In The walking dead, ponendo al centro la morte, e il confine che questa rappresenta per definire l'umano, gli autori provino ad indagare a fondo la nostra stessa idea di umanità, di relazioni, di pietà, di etica in un contesto estremo non così dissimile da quelli sperimentati, ad esempio, in scenari di guerra.
Nelle ultime settimane in qualche nottata del sabato e della domenica mi è capitato di vedere qualche puntata della serie tv The walking dead, che registra altissimi indici di ascolto.
Sono convinto, da tempo, che le serie tv rappresentino una significativa espressione artistica in cui alberga tanta parte della produzione e cinematografica e letteraria attuale più innovativa, esattamente come accadde per la nascita del romanzo ed il racconto d'appendice, pubblicati inizialmente a puntate sulla stampa, anche per questo nella legge Valore Cultura abbiamo esteso le facilitazioni fiscali a questa forma di cinema.
E’ interessante come, in The walking dead, ponendo al centro la morte, e il confine che questa rappresenta per definire l'umano, gli autori provino ad indagare a fondo la nostra stessa idea di umanità, di relazioni, di pietà, di etica in un contesto estremo non così dissimile da quelli sperimentati, ad esempio, in scenari di guerra.
Ambientata in un mondo post Apocalisse, in cui un virus ha trasformato gli esseri umani in zombie, la comunità superstite (e apparentemente non contaminata) si chiude in un carcere che da luogo di detenzione diventa luogo di protezione, inversione ideale rispetto al senso comune.
Ed è interessante che il protagonista, risvegliandosi dal coma, e dunque avendo egli stesso sperimentato una condizione di pre morte, si ritrovi in un mondo che vede prevalere per numero i "vaganti", i morti viventi, mentre uno sparuto gruppo di sopravvissuti combatte ogni giorno non solo per la propria sopravvivenza ma anche per non perdere la propria umanità.
Da questa situazione di estrema precarietà derivano le regole di ammissione alla comunità stessa: quanti vaganti hai ucciso, quanti viventi e perché. Come a chiedersi quale sia il confine, quale sia il livello di umanità minima per poter entrare nel gruppo che deve difendere e far sopravvivere la nostra specie, quali tratti essenziali deve avere la stessa qualità di umanità.
E del resto è proprio la progressiva accettazione di quei corpi animati che si hanno davanti, guidati solo dall'istinto primordiale del cibarsi, eppure magari amici o parenti, umani come noi anche solo fino a picchi minuti prima, il loro riconoscimento come non umani il tema ricorrente che pone sotto la lente la nostra stessa umanità andandone a cercare le caratteristiche fondanti.
Come tanta filosofia del novecento ha sostenuto, la morte è centrale per la comprensione della vita. La caratteristica dell'umano è il suo essere per la morte. E dall'accettazione e dalla (difficile) comprensione di questo destino discende gran parte delle possibilità di definizione di sé e della capacità di cogliere la pienezza del proprio vivere.
In tempi di emergenza antropologica, con un consumismo che, nonostante la crisi, continua a costituire l'etica di riferimento, e l'accumulazione e la vittoria, spesso connessa alla soppressione dell'avversario, restano modelli dominanti, l'interrogativo sulla essenzialità del nostro essere è tutt'altro che scontato.
Da questo pezzo di letteratura televisiva emerge con forza una risposta comunitaria, fatta di regole minime e di un bisogno di riscoperta delle caratteristiche che definiscono l'umano dal non umano.
E se una serie tanto vista suscita almeno qualcuno di questi interrogativi, credo svolga appieno quello che, a mio modo di vedere, è il ruolo di ogni forma artistica: spalancare la porta che affaccia dentro noi stessi per trovare una risposta alla differenza che passa tra il nostro vagare nel mondo e quello dei morti che camminano.