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Dossier. Ecologia dell'informazione. Riflessione sullo stato dell'informazione e della critica musicale in Italia, con l'intervento di Michele Faggi, esperto di comunicazione cross-mediale e fondatore di Indie-eye

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musica oggi non vende più, è un dato di fatto, valido in tutto il mondo e ancor più per l'Italia. E non parliamo solo di dischi, ma anche di riviste che trattano di musica. Sono ben lontani i gloriosi anni narrati nel film "Almost Famous", che ebbero un loro corrispettivo anche in Italia, con Gong e Ciao 2001. È infatti di questi giorni la notizia che XL, probabilmente il maggior periodico italiano in ambito musicale, chiuderà. Il mensile, legato a Repubblica, era in difficoltà ormai da tempo ed è stato il primo ramo secco ad essere tagliato all'interno del nuovo piano di ristrutturazione (se così lo si vuol chiamare) del gruppo gestito da De Benedetti. Sparisce così l'ultimo tentativo da parte di grandi editori in campo musicale, a una decina di anni di distanza dalla chiusura di Tutto Musica, edito da Mondadori come costola di TV Sorrisi e Canzoni dal 1977 al 2004, con punte di oltre 200000 copie vendute nei gloriosi anni Novanta, quelli del grunge e del rock alternativo che diventava mainstream. Ora l'unica rivista ad ampia diffusione tra quelle che si possono trovare in edicola sarà Rolling Stone, che però non si occupa strettamente di musica, ma anche di moda e attualità (e pubblicità, cosa di cui ci si accorge sfogliandola).
Non se la passano benissimo nemmeno gli indipendenti, a partire dal Mucchio Selvaggio, in crisi nera nonostante le sovvenzioni statali ricevute negli anni, con strascichi legali, denunce e controdenunce tra ex direttori, restyling vari, ma ben poche speranze di reale rilancio, con in più un nuovo avversario fondato proprio dal grande ex Max Stefani, Outsider, mensile basato soprattutto su traduzioni di articoli di riviste straniere. Oltre a questi nelle edicole è possibile trovare un'altra mezza dozzina di riviste legate in maniera più o meno specifica al mondo del rock: da Blow Up, probabilmente la migliore per qualità ed equilibrio tra novità ed approfondimenti storici, a Buscadero, dedicata soprattutto a ciò che arriva da Oltreoceano e non molto aperta al nuovo, da Rumore, che ha appena cambiato gestione e si è un po' persa tra le sue radici punk e gli ultimi ammiccamenti all'indie più modaiolo, a Rockerilla, che tra un cambio di formato e l'altro tira avanti faticosamente da 35 anni.

mucchioDando per scontato che nessuno presta molta attenzione ai critici dei grandi quotidiani, che ormai fanno notizia solo per le castronerie che di tanto in tanto scrivono (epocale quella del saluto di Bon Iver al suo amico Wilko, quando invece salutava i Wilco), come ci si informa dunque nel 2013? La risposta è fin troppo facile, su internet. Ma anche in rete non è tutto rose e fiori, soprattutto per quel che riguarda la qualità di quanto si legge. Esistono infatti centinaia di siti che recensiscono qualunque foglia si muova nel sottobosco musicale italiano ed internazionale, ma non sono molti quelli di cui potersi veramente fidare e che abbiano un approccio serio, che vada al di là della ricerca di "mi piace" su Facebook e Twitter o dell'approccio da fan club per questa o quella scena. Per carità, la passione è importante e cercare di trasmetterla non è un reato, ma dovrebbe sempre essere accompagnata da serietà e da un approccio analitico che non è così facile riscontrare nel mare magnum delle recensioni online. Manca, in Italia, un sito che diventi veramente un punto di riferimento e che, al netto delle polemiche, possa tracciare una linea tra ciò che vale la pena ascoltare e cosa no. Altrove esempi di questo genere esistono, il caso più lampante è Pitchfork, che potrà essere criticato quanto volete, ma che ha inventato un approccio con cui confrontarsi obbligatoriamente quando si parla di musica oggi. In Italia qualcosa di simile non c'è, nonostante alcuni tentativi di buon livello esistano (su tutti Ondarock e Bastonate, con tutte le differenze del caso). Abbiamo quindi interpellato Michele Faggi, che si occupa di comunicazione cross-mediale da svariati anni e che con Indie-Eye ha cercato di creare qualcosa di diverso, partendo innanzitutto da un approccio formale pressoché unico, cioè la registrazione del sito internet come testata giornalistica, cosa che non accade per quasi nessuna delle altre realtà di settore presenti in rete.

Da dove arriva la scelta di registrare Indie-Eye come testata giornalistica?
Dunque, prima di Indie-eye c'era L'impostore, ci tengo a dirlo perché tra i due progetti il collegamento è importante per capire da dove arriviamo, L'impostore era una trasmissione dedicata al rapporto tra musica e cinema, trasmessa a partire dal 2001 da un'emittente radiofonica fiorentina, Novaradio, poi diffusa da altre emittenti della penisola come format pre-confezionato. Dalla Radio tradizionale qualche anno dopo la trasmissione passò al formato podcast, venne inserita nella directory ufficiale di iTunes, ottenne un discreto successo di ascolti e diventò il secondo podcast in Italia ad essere registrato regolarmente con licenza APOD Siae, dopo Zubar di Marco Traferri e molti anni prima della Radiozine di Blow Up, con cui, tra l'altro ho collaborato brevemente per due numeri chiamati "ossessione" che erano sostanzialmente uno spin-off de L'impostore. Sull'argomento podcast (tecniche, leggi, diffusione virale) scrissi un libro per Unwired Media nella collana Personal Tech e poco dopo, nel 2004, entrai in contatto con Blogosfere, uno dei primi network di NanoPublishing ad aggregare quasi da subito più di 100 blog tematici, e diretto in quegli anni da Marco Montemagno.

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Il mio spicchio era appunto la versione 1.0 di Indie-eye, un podcast blog costituito da un'ossatura documentale, poche news e molti podcast realizzati in collaborazione stretta con musicisti internazionali, li realizzavo a distanza interpellando gli artisti, loro registravano la loro parte, ovvero una breve session e un'intervista e io post-producevo il materiale costruendoci attorno un breve contenitore radiofonico concepito in forma rigorosamente "connettiva". Tra i primi artisti coinvolti Glen Hansard, Kate Havnevik, Lara Martelli, Debora Petrina molto prima che se ne occupasse Demo Rai. Quando la forma monoautore non era più sufficiente a gestire la mole di contenuti che transitavano dal blog, sono uscito da Blogosfere, ho registrato quello che è ancora l'attuale dominio indie-eye.it, gli autori sono diventati due, quattro, otto e via dicendo. La necessità di trasformare IE da sito a testata regolare è stata prima di tutto una scelta attitudinale legata al mio lavoro, dal 1996 circa oltre alla formazione per corsi finanziati dal Fondo Sociale Europeo, scrivevo collaborando regolarmente con riviste di tecnologia, arte digitale ed entertainment dove mi occupavo di new media e cinema. Erano tutte realtà su cartaceo, più un paio di testate online, tutte con una struttura editoriale ben precisa, avevo quindi un'idea di internet, al di là dell'esplosione libera e felice dei blog, molto "liquida" e potenziale ma allo stesso tempo legata allo sviluppo tecnico e professionale di un potente mezzo di documentazione cross-mediale, mi sono sempre interessato poco di forum, pettegolezzo e scrittura "intima", il bar generalmente è un ottimo diversivo dal lavoro, se lo sostituisce può rappresentare un serio problema. Nel nostro caso i contenuti sulla testata sono diventati molti, il portale si è trasformato in un piccolo network dopo l'apertura di un secondo sito autonomo dedicato al cinema, la periodicità stava diventando quotidiana con almeno venti articoli al giorno inseriti all'interno di vere e proprie rubriche tematiche, e per le leggi italiane rischiavamo il reato di stampa clandestina, che ancora sussiste anche se molti fanno finta di non crederci; darsi quindi un'identità giuridica è stato fondamentale per queste ragioni e per impostare il lavoro in un modo diverso anche nelle relazioni con gli uffici stampa, le promozioni, le direzioni dei festival di cinema, le distribuzioni home video e nella possibilità di aggregare advertising, al di là di tutte le difficoltà che il settore comporta. Questo per me definisce semplicemente il tentativo di costruire una realtà professionale, al di là dei risultati, è una scelta e a volte non capisco quella guerra tra poveri che mette in opposizione il culto DIY con soggetti che preferiscono fare diversamente, fermo restando che una partita IVA di questi tempi è assolutamente il massimo del DIY. Per quanto riguarda la presenza di testate online regolarmente registrate non è un fatto così raro, almeno fino all'esplosione dei blog come CMS di gestione e pubblicazione dei contenuti, un fenomeno che ha avuto i suoi vantaggi in termini di riduzione dei costi per la gestione di un portale, ma che allo stesso tempo ha consentito a chiunque di immaginarsi, nel bene e nel male, una realtà tirata su con gli amici degli amici, aggiornando di fatto la fisiologia dei forum in termini di linguaggio, scrittura, metodologie; quindi assolutamente niente in contrario con la moltiplicazione dei punti di vista, ma quando questi si allineano alla "piazza virtuale" dove ci si trova per "discutere" sul campionato di serie A o sull'ultimo album dei Baustelle, al di là della legittimità dell'approccio, credo che questo non abbia niente da condividere con il giornalismo, meno che mai con la scrittura critica, o per usare una parola che non mi piace, con il "mestiere" del critico.

Perché la registrazione è un fatto così raro per siti internet che trattano di musica?
Se ci riferiamo alle realtà pubblicate in rete da editori indipendenti, il confronto con le webzine non registrate come testate giornalistiche è sbilanciato a favore delle seconde in termini numerici, e i motivi sono svariati. Registrare una testata comporta adempimenti burocratici non sempre di immediata comprensione, la rete al contrario ha velocizzato una serie di processi che hanno radicalmente trasformato competenze, ruoli, diffusione delle informazioni, verificabilità delle fonti. Intendiamoci, sono caratteristiche positive che la stampa tradizionale ha assimilato molto in ritardo cercando di allinearsi con la fisiologia e l'architettura cognitiva della blogosfera, quello che a mio avviso è accaduto soprattutto in Italia, uno dei paesi meno attenti alla formazione, anche semantica, legata ai nuovi media, è una sottovalutazione delle potenzialità connettive e creative del web 2.0 e una sopravvalutazione di un vecchio modo, un po' parrocchiale, di fare chiacchericcio intorno alla ciurma dei consensi. Chi scrive di musica su molte webzine senza identità giuridica si definisce molto spesso appassionato, sostenitore, fan. L'approccio è quello "amatoriale" (la cui radice appunto è amore, passione, e via dicendo) espresso attraverso la forma più basica di "militanza" e questo non aiuta certamente un'evoluzione del linguaggio critico, anzi, al contrario ne rappresenta un'involuzione vertiginosa, dove una certa scrittura critica, spesso spinta e favorita dalle stesse promozioni, si assesta sulla minore o maggiore conoscenza amichevole di quella band, mi riferisco ovviamente al frastagliatissimo panorama italiano, talmente frastagliato che sarebbe forse coraggiosa non parlarne affatto. Le agenzie di promozione indipendenti, hanno perfettamente compreso il potenziale virale di una massa di volontari pronti a immolarsi per primi rispetto a questo o quell'artista, tanto che la regola non è certo l'analisi, l'approfondimento, la ricerca critica, ma al contrario arrivare per primi, sostenere a-criticamente, ricevere consenso attraverso altre tonnellate di consenso. Chi scrive su queste realtà ha un amorevole approccio fan-atico, è come se fosse un PR volontario, sono utilissimi ad un micromondo autoreferenziale che non ha alcuno sbocco e che ovviamente non intende legittimamente avere nessuno sbocco, perché registrarsi quindi? Avrebbe un costo troppo alto per poter legalizzare operazioni che nascono come potenziamento delle proprie passioni, è una scelta, va benissimo, ma io non credo che questa sia la strada per costruire una nuova professionalità critica in rete, ne per diffondere "cultura".

La differenza qualitativa tra cartaceo e rete è ormai una leggenda metropolitana

Potrebbe sembrare che ci sia un dualismo tra internet e le riviste cartacee, specialmente in Italia. Spesso sembra che le riviste abbiano più credito verso il pubblico e gli addetti ai lavori. Perché secondo te?
La differenza qualitativa tra cartaceo e rete è ormai una leggenda metropolitana, ad alimentarla concorrono interessi corporativi anche di piccolo, piccolissimo cabotaggio, a mio avviso fuori tempo massimo e ai limiti del ridicolo. Chi sostiene ancora questo dovrebbe tornare a studiare e magari inserire in bibliografia qualche volume scritto da Derrick De Kerckhove. Senza dilungarsi sulla metamorfosi online della stampa quotidiana legata ai grandi editori, mi limito alle realtà di critica "specializzata", tenendo conto di una distinzione fondamentale che mette a confronto la critica specializzata che si occupa di cinema e quella che si occupa di musica; ci tengo non solo per la doppia natura di Indie-eye, che come sai non implementa semplicemente una "rubrica" di cinema come molte testate indipendenti di musica, ma anche per intendersi sul significato mutante della parola "specializzata". Le riviste “specializzate” di musica si vendono in edicola, quelle di cinema, tranne rari esempi, hanno trovato sin da subito collocazione in libreria, per svariati fattori, lunghi da dettagliare, due degli aspetti fondamentali di questa differenza sono legati ad una maggiore separazione, in termini di prassi, tra divulgazione e teorie (del linguaggio, fenomenologiche, semiologiche e via dicendo). L'insieme delle cosidette "teorie" del cinema si sviluppano in seno alla ricerca filosofica poi anche universitaria e separano nettamente la scrittura critica da quella divulgativa, giusto per fare un esempio, Filmcritica, storica rivista diretta da Edoardo Bruno e fondata, tra gli altri, da Roberto Rossellini, ha una collocazione specifica rispetto a Ciak che trovi dall'edicolante sotto casa, non si lega al vortice incessante dell'attualità, anzi rivendica una gloriosa inattualità.

 filmcriticaCambia il mercato di riferimento e ovviamente, cambia la scrittura insieme ai lettori. Nella storia della letteratura critica legata alla musica "POPolare" e rock, senza tracciarne i percorsi, questi confini tra divulgazione, analisi critica, approfondimento storico, immediatezza e diffusione, si confondono, a volte in modo assolutamente rivoluzionario, svecchiando linguaggi, rompendo argini, inventandosi territori di confine, prendi ad esempio la scrittura di Christian Zingales, uno dei pochi in grado di destreggiarsi tra il formato conciso della recensione breve e il saggio storico-filosofico, una "rarità" che è stata sommersa per anni dalla forma divulgativa e immediata di una scrittura "punk", diretta, sulla quale sospendo ogni forma di giudizio, ma che evidentemente funzionava con un certo target di lettori che avevano bisogno di una guida di orientamento agli ascolti. Niente in contrario quindi con questa forma ibrida della stampa "rock" che è cresciuta nelle edicole, erano anni gloriosi perchè ancora virginali, chi ha come me superato i 40 li ha vissuti come un'occasione per crescere, conoscere, selezionare e perchè no anche per approfondire altrove cercando stimoli più specifici; confinare il rock nelle università poteva significare ucciderne l'essenza primitiva, tenerlo fuori adesso, secondo me è figlio della superficialità criminale dei tempi.
Tant'è se dovessi pensare tra le riviste su cartaceo ad una che vedrei bene in libreria attualmente l'unica mi smebra Blow Up di Stefano Isidoro Bianchi e lo dico non perchè glielo auguro in termini commerciali, ci mancherebbe, ma perchè è quella che ha saputo interpretare più di altre la scrittura in funzione di una specializzazione storico-critica, i libri di Harry, già in libreria, ne sono un esempio.

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Ma la degenerazione del modello "funzionale", ovvero prendere Lester Bangs e collocarlo al posto del Buddah, a mio avviso non ci porta necessariamente in rete, ma ad un allontanamento dall'approccio specialistico causato dal proliferare di uscite favorite dalla "rivoluzione" digitale; parlare di tutto, parlarne per primi, parlarne male, in modo affrettato, ascoltare con un solo orecchio, un approssimazione che non ha niente a che vedere con la rete come "mezzo" ma al contrario, con la dannosissima influenza della prassi produttiva digitale sulla scrittura, carta inclusa.

Una delle prime riviste elettroniche dedicata allo studio dei media, alla tecnologia digitale e alla cybercultura è comparsa nella rete statunitense nel 1996, si chiama CTheory, forse per anni la più importante realtà tra filosofia e nuovi media. Sono fuori tema? Non proprio, perché basta questa breve puntualizzazione storica per contraddire chi ha scritto su alcune riviste cartacee che internet non offre possibilità di approfondimento, che internet costringe alla brevità, che la qualità è diametralmente opposta alla fisiologia della rete. Sciocchezze, anche molto volgari.

 

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La differenza per me si discute su un terreno diverso e con un linguaggio diverso, che è quello dei contenuti cross-mediali; la rete consentirebbe un superamento netto degli strumenti critici legati al formato recensione come per esempio il temino di 1.000 caratteri scarso, tanto in voga proprio su quelle riviste che hanno cominciato a mettere insieme 800 recensioni al mese per contrastare una crisi certamente dolorosa legata alla nascita delle realtà online, non credo che assimilandone le attitudini peggiori si possa contrastare un fenomeno, al contrario, lo si favorisce, perchè se scrivere di tutto e di tutti significa semplicemente sopravvivere per vendere copie del proprio giornale agli amici e ai parenti delle band che hanno ottenuto 1.000 caratteri di popolarità, io credo che questa sia l'applicazione peggiore dell'illusione di istantaneità offerta da un tweet, applicata alla stampa su carta.

Al contrario credo che lavorando in rete in modo intelligente, favorendo la connessione tra testo, suono e immagine si possano ottenere risultati di maggiore approfondimento rispetto a questa "battaglia tra bande" condotta fino all'ultima recensione. Ovviamente parlo di una rete cross-mediale che esiste solo in parte, penso per esempio al piccolo esperimento fatto insieme a Chelsea Wolfe che ci manda i suoi videoclip, registra la sua voce parlata su un registratorino a nastro saturo di rumore bianco e ci da carta bianca per montare un audiovisivo con tanto di sottotitoli che non è solo un'intervista, ma un racconto della sua vita, un percorso critico attraverso i suoi video, un'analisi molto intensa e personale della sua stessa musica.

 

 

Ci vuole tempo, e si sacrifica la quantità per una qualità più ricca, forse è davvero l'unica strada percorribile e indie-eye, con molti sforzi, ha puntato molto sulla produzione originale di contenuti cross-mediali in tempi non sospetti, ovvero a partire dal 2005: Podcast audio e video, molte foto interviste, la realizzazione di brevi documentari ritagliati sugli artisti, quindi video interviste, spesso molto semplici e dirette, senza intervistatore in campo, con un approccio quasi documentaristico, e la diffusione di un progetto virale come liveCASTour dal 2006 in poi che aveva coinvolto, credo di poter dire in modo innovativo, vari soggetti della rete nella diffusione di una serie di video live a staffetta, che promuovevano i nuovi lavori e quindi gli show di Beatrice Antolini, Paolo Benvegnù, Kiddycar.

 


Da questa prospettiva, sono meno interessato ai 1.000 caratteri di una recensione tutti uguali su tutte le realtà, in rete o fuori dalla rete, contenuti sostanzialmente influenzati dal bombardamento dei comunicati stampa. Se chi legge oggi preferisce un tweet ad un'analisi approfondita è ovviamente sconfortante e non dipende dalla rete, ma da un modello di comunicazione che ha seppellito la libertà critica e teorica di poter lavorare con i mezzi in modo permeabile; internet è un mezzo, un transito, e non sembra banale dirlo dal momento in cui c'è chi ancora fa distinzione reputazionale tra la carta e la rete in modo cosi retrogado e volgare da farti sperare in una sensibilizzazione celere e improvvisa per la battaglia contro la deforestazione in Amazzonia.

Se gli addetti ai lavori, ovvero promozioni, agenzie di booking, uffici stampa, tendono ad operare comunque una tassonomia gerarchica credo che i motivi, oltre a quelli descritti sopra siano legati a questioni di natura strategica e mercantile. Per esempio, penso ai piani di comunicazione delle agenzie; un promoter che si occupa di musica indipendente, ovvero l'unico bacino "produttivo" che ancora ha una , seppur anomala, vita in Italia, può chiedere ta i 1.500 euro e i 2.000 EURO a band; i musicisti giovani, al primo album sulla lunga distanza, che hanno dovuto schiantare il salvadanaio per terra allo scopo di racimolare la cifra necessaria, cercano di immaginarselo il percorso che li porterà sulla copertina del Mucchio come un traguardo importante. Cosa smuova questo al di là di un piccolo, piccolissimo business implicito tra testata e promoter, dove il musicista paga a caro prezzo la sua "arte", non è del tutto comprensibile, forse superati i 26 anni si capisce che non smuove molto e che al momento, la proliferazione di proposte va a decremento della qualità e più che sostenere la musica, sostiene alcuni operatori di settore; le priorità quindi vengono decise non sulla base della competenza di questo o quel soggetto editoriale, ma secondo una strategia promozionale ben precisa che al momento è vecchia, arcaica, ridicola, non sta portando risultati. Mentre buona parte delle riviste su carta si trovano un'edicola si e tre no, altre chiudono; in breve tempo, in mancanza di scuse reputazionali, i promoter dovranno raccontare ai giovani musicisti altre storie per farsi pagare un piano di comunicazione virale.

A fianco a questo meccanismo c'è la vita lavorativa delle agenzie di booking, sicuramente importante perchè è l'unica che teoricamente porta soldi nelle tasche di chi suona, è un lavoro ingrato che sopporta pesi e responsabilità di un intero team di persone, non consente spesso di far quadrare i conti ma allo stesso tempo ha creato una frizione intollerabile tra il ruolo dell'informazione e quello di alcune agenzie. Chi promuove un evento è interessato alla vendita dell'evento tout court, e l'approfondimento del dopo concerto non porta carne pagante, ovvio che un'intervista concordata un mese prima magari per e-mail è più interessante per chi vende la serata. Se al contrario diffondi contenuti cross mediali e audiovisivi, devi andare in loco e in alcuni casi, anche se sei una testata registrata, rompi i coglioni, sei di troppo. Non è semplicemente una questione che si lega a criteri reputazionali e alla qualità, quanto ad un calcolo che è determinato da ragioni economiche e non strettamente culturali, gli uffici stampa che fanno da filtro a tutto questo lo sanno bene, le agenzie di booking sono soggetti che se ne fottono del valore della cultura, e dal loro punto di vista, è una corretta assunzione delle responsabilità di cui si diceva, io non contesto, ma diventa intollerabile quando un'intervista viene fatta calare dall'alto come fosse la decisione di un comitato ministeriale preposto alla diffusione della cultura, verrebbe da dire: "ok scendi dal pero e qualificati come mercante, sei un mercante, non c'è niente di male, ma non parlarmi di cultura".

E perché in Italia non c'è un Pitchfork che riscuota credito e che diventi un punto di riferimento?
Il modello Pitchfork a cui ti riferisci, non credo sia il migliore, è semplicemente il più letto in un contesto come quello statunitense, dove molte delle differenze, spesso preistoriche, di cui ho parlato, sono state spazzate via da un modo di gestire stampa e informazione meno corporativo, provinciale e perdente del nostro. Ovvio che un soggetto che sa presentarsi bene, con un'indicizzazione potentissima, sia in grado di diventare un riferimento più che un faro, in un contesto culturale dove la rete non è considerata una "diminutio". Pensa solamente a come sono gestiti gli accrediti, anche per ragioni comprensibilmente logistiche, al Festival del Cinema di Venezia; ci sono tre tipologie, stampa quotidiana su carta (colore rosso), stampa periodica (colore blu), stampa web (colore arancione). Ogni colore corrisponde ad un ordine di priorità per la fila di ingresso in sala, ovviamente i primi a passare sono i quotidiani su carta, la stampa web passa per ultima. Questo è un unicum persino in tutta Europa, a Berlino tutta la stampa è uguale, a Cannes tutta la stampa è uguale, non ci sono code gerarchiche, credo non ci sia molto da aggiungere sul modo in cui la stampa indipendente online viene percepita in Italia in qualsiasi contesto professionale, è un'accezione che va di pari passo con la vita politica del paese, ormai vicino alla morte, schiacciato da una concezione proibizionista dell'esistenza, non solo legale. In questo teatrino, anche la stampa musicale ha avuto le sue corporazioni e i suoi attori principali, custodi di un mausoleo vergognoso e incancrenito. Del resto, forse Antonio Russo, per parlare proprio di giornalismo, in un paese diverso dal nostro sarebbe stato considerato un professionista eroico anche prima di morire.

 

 

Il futuro potrebbe essere nel presente della rete

Qual è il futuro dell'informazione musicale in Italia secondo te?
Il futuro, nel bene e nel male, potrebbe essere nel presente della rete, ovvero una pluralità di soggetti che ha già sbaragliato anche in termini di velocità, tutte le agenzie di stampa. Per reperire velocemente buona parte delle notizie internazionali, basta un bell'aggregatore, qualche centinaio di Feed RSS memorizzati e ovviamente, se devi trasformarli in una rilettura trasversale, gli strumenti necessari per verificare fonti, informazioni, notizie. Se questo presente offra o meno prospettive sostenibili, credo sia una questione più complessa, che passa attraverso una crisi di proporzioni molto più gravi dove forse è giunto il momento di interpretare la sostenibilità generale di un ruolo come quello delle riviste di settore. La musica di qualità non vende, ok; i promoter ti telefonano a casa in lacrime perchè tu spinga la quarantesima band che hanno accolto durante l'anno nel loro roster, ok; le piccole agenzie di booking ti lesinano un accredito perchè anche venti euro possono mandare in vacca l'evento, figuriamoci se investono in un banner, ok. In questo contesto, la stampa che non vuole occuparsi solamente del concerto di Michael Bublè come definisce il suo ruolo? Rimane una webzine di appassionati a vita, senza identità giuridica, limitandosi a fare da agitatore e amplificatore web? E se ha scelto una strada diversa, come può assicurare dignità al proprio lavoro e a quello dei propri collaboratori, se non provando ad aggregare advertising attraverso soggetti interessati al target dei suoi lettori? E ancora, la vecchia formula delle recensioni, ha un senso, oppure, nella direzione di una rete sempre più semantica, occorre produrre sempre di più contenuti cross-mediali articolati?

Come vedi, ti rispondo con una serie di domande, e credo sia necessario accettare quello che ad alcune vecchie glorie della carta stampata non riesce facile, se non restituendo in rete proprio il peggio di se, fatto di malessere, risentimento; occorre entrare in un processo di trasformazione, comprenderlo senza pregiudizi, cercare di interpretarlo e se non viene fuori una ciambella con il buco al centro, pazienza, alla fine ci sono cose più importanti del futuro della stampa musicale, per esempio, fare all'amore fino a scoppiare.

Gli autori di Vorrei
Fabio Pozzi
Fabio Pozzi

Nasce nel 1984. Studi liceali e poi al Politecnico. La grande passione per la musica di quasi ogni genere (solo roba buona, sia chiaro) lo porta sotto centinaia di palchi e ad aprire un blog. Non contento, inizia a collaborare con un paio di siti (Indie-Eye e Black Milk Mag) fino ad arrivare a Vorrei. Del domani non v'è certezza.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.