopo il suo intervento abbiamo avuto modo di scambiare qualche battuta con l’autore del libro, per capire ancor meglio cosa lo spinge a lavorare in questo ambito e a cercare di organizzare il Concerto Perfetto.
Quando si partecipa a un concerto si ha modo di condividere un’esperienza con chi si ha attorno molto più rispetto ad altri eventi
In questi giorni su Vorrei stiamo cercando di analizzare quelli che sono gli spazi di socializzazione oggi. Pensi che i concerti siano ancora un vero luogo di socializzazione o che subiscano anch’essi una crisi di qualche tipo, in base alla tua esperienza?
Assolutamente sì, credo anzi che siano uno dei luoghi più adatti e migliori per la socializzazione, o almeno per me è sempre stato così. Quando si partecipa a un concerto si ha modo di condividere un’esperienza con chi si ha attorno molto più rispetto ad altri eventi. Per esempio è molto più facile scambiarsi commenti ed idee su ciò che accade rispetto ad una serata di dj-set, di musica da ballo, o ad una normale serata in un pub, dove se conosci qualcuno nel 99% dei casi è perché ti è stato presentato da altre persone. Davanti ad un palco invece è più semplice conoscere gente, anche perché già in partenza si sa di condividere qualcosa, la passione per l’artista che sta suonando o per la musica in generale.
Quindi per te è più appagante organizzare concerti rispetto a serate di dj-set?
Sì, anche per motivi professionali. Preferisco organizzare concerti perché ci sono più cose da gestire, un gruppo di persone più complesso e numeroso con cui lavorare. Quindi quando riesce bene la soddisfazione è sicuramente maggiore. Possono poi capitare dj-set particolari, come quello di Sub Focus ieri al Magnolia (ndr. Venerdì 25 gennaio), in cui l’organizzazione deve essere simile a quella di un concerto di una band, per cui anche lì la gioia che si prova nel vedere il tendone pieno è grande.
Sei stato tra gli organizzatori di uno degli eventi sociali e politici più importanti e belli per Milano negli ultimi anni, cioè il concerto davanti alla Stazione Centrale durante la campagna elettorale di Pisapia nel 2011. Com’è stato partecipare alla creazione di quell’evento? Vi aspettavate un successo del genere?
È stato prima di tutto un lavoro di convincimento, perché all’inizio era soprattutto l’entourage di Boeri a spingere per la realizzazione del concerto, mentre chi lavorava per Pisapia gli dava meno importanza. Poi col tempo siamo riusciti a convincere tutti e a lavorare nella stessa direzione. Era un evento che sentivo molto, soprattutto per dare un segnale di attenzione verso la musica, dopo che chi la amava e chi ci lavorava aveva subito un ventennio orrendo, che poteva richiamare il ventennio più celebre per alcune idee portate avanti. Devo dire che alla fine probabilmente è stata la più grande soddisfazione professionale e personale che abbia provato, al di là della riuscita tecnica, che fu limitata per forze di causa maggiore: infatti i tempi per le esibizioni erano strettissimi e l’impianto che avevamo era adatto per un pubblico di ottomila persone, il che significa che le altre ventimila presenti sentivano poco o niente. Però vedere tutta quella gente che aveva voglia di partecipare e che era arrivata lì essenzialmente tramite il passaparola, perché non ci fu grande pubblicità per l’evento, fu una cosa stupenda, la dimostrazione che si aveva voglia di cambiare e che la gente, se stimolata nel giusto modo, risponde.
Credo che anche in un periodo di tempo relativamente breve, cinque anni, sia possibile recuperare molto, un gap che ora come ora è di almeno trent’anni
A proposito di grandi eventi che spostano un numero considerevole di persone, a cosa pensi sia dovuta la differenza di partecipazione e di organizzazione tra i festival europei e quelli italiani?
È essenzialmente un fatto culturale, di chi organizza ma anche del pubblico. Su questo c’è veramente tanto da lavorare, ma sono ottimista. Credo che anche in un periodo di tempo relativamente breve, cinque anni, sia possibile recuperare molto, un gap che ora come ora è di almeno trent’anni. Ci vuole l’impegno e la partecipazione di tutti però, e che questo impegno sia portato avanti con serietà e professionalità a tutti i livelli. Purtroppo questo spesso manca in Italia, guarda ad esempio le varie webzine presenti in rete: quante di queste fanno un vero servizio alla musica? Quanti articoli invece sono dei copincolla o non dicono nulla di interessante e forte? Anche da lì deve arrivare una spinta per cambiare le cose.
Definiresti come “politico” ciò che fai e il modo in cui lo fai?
Sì, senza dubbio. Non politico nel senso di legato a un partito, a un’ideologia o a dei simboli, per esempio non mi interessa avere la bandiera di Che Guevara all’ingresso del locale, anche perché molta gente che ce l’ha poi non sa nulla di ciò che lui ha veramente fatto, ma politico in un senso diverso, quello di portare avanti idee e di condividerle, di lavorare in una direzione precisa.
Quali sono i tuoi sogni come organizzatore di concerti ora?
Mi piace restare legato alla realtà e a ciò che posso effettivamente fare, magari mettendoci un po’ di impegno in più e superando più difficoltà, quindi più che di sogni parlerei di cose che voglio fare e che posso riuscire a fare. Se devo dire il nome di un artista con cui non ho mai lavorato, direi Mike Patton, in particolare col suo progetto Mondo Cane, perché mi piace dal punto di vista artistico e credo inoltre che sia un personaggio che con il suo modo di lavorare ha fatto molto per la musica negli ultimi anni. Poi vorrei provare a confrontarmi anche con l’estero, per vedere se riesco a fare qualcosa di buono anche fuori dall’Italia, per confrontarmi con organizzazioni più grandi, con maggiore esperienza e modalità di lavoro differenti, per tornare con un bagaglio importante di competenze.