La costituente per i beni comuni con Rodotà, l'intervento di Settis, la manifestazione degli storici dell'arte voluta da Montanari e la città de L'Aquila. Un'Italia che non si rassegna
«Lo cunto serrà d'Aquila, magnifica citade
et de quilli che la ficero con grande sagacitade.
Per non esser vassali cercaro la libertade
et non volere signore set non la magestade.»
Buccio di Ranallo, Cronaca aquilana,
vv.9-12 (XIV secolo)1
L'
Aquila. 4 maggio 2013. Un’anziana signora ingobbita dalla ferocia del tempo è seduta su una panchina della SS17. Da lì la città antica arroccata sui colli s’intravede appena.
«Abitavo lì nel centro storico e lì avevo anche un tabacchino». Racconta i momenti concitati della tragedia e la parola ‘angelo’ si ripete quasi ossessivamente quando si riferisce al ragazzo che l’ha portata via da quella che un attimo prima era la sua casa e subito dopo la sua trappola. Una sua compaesana scende alla fermata del bus e lei prontamente le chiede «Un giorno prendiamo un bus e ci torniamo insieme. Mi accompagni?». La risposta è secca: «Ma cosa devi andarci a fare? Non c’è più niente. Non c’è più nessuno». Gli occhi della prima hanno già parlato prima che le parole uscissero dalla sua bocca: «Ma voglio fare una passeggiata nella piazza…».
Ad ascoltare le testimonianze il messaggio è sempre più forte: non è solo la perdita della casa, ma è la perdita della città e quindi della propria identità. «Il fatto è che non hai più il posto dove andavi a fare il caffè, dove andavi a fare la spesa, dove incontravi gli amici, e non sai neanche dove stanno gli amici… è una cosa inenarrabile… capisco che non si può capire».
E ancora: «Siamo cittadini che vivono in cattività, perché non abbiamo più i luoghi del vivere, del passeggio, non abbiamo più le scuole in centro, gli uffici in centro, i negozi in centro».
La piazza è stata sostituita dal centro commerciale: un non-luogo – per dirlo con la definizione sempre efficace di Augè - è stato elevato a centro di aggregazione sociale.
Cenni storici: la piazza
La piazza è storicamente il fulcro di ogni attività sociale, politica, economica su cui sono nati - e continuano a vivere - i comuni italiani.
La storia della fondazione della città dell’Aquila, che attraversò diverse fasi, ce lo ribadisce.
Una lettera apostolica del 7 settembre 1229 c’informa dell’autorizzazione da parte di papa Gregorio IX agli abitanti dei 99 castelli normanni – la tradizione ne conta tanti – che chiedevano di fondare una nuova città, in funzione anti-feudale, fuori dai castelli per potersi liberare dal giogo del baronato normanno. È intorno a quella "piazza" che sorgerà il nuovo agglomerato urbano, il Comitatus Aquilanus, con gli stessi intenti ma venticinque anni più tardi, nel 1254 sotto l’egida di Corrado IV. Esso si fondava per sua stessa costituzione, su una stretta relazione con le altre città limitrofe e il paesaggio circostante, che ne costituiva la vita economica.
Se cerchiamo una traduzione figurativa, forse la possiamo trovare nei dettagli di vita (intra ed extra-moenia), nei personaggi e nei mestieri rappresentati nella senese “Allegoria del Buon Governo” di Lorenzetti (seppure più tarda di quasi un secolo).
Marcello Vittorini, urbanista aquilano di grande rilievo - ripetutamente ricordato durante l’incontro del 5 maggio per gli storici dell’arte - ha mostrato come L’Aquila sia stata fondata in ossequio al principio secondo cui la costruzione di spazi pubblici dovesse necessariamente anticipare quella di spazi privati: «La città è cinta da mura che hanno 86 torrioni e 12 porte e lo spazio da esse delimitato (ben 167 ettari) è diviso "in croce", cioè in quattro "quarti", articolati in 54 "locali": spazi destinati all'insediamento degli abitanti provenienti dai centri fondatori, dimensionati secondo la loro consistenza demografica. Secondo gli "Statuti" della nuova città, gli abitanti possono insediarsi "uti singuli" nei locali, solo dopo aver realizzato collettivamente, "uti socii", la piazza, la chiesa, la fontana. Cioè, all'epoca, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria».
L’Aquila oggi
Oggi, nel XXI secolo - ce lo ricorda Salvatore Settis -, la nobile storia della città viene infangata dalle parole dell’onorevole (!) Stracquadanio che così interviene alla Camera, precisamente il 7 agosto 2010: «L’Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile; il governo avrebbe voluto fare una nuova università, una Harvard italiana, e ci è stato detto che volevamo cementificare».
Senza dilungarsi troppo sull’oscenità della dichiarazione di questo onorevole, mi piace, a questo punto, ricordare i racconti di Irene, aquilana e attivista di 3e32 e Appello per L’Aquila, di chi, dunque, quella città “moribonda” la viveva nella sua serena quotidianità e che non credo avesse mai sentito l’esigenza di un’Harvard su modello americano che potesse sostituire la tradizione di una Università che, fondata nel 1458, vanta una rinomanza non inferiore a quella di Bologna, Napoli, Siena, Perugia e che è sopravvissuta a traumi sismici nel ‘600 e nel ‘700. Mentre mi accompagna tra le silenti rovine della città antica, Irene mi parla del valore aggregativo che L’Aquila aveva, non solo per se stessa, ma anche per tutto l’hinterland. «Da quel momento è cambiata la quotidianità stessa. È cambiato tutto il processo che girava intorno al centro dell’Aquila. Da una città a dimensione d’uomo siamo passati a vivere coi ritmi di una grande città. Prima in una giornata riuscivo a fare molte cose, facevo tutto a piedi, era tutto qui. Ora devo prendere la macchina e perdere un’ora solo per comprare il pane. La città ha subìto una grande speculazione edilizia: la stessa che vive praticamente ogni città italiana nell’arco di anni, decenni. Qui è successo tutto repentinamente. La stessa mobilità è assente. Non ci sono neanche gli orari dei bus. Devi andare su internet per avere informazioni».
Il post-terremoto
Nei giorni che hanno seguito quel 6 aprile del 2009 la Protezione Civile, mentre era intenta ad attrezzare le tendopoli, divulga il famigerato Metodo Augustus quale approccio alla pianificazione delle emergenze, di cui riporto uno stralcio più significativo:
«La popolazione è comunque sempre coinvolta nelle situazioni di crisi, sia emotivamente, sia fisicamente. Se la sua controparte istituzionale sarà sufficientemente autorevole e determinata, la maggior parte dei cittadini sarà disponibile ad abdicare alle proprie autonomie decisionali, a sottoporsi a privazioni e limitazioni, ad ubbidire alle direttive impartite. Un chiaro piano di comunicazione [...] permetterà una più agevole accettazione delle misure adottate. Non solo: qualora il precipitare degli eventi lo rendesse necessario, sarà più facile imporre una disciplina più ferrea e chiedere sacrifici più duri. [...]».
Si trattò di un’ordinaria sospensione, dovuta alle tutele democratiche sancite della Repubblica Italiana, che avvengono in ogni situazione di eccezione, di necessità o di emergenza, agendo in deroga alle leggi. Ci sarebbe molto da scrivere e molto è già stato scritto su questo argomento, pertanto non mi dilungherò in questa sede.
Gli aquilani si sono trovati a vivere in un vero “stato d’assedio” - come è avvenuto in altri momenti drammatici della storia italiana -, in tendopoli in cui non era possibile fare volantinaggio, fare assemblee o riprese. Insomma un vero ghetto da cui, verrebbe da dire, gli aquilani non sono ancora del tutto usciti. Le new towns, costruite successivamente, sono “corpi estranei” che hanno perpetuato un insabbiamento del vivere civile.
Il progetto c.a.s.e. (Complessi Antisismici Sostenibili Ecocompatibili), cinico fin nel suo stesso acronimo, nasce con l’esplicita volontà di allontanare i cittadini dal loro centro storico, di trasformare L’Aquila in una sterminata periferia e di rendere questo stato di cose permanente.
Il paradigma di questa strategia (anti)culturale, da shock economy d’ispirazione neoliberale, si esplicita nelle modalità stesse con cui i cittadini sono stati accolti: cubi di cemento identici tra loro sia per gli esterni quanto per gli interni, una berlusconiana bottiglia di champagne e maxi televisore LCD ad attenderli. Dichiaratamente la volontà suprema di un’alienazione permanente.
Il blog di Antonello Ciccozzi, ricercatore di Antropologia Culturale presso Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi dell’Aquila - nonché il primo antropologo italiano cui sia stata affidata una perizia tecnica in ambito giuridico - è una fonte preziosa per ripercorrere le fasi di questa anti-ricostruzione urbanistica e di questa distruzione paesaggistica: «(…) arriviamo all’emblema del miracolo aquilano: il progetto c.a.s.e. che è un vero miracolo in quanto, nel mezzo di una situazione di crisi economica, grazie a un terremoto, l’egemonia dei grandi gruppi imprenditoriali nazionali ha potuto operare in condizioni miracolose, ossia:
- con enormi margini di profitto
- in deroga rispetto alle leggi
- in uno sfruttamento ottocentesco di masse di manodopera salariata
Attuata con costi esorbitanti, questa soluzione ha dato alloggio alla metà degli aventi bisogno, lasciando una città (quella vera) imbalsamata e producendo uno scempio paesaggistico».
La vera ricostruzione invece viene, ancora una volta, dal "basso" (se così si può definire). A Pescomaggiore all’indomani del sisma è nato il progetto E.V.A. (Eco villaggio Autocostruito), un villaggio autocostruito, appunto, e autofinanziato a minimo impatto ambientale grazie alla collaborazione di "bio-archiettti" e nel rispetto di norme antisismiche con costi che raggiungono un quinto di quelli del progetto c.a.s.e.
Ma per chiarire ulteriormente la distanza antitetica tra i due progetti, basta leggere il progetto: EVA alla ricerca di ALMA, dove A.L.M.A. (il piano d’azione che ha dato vita all’ecovillaggio) è un acronimo che si scioglie con Abitare Lavorare Memoria Ambiente, ovvero «i quattro campi essenziali per lo sviluppo della persona». Onore e gloria alla cittadinanza attiva.
La costituente dei beni comuni
ovvero “Diritto all’abitare, diritto alla città”
Il 4 maggio la città ha ospitato il primo incontro pubblico della costituente dei beni comuni, “Diritto all’abitare, diritto alla città”, alla presenza di studiosi, giuristi, accademici, movimenti territoriali e nazionali con lo scopo di ripensare e riformulare il processo sociale, economico e politico di gestione degli spazi pubblici. È significativo, come sottolinea Ettore Di Cesare, consigliere comunale di Appello per L’Aquila e moderatore dell’incontro, che la costituente sulla città si sia svolta in quella che è attualmente una non-città.
In una rete sempre più allargata, in Italia (Roma, Napoli, Milano, Venezia, Palermo, Catania, Messina, Pisa), oggi sono attivi e resistono centri di cultura autogestiti che si ispirano ad una innovativa “pratica” della cura dei beni. Sono gli stessi lavoratori della cultura - una cultura a cui viene riconosciuta sempre meno la dignità, il diritto all’esistenza e alla professionalità -, che si sono uniti e hanno ripreso possesso di ciò che di diritto gli spettava. Non si tratta solo di spazi fisici, ma di elaborazione giuridica al fine del riconoscimento di nuove tutele per il lavoro intellettuale e artistico. In poco tempo questa epidemia, questa serie di occupazioni e autogestioni, ha coinvolto realtà divise solo dalla geografia ma in stretta connessione operativa, ideologica e squisitamente politica (ma mai partitica).
In questo contesto, giuristi ed intellettuali stanno lavorando ad una giuridificazione dei beni comuni, non attribuibili a singole soggettività o a chiusi associazionismi, ma intesi come luoghi giuridici e fisici aperti alla comunità di riferimento per una fruizione partecipata.
Stefano Rodotà, al cui nome è stata legata – nel 2007 - una Commissione su queste tematiche, interviene con un videomessaggio che sottolinea i principi su cui si fondano i beni comuni, i quali «non sono un’astrazione ma sono ciò che si ricollega ai nostri diritti fondamentali», cioè all’idea che «il diritto all’abitazione non può essere ricondotto esclusivamente a un luogo dove abitare, ma alla necessità di vivere in un ambiente salubre da ogni punto di vista. Si tratta del recupero e della riscoperta delle potenzialità che ci sono state offerte dalla Costituzione Italiana», eludendo pericolosi autoritarismi.
Si è parlato di diritto all’abitare, dunque, come recupero delle fondamentali necessità sociali e culturali.
È per questo motivo che la giornata è stata presieduta anche da Tomaso Montanari (Università di Napoli “Federico II”), ideatore e organizzatore de “L’Aquila 5 maggio. Storici dell’Arte e ricostruzione civile”, che il giorno dopo ha portato in città un migliaio di storici dell’arte. Col movimento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica alle pratiche di tutela del patrimonio culturale italiano, infatti, si pone l’attenzione non solo sull’art. 9 della Costituzione Italiana ma, come sottolinea Montanari, c’è in queste proteste un legame forte con gli artt. 1 e 3: «la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza sostanziale dei cittadini e lo fa anche attraverso il patrimonio storico e artistico» perché «uno dei compiti della Repubblica è favorire il pieno sviluppo della persona umana. Poche cose come l’arte delle nostre città ci permettono di essere eguali e di realizzarci spiritualmente e socialmente come cittadini in modo pieno. (..) Il Patrimonio appartiene a tutti a un livello più profondo a titolo di sovranità, anche quello in proprietà privata. (…) Il patrimonio storico e artistico è una grande “agenzia costituzionale”, assimilabile al ruolo della scuola, per abbattere le disuguaglianze del popolo. La storia dell’arte, quindi, non è evasione e non può essere industria culturale e turistica ma deve avere il ruolo precipuo di ridare ai cittadini le chiavi della loro città attraverso la conoscenza. Il patrimonio storico artistico è un bene fondamentale, lo dice la Costituzione. Non dobbiamo farcelo portare via. L’Aquila è un problema nazionale. Il centro monumentale dell’Aquila è un bene comune».
La questione in gioco è la riappropriazione della città, dei suoi spazi pubblici e privati, della propria dignità di cittadini, perché vivere in new towns – di nobile ispirazione britannica ma di sciagurata traduzione italica-, senza servizi pubblici, senza collegamenti col centro, è esplicitamente – e schifosamente – un tentativo di insabbiamento del libero pensiero e del civile vivere umano.
Una città decentrata come la periferia est dell’Aquila è espressione di un individualismo che conduce alla morte del senso collettivo, comunitario, a favore di interessi privati e dei singoli. Per dirla con le parole di Ciccozzi, «senza una pedagogia della territorialità, senza un’educazione al paesaggio, senza una rieducazione al senso comune del luogo non ci può essere diritto dell’abitare, un diritto che va costruito non solo con una consapevolezza istituzionale ma che dev’essere anche popolare».
Nella realtà dei fatti, nello stato neoliberale in cui stiamo vivendo, queste pratiche di riconquista sociale messe in atto all’Aquila dal collettivo 3e32 ha portato a tentativi di repressione penale con denunce per cui attualmente quaranta aquilani sono sotto processo.
5 maggio. Storici dell’arte e ricostruzione civile
«Un uomo solo che guarda il muro è un uomo solo.
Due uomini che guardano il muro è il principio di un'evasione.»
Diego Cugia
Il 5 maggio, il giorno dopo la costituente dei beni comuni, in stretta connessione ideale con essa, le strade del centro storico dell’Aquila si popolano di storici dell’arte.
Il 5 maggio 2013 è stata e resterà una giornata memorabile. Sarà ricordato come il giorno in cui gli storici dell’arte, ad ogni titolo (docenti, dottorandi, ricercatori, pensionati, studenti, laureandi, soprintendenti) si sono incontrati, sono scesi dalle cattedre, sono usciti dalle aule universitarie, dai loro uffici per fare quello che maggiormente gli compete: vedere con i propri occhi, valutare criticamente, diffondere i valori del patrimonio storico, artistico, architettonico, paesaggistico, antropologico, in una parola, culturale, promuovere un movimento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica a problemi concreti.
Non è un caso che, Tomaso Montanari, docente di Storia dell’Arte Moderna presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, nonché ideatore e organizzatore dell’incontro, abbia scelto proprio L’Aquila, città che può assurgere a icona dei nostri tempi, per questo incontro.
Il ruolo degli storici dell’arte deve tornare ad essere, sopra ogni altro, un ruolo civile perché l’arte e la storia hanno un ruolo essenzialmente civico e il recupero del centro antico dell’Aquila è un problema che riguarda l’Italia tutta. Questo è il messaggio che emerge dall’appello redatto in vista di questo incontro.
A girare per il centro storico della città e ad ascoltare le argomentazioni della giornata del 5 maggio, c’era anche il Ministro della Cultura (Beni, Attività culturali e Turismo) Massimo Bray, per il quale non sono mancate parole di ringraziamento e richieste di inaugurazione di una nuova e più illuminata politica culturale. Dunque, in sorprendente e gradita controtendenza rispetto al suo predecessore (ma forse dovrei dire “ai suoi predecessori”), non solo ha accettato l’invito ma ha dichiarato sin da subito la volontà di ascoltare. E così è stato. A noi ora, non resta che confidare nella sua saggezza.
Non è bastata la pioggia (a tratti torrenziale) a fermare il silenzioso corteo in visita nel centro antico della città, poi riunitosi nella chiesa di San Giuseppe artigiano, una delle poche agibili in centro.
Dopo l’intervento introduttivo di Montanari, si sono susseguiti quelli delle personalità rappresentative delle associazioni più attive in Italia.
In particolare, Maria Pia Guermandi (Italia Nostra Onlus Emilia Romagna, Eddyburg.it) ha posto l’attenzione su fatti concreti e sulle violazioni reali che la Romagna ha subìto dopo l’esperienza del sisma, in una terra in cui si è preferito dare la morte a mezzo di dinamite a campanili, si sta procedendo a una ricostruzione (anzi costruzione ex novo) degli edifici dei centri storici in totale violazione dei vincoli architettonici. Insomma, lo slogan del “Dov’era, com’era”, che avrebbe potuto impiegare maestranze artigianali nel rispetto anche dei materiali, si è tradotto in un “Dov’era ma non com’era” che, invece, ha favorito l’interesse privato di speculatori. Il restauro filologico è stato scaraventato nel girone dell’antiquato e della falsificazione a favore di un “progetto del nuovo”. La ringraziamo per averci ricordato le parole di Cederna che nel ’56 scrisse: «Solo chi è moderno rispetta l’antico e solo chi rispetta l’antico è pronto a capire le necessità della civiltà moderna. (…) Solo le teste vuote, solo i distruttori d’Italia possono avere interesse a farci credere che la salvaguardia dell’antico è opera puramente passiva e di conservazione». In Romagna si assiste a una fase in cui la legge «svincola e affida a Piani di Ricostruzione la facoltà di riprogettare radicalmente insediamenti urbani storici. Tutti, o quasi, i vincoli di tutela sono cancellati dal procedere alla rapida demolizione, da una rapida ricostruzione senza vincoli e insieme dalla delocalizzazione di edifici di funzione pubblica e civile dai centri storici che così si condannano al congelamento e alla morte”.
Il principio del “Dov’era, com’era” tocca, però, nervi delicatissimi: proprio Ciccozzi, aquilano, il giorno prima aveva sottolineato l’esigenza di una ricostruzione, sì, ma nel rispetto di nuove norme di sicurezza. Una «indistinta conservazione del tessuto storico artistico può portare a una città vulnerabile. Bisogna eludere il pericolo di una ricostruzione prolungata, costosa e a una città vulnerabile perché in base a questo dispositivo si può ricostruire in deroga rispetto al cento per cento della sicurezza. Questa è la minaccia che si annida dietro un discorso così apprezzabile».
A mettere tutti d’accordo è la necessità di eludere il pericolo del “progetto del nuovo” come è stato inteso dal documento OCSE, “L'Aquila smart city”, che illustra il progetto, a dir poco discutibile, di cambiare la destinazione d’uso degli edifici e di trasformare l’antica città in una “Aquilaland”, un parco giochi di distrazione di massa dove la priorità è data alla costruzione di parcheggi per auto e centri commerciali.
L’arrivo degli storici dell’arte all’Aquila aveva, insieme a molti altri, uno scopo: tornare a mettere i riflettori sulla situazione del centro storico della città dove, cito ancora Maria Pia Guermandi, «le migliaia di impalcature che la rivestono, ossessivamente, implacabilmente, sono ancora là, più che a proteggere, a congelare in un abbraccio che si è fatto mortale».
Il 5 maggio all’Aquila, invece, si è voluto ricordare che il recupero della storia aquilana coincide col recupero della funzione civile, sociale e affettiva dei monumenti e del loro contesto.
La storia dell’arte deve scendere, come ha fatto domenica scorsa, dal patio dell’autoreferenzialità e gli storici dell’arte devono tornare a occuparsi del patrimonio e dell’avanzamento della ricerca. Una ricerca mortificata dal proliferare di mostre–evento (una ogni 45 minuti) prive di ogni valenza culturale e scientifica mentre intorno i centri storici agonizzano.
Mostre-evento e feroci privatizzazioni di un patrimonio monumentale nato – e sopravvissuto - con preziose funzioni civiche ci fanno urlare che il patrimonio culturale italiano non può continuare ad essere considerato il “petrolio d’Italia”. La tendenza sempre più forte è quella di inseguire un modello americano dimenticando, però, che oltreoceano i musei nascono da collezioni private di milionari in un secondo tempo ‘concessi’ al pubblico godimento, mentre l’arte italiana è arte pubblica, nata con lo scopo di un pubblico godimento e di un pubblico decoro, ed ora langue in una fase di sempre più accelerata e avida privatizzazione che aliena da sé il senso di appartenenza collettiva.
A degna chiusura di questa giornata, le parole di Salvatore Settis hanno tenuto alta l'attenzione di tutti gli uditori. Non una sola parola si è persa vanamente.
Invito all'ascolto del suo intervento.
1 «Si racconterà dell'Aquila, magnifica città / e di quelli che la fecero con gran sagacità. / Per non esser vassalli / cercarono la libertà / e non vollero signori se non la maestà»