Dossier. Spiritualità vo cercando. Il pellegrinaggio ha quasi sempre avuto un ruolo penitenziale. Oggi è quello di distaccarsi dagli impegni e dai vincoli di una vita che si avverte come incompleta, o addirittura alienata
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o avuto sempre, e ancora ho, un sogno mai realizzato e che probabilmente non realizzerò mai: quello di intraprendere un lungo cammino, con o senza una meta, come atto fine a sé stesso, trascendente rispetto a qualsiasi fine umano e anche rispetto a qualsiasi processo naturale. E quindi, come atto soprannaturale, spirituale.
Questo sogno ricorrente mi ha spinto a riprendere la lettura, a suo tempo lasciata a mezzo, del classico pamphlet di Henry D. Thoreau, dal titolo, appunto, “Camminare”, scritto nientemeno che nel 1851. Per Thoreau incamminarsi significava andare verso la natura selvaggia, recuperare la libertà repressa dalle regole e dalla omologazione imposte dal progresso. Non a caso, oltre a “Camminare”, Thoreau ha lasciato diversi scritti sulla disobbedienza civile.
Ma allora era facile, per un americano come lui, andare verso mete inesplorate: bastava dirigersi verso ovest. Oggi la situazione è ben diversa, specialmente in un contesto antropizzato come la Brianza.
la sensazione di passare di colpo dalla civiltà del cemento e del rumore a uno stato di natura incontaminata e silenziosa
Tuttavia, la sensazione di qualcosa di simile mi capita di provarla quando entro nel Parco di Monza dalla porticina vicino al Santuario delle Grazie Vecchie: la sensazione di passare di colpo dalla civiltà del cemento e del rumore a uno stato di natura incontaminata e silenziosa. Perché chi ha progettato il Parco ha avuto la capacità di conservare, all’interno del progetto umano, un vasto residuo delle foreste e radure selvagge nei quali dovevano addentrarsi i rari viandanti dei millenni andati.
Ma l’idea, o il sogno che mi attrae del camminare ha evidentemente richiami ben più robusti di queste brevi sensazioni.
A cominciare dai pellegrinaggi e dalle processioni. Anche io sono stato attratto, come tanti altri, dall’idea di partecipare al cammino di Santiago di Compostela (cosa che ovviamente non ho fatto). Forse non è strano che mi chiami Giacomo!
Il pellegrinaggio ha quasi sempre avuto un ruolo penitenziale: un sacrificio per espiare qualche colpa, una fatica da compiere per ottenere il perdono o l’illuminazione o il miracolo in qualche santuario. Fino alle marce dei flagellanti o alle salite in ginocchio sui gradini di lunghe scalinate.
Ma oggi il pellegrinaggio sembra coinvolgere anche persone non legate a una particolare religione, anche se il senso di colpa potrebbe non essere lontano. Lo scopo allora, se non banalmente protagonistico (“io ci sono stato”) , turistico o sportivo, è quello di distaccarsi dagli impegni e dai vincoli di una vita che si avverte come incompleta, o addirittura alienata, ridotta all’unica dimensione utilitaristica, di sopravvivenza o di successo. Un esercizio catartico, trascendentale, spirituale.
Tutto ciò che ha a che fare con la lentezza mi ha sempre attratto.
Mi piace poi pensare al camminare per la sua stretta parentela con la lentezza. Tutto ciò che ha a che fare con la lentezza mi ha sempre attratto.
Nella logica economica che domina il nostro tempo la produttività, cioè il produrre quantitativamente di più con meno ore di lavoro, è un mantra. In questo senso, la lentezza è il contrario della produttività. Eppure, già i greci antichi avevano suggerito: “spéude bradéos”, tradotto in latino in “Festina lente”. La lentezza è in contrasto con la quantità, ma è legata strettamente alla qualità. E’ madre delle grandi imprese, come ha illusutrato Sten Nadolny nel suo libro “La scoperta della lentezza”, in cui racconta la vita di John Franklin, l’esploratore del passaggio a Nord Ovest.
Tra i miei sogni del camminare, ho anche pensato di andare da Monza alla Locride, dove esiste ancora una casa avita sul cui ingresso è stata lasciata la targa di mio nonno, cioè del mio nome. Per compiere questo inedito “Viaggio in Italia”, di circa 1400 chilometri, a cinque chilometri all’ora per cinque ore al giorno, ci vorrebbero circa due mesi. Ma l’idea di impiegare un paio di giorni solo per arrivare a Casalpusterlengo mi scoraggia. La mia spiritualità (la mia fede?) è evidentemente troppo scarsa.
Il mito del camminare mi ha anche portato, qualche anno fa, a riprendere (altra lettura prima lasciata a metà) “La via dei Canti” di Bruce Chatwin. E’ un diario di viaggio in Australia dell’autore, che ha cercato di calarsi nella cultura degli aborigeni. Questi considerano l’universo come tutto fatto di esseri viventi, generati nel “Tempo del Sogno” da esseri deiformi che cantando hanno dato a ciascuno il suo nome. Una montagna per loro è una cosa viva e così qualsiasi altra cosa, un lago, una radura, un bosco. E soprattutto le vie, anzi: tutte le cose sono un intreccio di vie. Ed ogni via, ogni cosa esprime il suo essere con un diverso canto. E con un salto verso di noi e il nostro secolo, l’autore e il suo compagno di strada russo-australiano, Arkady, ricordano, nel loro dialogo, i versi di Rainer Maria Rilke, che in un sonetto dedicato a Orfeo dice:
“Il canto che tu insegni non è brama
né aspirazione a un fine da ottenere.
Canto è esistenza - facile per un dio.
Ma quanto noi siamo?”
La musica, a differenza dalle altre arti, non ha contenuto, Non descrive altro che sé stessa
Questi concetti, che faccio ancora fatica a consolidare nella mia mente come ovvi, mi hanno fatto accostare il camminare alla musica. La musica, a differenza dalle altre arti, non ha contenuto, Non descrive altro che sé stessa, anche se evoca le più diverse sensazioni e situazioni. Il camminare, contemplando e riflettendo, è lo stesso. Suonare e camminare si assomigliano anche perché tutt’e due sono regolati dal ritmo. Molta musica moderna ha rinunciato all’armonia e alla melodia, ma non può fare a meno del ritmo. Così il camminare è regolato dal ritmo dei passi.
Camminare, fare o ascoltare musica. E leggere. Sono tutte cose a cui spesso si dedica un tempo marginale, sottratto faticosamente al dominante tran tran quotidiano. In un certo senso, il tempo che si cerca di dedicare ad essi assomiglia a una guerra tra poveri, inutili alla società. Leggere è inutile, suonare-cantare è più inutile, camminare lo è ancora di più. Ma come ha detto Qualcuno, è dei poveri (in spirito) il regno dei cieli. E alla fine, penso, anche la vita terrena.
Torno pindaricamente al tema del pellegrinaggio. Ho scoperto che c’è un cammino più vicino a me di quello di Santiago, meno prestigioso ma non meno importante: il Cammino di S. Agostino.
Sant’Agostino venne a Milano nel 364 e dopo la conversione, favorita anche dal suo incontro con S. Ambrogio, si stabilì in Brianza, a Cassago. La sue “Confessioni” sono il racconto di un sofferto percorso di vita, verso la conversione, un racconto coinvolgente e attualissimo. Il Cammino di Sant’Agostino è stato assimilato alla forma ideale di un fiore: lo stelo essendo costituito dal percorso da Genova, dove il Santo approdò venendo dall’Africa, fino a Milano, passando per Pavia (dove è sepolto); e la corolla essendo espressa dalla Brianza. 210 chilometri il gambo, 353 la corolla (confrontabili con gli 825 chilometri del Cammino di Santiago).
Mi riprometto di percorrere l’anno prossimo, almeno in parte, il cammino di Sant’Agostino. Ma dopo una adeguata preparazione spirituale.