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 Visita guidata al Cimitero Monumentale di Milano, 250.000 mq non meno stupefacenti del Duomo o di Santa Maria delle Grazie, illustrano magistralmente il conflitto freudiano tra Eros e Thanatos.

 

Avremo letti pieni di profumi leggeri
E divani profondi come tombe 
E, sopra dei ripiani, strani fiori
Nati per noi sotto più ameni cieli.[1]

Ci sono tre modi di visitare il Cimitero Monumentale di Milano. Procurarsi una mappa per trovare a colpo sicuro le tombe più allettanti. Girare senza informazioni e senza una meta precisa, abbandonandosi allo stupore della scoperta. Oppure, per chi si sente sufficientemente perverso, gironzolare con un libro in mano. Le poesie di Baudelaire, specie le più intrise di spleen, sembrano fatte apposta per garantirvi un adeguato supplemento di languore e – perché no? – di stralunato erotismo. Perché questi 250.000 mq di suolo milanese, non meno stupefacenti del Duomo o di Santa Maria delle Grazie, illustrano magistralmente – con il marmo, i mattoni, il bronzo, il ferro battuto, il vetro opalescente, gli archi, le ombre, le piante – il conflitto freudiano tra Eros e Thanatos.

 

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Particolare della cappella Korner progettata dall’architetto piacentino Giulio Ulisse Arata. Art nouveau e simbolismi gotici nell’impressionante scultura (Et ultra) di Adolfo Wildt (1929).

 

Coi loro ultimi ardori, a gara, bruceranno
Il tuo e il mio cuore, come grandi torce
La cui duplice luce imiteranno,
Specchi gemelli, i nostri due 
intelletti.[2]

Secessione viennese, art nouveau, neogotico. Preparatevi a un appassionante festival del simbolismo. Progettato da Carlo Maciachini, il Monumentale fu inaugurato nel 1866, in un periodo artistico assai propenso alla sublimazione inquieta, e un po’ decadente, dell’aldilà. E si popolò rapidamente di tombe d’autore, edicole ornatissime, oranti addolorate, angeli preraffaelliti, tempietti e colonne, vedove svenute, Pietà e Stabat mater, santi e vestali in estasi mistica, ricami di pietra da salon e da Kursaal, esuberanti beltà precocemente rapite al cielo, mosaici d’icone, dorature splendenti, mobilissimi drappeggi e carni ignude, allegorie corporee dell’eternità.

In una sera rosa e azzurro mistico
Ci scambieremo un ultimo bagliore,
Lungo come il singulto degli addii;

E un Angelo, più tardi, dalle dischiuse porte
Ravviverà con fedeltà radiosa
Le specchiere ossidate,
 il fuoco morto.[3]

Non mancano, naturalmente, rappresentazioni più austere del passaggio da questa a quella vita. Al Manzoni, convertitosi alla severa dottrina giansenista, è dedicato uno squadrato e solenne catafalco marmoreo; è ospitato nel Famedio, l’eclettica e pregevole hall of fame in marmo e mattoni costruita in stile medioevale e aggraziata da decorazioni liberty. Alessandro è in buona compagnia: nella stessa isola dei famosi ci sono Carlo Cattaneo e Giuseppe Verdi, sebbene la sepoltura di quest’ultimo non si trovi qui ma nella Casa di riposo per musicisti che egli stesso aveva fondato (Casa Verdi) in Piazzale Buonarroti, sempre a Milano.

 

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Edicola della famiglia Bernocchi, 1931-1936. Particolare dell’obelisco (Via Crucis), opera dello scultore Giannino Castiglioni.

 

Pure grandiose sono certe celebrazioni postume del lavoro e della fatica: contadini, buoi, aratri, vanghe, artigiani, magli, muscolature temprate e volti fieri e dolenti, in sintonia con quella corrente sociale che in pittura avrebbe trovato efficace espressione nel Quarto stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. E poi c’è tutto il capitolo delle virtù e delle perdite militari, espresse in generosa varietà di forme; dal crociato in ginocchio ai caduti orizzontali, dai selvatici patrioti svettanti su alti piedistalli al soldato, assistito da madre e moglie o sorella, della seconda guerra mondiale. Il ventennio fascista procurò il suo bravo contributo alla collezione, con commossi omaggi all’ardimento di giovinezze smarrite e all’autunno delle primavere di bellezza.

E mani, mani, mani: intrecciate, incrociate, in preghiera, indicanti la via suprema o la Trinità, morbidamente rilassate, operose, carezzevoli, nodose, rivolte al cielo, rivolte al sottosuolo, tra i capelli, sulla fronte, soccorrevoli, impegnate a suonare strumenti musicali; centinaia di gesti che, da soli, raccontano un dolore, una speranza, una passione, un temperamento, una perdita.

 

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L’Ultima cena, opera di Giannino Castiglioni (1935) per la famiglia Campari, è una delle attrazioni più visitate del Monumentale.

Se non ci si va (tocchiamo ferro) per un funerale, il Monumentale appare come un parco delle meraviglie e merita appieno il titolo di “museo a cielo aperto” con cui Milano ama vantarlo. Architetti come Giulio Ulisse Arata, Mario Palanti, Claudio Botta; scultori come Medardo Rosso, Luigi Crippa, Adolfo Wildt, Giannino Castiglioni; in tanti hanno lasciato impronte granitiche in questo strepitoso catalogo 3D della morte d’autore. La promenade, specialmente in un giorno sereno e di scarsa frequentazione, riserva sorprese e pensieri ad ogni sosta; e le soste si succedono ininterrotte, perché forte è la tentazione di scrutare ogni pezzo, di non ignorare nemmeno il più modesto degli angoli e degli angeli, di fotografare a raffica qui l’ala di pietra, lì il piede dell’apostolo in moto, qui il medaglione con l’effigie di un’ignota, lì la sontuosa facciata d’una cappella chic. I pensieri si dividono in due categorie: i religiosi e i laici. Io, meno acuto nei primi e più indulgente ai secondi, mi perdo in raccordi estetici; e mi danzano in testa i sinuosi incubi di Füssli e gli inferni di William Blake, le Veneri e le ancillae domini di Dante Gabriel Rossetti e le Maddalene penitenti di Francesco Hayez (qui sepolto), le Ofelie di Millais e di Rimbaud, un’intera schiera di Salomè (Wilde, Moreau, Richard Strauss) e la musica dark dei Dead Can Dance. La musica operistica, poi, farebbe bene il paio con Les fleurs du mal, con l’iPod in tasca e gli auricolari in azione: anche perché in questo regno di defunti si sono dati appuntamento Catalani e Ponchielli, Toscanini e Horowitz, quasi tutti i librettisti di Verdi e il tenore Franco Corelli.

 

 

 

Da mille anni e più la dolorosa Ofelia
Passa, fantasma bianco, sul lungo fiume nero;
Da mille anni e più la sua dolce follia

Mormora una romanza al vento della sera.[4]

Non siamo solo al cimitero; stiamo sfogliando, tra questi vialetti, l’enciclopedia estetica e industriale della milanesità. Qui le grandi famiglie ambrosiane, le scomparse e le viventi, hanno condensato il senso della propria storia, con dosi ben calcolate di sobrietà, decoro, noblesse e grandeur. Il «gran Milan» dove «se sta mai coi man in man»[5] si materializza come Dio vuole anche nella fabbrica della memoria: mecenatescamente, l’alta borghesia lombarda d’antan – i Falck, i Treccani, i Bocconi, gli imprenditori, i filantropi, gli intellettuali – chiama a raccolta il gotha delle arti e dell’artigianato non solo per un estremo impulso d’autostima, ma anche per regalare ai posteri qualcosa di solido da ammirare.

Se al Père-Lachaise di Parigi si va in pellegrinaggio per Jim Morrison e alla Chacarita di Buenos Aires per accendere una sigaretta tra le dita del rey del tango Carlos Gardel, qui si dovrebbe venire per Guglielmo Koerner alias Wilhelm Körner, chimico tedesco naturalizzato italiano, esperto di alcaloidi e sintetizzatore dell’asparagina. Il quale rischierebbe immeritato oblio se non fosse per l’elegante edicola funeraria di famiglia, ornata da una scultura di Wildt che si ispira all’arte sacra medioevale.

 

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Fortunato Depero, Squisito al selz, 1926.

 

Ma vince a furor di popolo, fra le suggestioni sparse nell’oasi, l’Ultima Cena di Giannino Castiglioni, scultore milanese apprezzato anche come medaglista e pittore. Realizzato nel 1935, il gruppo fa da scenografia kolossal all’ultima dimora della dinastia Campari. Il famoso quarto figlio del fondatore, Davide, che morì l’anno successivo all’erezione del complesso, è rimasto famoso per aver promosso con fervore l’arte della pubblicità e del design industriale, affidandosi ai migliori specialisti del suo tempo (Dudovich, Villa, Cappiello, Negrin...) e spesso ad artisti d’avanguardia (Depero, Munari, Nizzoli...)[6] Sarà per questo che il suo Cenacolo di bronzo, pur ispiratissimo e sacrale, non riesce a mondare la mia mente malata da un tripudio di accostamenti maliziosi: con i tavoli da caffè all’aperto, il Cordial o il Bitter al posto del vino, gli stuzzichini al posto del pane, les copains al posto degli apostoli – sebbene ieratici, deferenti, perplessi e depressi quanto basta. La colpa non è solo mia; è anche di Depero, padre di indimenticabili happy hour bidimensionali nonché della bottiglietta di Campari Soda disegnata nel 1932.

Ma forse sta proprio in questo il fascino del Monumentale: nel simulare la morte tenendo le scarpe nella vita, nel tracciare un’ipotesi di avvicinamento – più che di terribile separazione – fra due mondi che, per pigrizia o terrore, consideriamo incompatibili.

 

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Fa parte del Cimitero Monumentale il primo tempio crematorio costruito in Italia, inaugurato nel 1876 nel settore dedicato ai non cattolici. «Sebbene non più in uso, costituisce una significativa testimonianza del positivismo ottocentesco e della sua fede nel valore della scienza. La costruzione è dovuta alla munificenza di Alberto Keller, attivo nel commercio e nell’industria della seta», come si legge nel sito del Monumentale http://goo.gl/m6Zifd. Keller fu il primo a farvisi cremare.

 


 

[1] Charles Baudelaire, La mort des amants in Les fleurs du mal, traduzione di Giovanni Raboni, Milano: Mondadori, 1996.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Arthur Rimbaud, Ophélie, traduzione di Diana Grange Fiori, Milano: Mondadori, 1975.

[5] Anche Giovanni D’Anzi, l’autore di O mia bela Madunina, è sepolto al Monumentale. Compose parole e musica della famosa canzone nel 1935, quando si esibiva come cantante e pianista al Pavillon Doré, tabarin milanese molto di moda tra le due guerre.

[6] Il famoso cartellonista triestino Marcello Dudovich, morto a Milano nel 1962, è anch’egli sepolto al Monumentale. Come l’artista e designer milanese Bruno Munari, dal 1998.

Gli autori di Vorrei
Pasquale Barbella
Pasquale Barbella