Intervista a Giancarlo Onorato in occasione dell'uscita del disco live con Cristiano Godano: un riassunto degli ultimi anni della sua vita artistica
Ci siamo incontrati ormai tre anni e mezzo fa, quando uscì Sangue Bianco. Nel frattempo sono successe un po’ di cose nella tua vita artistica, però partirei chiedendoti qualcosa proprio su Sangue Bianco: com’è stata la vita di quel disco e del tour successivo? E ci sono legami tra di esso e quello che hai fatto in seguito?
Sangue Bianco è stato una specie di spartiacque, ha segnato in maniera molto netta quello che è stato il mio percorso artistico e personale, sia durante la lavorazione sia dopo la sua uscita. Innanzitutto Sangue Bianco è stato il disco con cui ho ricominciato a suonare molto dal vivo, ho ricominciato ad approcciare con una certa energia il concerto; non che prima non lo facessi, ma non si erano create le condizioni affinché io potessi farlo. Con Sangue Bianco questo invece è accaduto. Dal punto di vista artistico sto ancora meditando sul dopo-Sangue Bianco, è a partire da quegli scenari che sto mettendo a fuoco il disco nuovo, del quale posso anticipare poco perché, come tutti i miei lavori, è altamente in divenire. Mentre sto portando avanti un lavoro difficilmente so come sarà, soprattutto se parliamo di un’opera mia. Ex Live è una cosa un po’ diversa, perché è stato più partecipativo, nel senso che pur essendo io il promotore e il primo motore dell’operazione, il disco ha tenuto un’anima più collettiva, non ero solo io a scegliere, ma anche i miei compagni di avventura avevano voce in capitolo. In questi quattro anni ho suonato molto dal vivo e mi è servito tanto, perché suonando dal vivo ci si struttura meglio e si ha la possibilità di capire maggiormente ciò che si è fatto, non dal punto di vista ideativo, ma da quello operativo. Un musicista ha più lati: si è un po’ artigiani, un po’ intellettuali, un po’ manovali, perché lavorando con la musica lo si fa anche fisicamente. Il lavoro live ti forgia e ti cambia un po’: per esempio entrare in studio per remixare Ex e per lavorare al disco di Davide Tosches è stato molto meno faticoso che in passato, perché ero più avvezzo a certe situazioni. In quei casi si usa un approccio un po’ meno intellettuale e un po’ più complessivo, tenendo conto anche di ciò che si fa veramente poi suonando. Quindi credo che il disco nuovo risentirà sicuramente di questa cosa, sarà un disco molto musicale, cercherò di aggiungere anche questa volta una certa percentuale di musica, perché penso che in Italia oggi la musica sia, per un certo verso, in realtà priva di musica, che ce ne sia poca.
All’inizio dello scorso anno è uscito Ex – semi di musica vivifica, che è un romanzo/saggio dalla forte componente autobiografica. Qual è stata la scintilla che ti ha portato a confrontarti con un’opera di questo tipo, in cui ti racconti e racconti la tua visione del mondo e dell’arte in modo più diretto rispetto alle tue altre opere letterarie?
Tra articoli ed interviste negli ultimi cinque anni mi stanno bombardando di domande sugli anni Ottanta, ma io ho sempre cercato di declinare l’invito a parlarne, più che altro per sganciarmi da quelle che sono logiche di revival. In occasione di un lungo articolo che ebbi modo di scrivere circa cinque anni fa per L’Isola che non c’era su quel periodo, sul quale sono peraltro molto critico, ricevetti molte proposte di continuare a farlo. Iniziare a scrivere su un periodo storico e su un periodo della vita porta con sé l’effetto di sollevare un polverone nella memoria, andando a muovere tutta una serie di ricordi che non erano stati rimossi, ma comunque messi da parte. Mi son quindi trovato a portare avanti questo progetto, che tra l’altro ho poi portato a termine con grandissima fatica, perché ero molto indeciso sul taglio da dargli: non volevo che fosse un’autobiografia, perché non doveva esserlo in alcun modo, non volevo che fosse una cosa di taglio storico, volevo parlare liberamente, a ruota libera, di quello che sentivo su quel periodo e che fosse una testimonianza sensibile, non strettamente musicale. Volevo che fosse un esame di coscienza, una disamina su quello che voleva dire fare musica controcorrente in questo paese, contro le avanguardie, contro le istituzioni. Nel farlo più di una volta ho avuto dubbi e ripensamenti, anche perché mi ha tenuto lontano dalla scrittura di un altro libro che avevo iniziato a scrivere, ma ho voluto portarlo a termine, ho preso questa decisione. Alla fine, tra una cosa e l’altra, quindi anche suonando in giro, ci ho messo quasi tre anni per finirlo.
tutti siamo in cerca di quelle cose che possono farci capire o almeno intuire il senso della bellezza. Questo però coincide anche con la ricerca del miglioramento della collettività, che passa attraverso un individuo, che rifiuta delle istituzioni che sono sbagliate
Quindi è stato un approccio diverso alla scrittura rispetto a quello usato per gli altri tuoi romanzi…
Decisamente, tant’è che molti hanno apprezzato questo cambiamento, perché ho scritto con una saggistica quasi da pamphlet, con un’aggressività che non è un’irruenza dura, ma che è comunque un j’accuse su un certo mondo, che non è solo quello musicale. Ci tengo infatti a dire che Ex non è un libro sulla musica, ma è un libro squisitamente politico, nel senso più alto del termine, è un libro che si occupa della ricerca della bellezza, che per ognuno di noi è qualcosa di diverso, ma la cosa che non cambia è che tutti siamo in cerca di quelle cose che possono farci capire o almeno intuire il senso della bellezza. Questo però coincide anche con la ricerca del miglioramento della collettività, che passa attraverso un individuo, che rifiuta delle istituzioni che sono sbagliate: la famiglia, che è fallita, la scuola, che è fallita, l’accademia che non da nulla, e lo stato, che non esiste più in quanto entità in grado di considerare l’insieme ma anche l’individuo. È un’operazione molto ambiziosa quindi quella di Ex, io non so quanto ci sia riuscito, però penso che sia una somma di suggestioni e a un certo punto di riflessioni, soprattutto nella seconda parte, che lo fanno assomigliare a un saggio.
Il titolo, Ex, come deve essere inteso? Io penso che si debba risalire al suo significato in latino, cioè che indichi la provenienza da qualcosa, piuttosto che dal suo uso corrente. Sei d’accordo?
Hai assolutamente ragione, perché per me è importante usare le parole nella maniera appropriata. Un altro dei grandi incubi del nostro presente è il fatto che molti di noi usano le parole non conoscendone o disconoscendone il significato. Invece le parole vogliono dire qualcosa. Oggi a volte diventa difficile parlare usando certi termini, perché ormai molti gli attribuiscono un significato sbagliato o addirittura contrario rispetto a quello vero. Ex ha quel significato: qualcuno che ha provenienza da e muove verso qualcosa.
Veniamo ora alla collaborazione con Cristiano Godano: come è nata? E come avete deciso poi di farne un disco?
È nata con un’amicizia che portiamo avanti ormai da anni, da almeno sei. Ci conoscevamo già da prima naturalmente, ci eravamo incrociati più volte, già nei mitici anni novanta. Sebbene la decade “di appartenenza” sia diversa, anagraficamente sono pochi gli anni che ci dividono, perché quando iniziai io ero praticamente un ragazzino. Col tempo ci siamo ritrovati a dividere il palco in situazioni varie, festival, serate, in cui si cercava di accostare due persone che hanno un certo tipo di approccio con la pagina e con la canzone ed entrambi in un certo modo avevano esperienze anche con la letteratura. Certo, si fa presto a dire “letteratura” a volte, in alcuni casi si semplifica troppo dicendo che chi ha fatto un libro fa letteratura. Comunque è vero che sia io che Cristiano, con il giusto rispetto verso la disciplina, ci siamo confrontati con la scrittura.
Quando è uscito Ex l’unica cosa che ha fatto l’editore è stato dire “facciamo delle presentazioni”, ne abbiamo organizzata una ma è andata malissimo. Al che ho detto “io non ne faccio più”, mi sembravano poco interessanti, anche perché era già abbastanza strano arrivare in libreria con un libro del genere. Ho quindi pensato che, visto che il libro era pieno di musica, fosse giusto presentarlo con le canzoni. Mi trovai dunque a pensare con chi potevo farlo: in quei giorni stavo riascoltando Paolo Benvegnù, quindi gli inviai il libro e gli proposi di accompagnarmi. Lui apprezzò molto il libro e accettò; ci trovammo così a rispolverare una vecchia amicizia, che risaliva addirittura agli esordi degli Scisma, che condivisero con me forse il primo palco importante della loro carriera, e a fare un brevissimo, fulminante, ma appagante tour. Però era un concerto abbastanza raffazzonato, molto emozionale, con niente di preparato, eravamo buttati sul palco a fare delle canzoni come ci venivano. Quando poi Paolo mi disse che voleva dedicarsi al suo disco, io ci avevo preso gusto a fare questa cosa anche perché avevamo fatto pieni ovunque. C’erano in programma date con Paolo e poi date con Cristiano, quindi abbiamo continuato con lui, facendolo però diventare qualcosa di più strutturato e composito, fino poi a registrarlo.
Se non sbaglio questo è il tuo primo disco live. Com’è stato il tuo approccio alla registrazione in questo caso? Avete registrato solo la serata finita poi sull’album o anche altre e poi avete scelto la migliore?
Se un anno fa qualcuno fosse venuto a dirmi “tu farai un disco dal vivo” non ci avrei mai creduto, pensavo che ci fossero le stesse probabilità di essere mandato sulla Luna con un razzo, perché al mio livello si può vivere facendo questo mestiere, ma ciò non equivale ad avere un pubblico così grande per cui produrre dischi di quel tipo. Dopo la trentesima data di Ex, con un pubblico sempre più spesso molto numeroso con molti locali pieni, e con questa grande sostanza che si era creata, a qualcuno è venuto in mente di documentarlo. Di solito quando si fa un live si registrano tre o quattro serate e poi si fa una cernita, si pubblicano le canzoni venute meglio. Invece nel nostro caso abbiamo registrato una sola serata e tenuto quella, anche perché la registrazione voleva essere un documento, non una celebrazione della nostra bravura.
Abbiamo registrato una sola serata e tenuto quella, anche perché la registrazione voleva essere un documento, non una celebrazione della nostra bravura
La scaletta com’è stata scelta, sia per quanto riguarda i vostri brani che per le cover?
Ognuno ha portato le proprie scelte, io ho scelto buona parte del repertorio, mentre Cristiano ha portato le proprie proposte, in generale siamo circa 60-70% mie scelte. Se però dopo l’uscita del disco lo spettacolo avrà una seconda vita, e pare che l’avrà, la cosa interessante sarà rinnovare il repertorio, perché ci sono tantissimi stimoli, noi in due ore di concerto non diciamo tutto quello che possiamo e vorremmo dire.
Ho notato che mancano cover di artisti italiani. Come mai questa scelta?
È una scelta dettata dall’aderenza al testo, che è un testo che racconta di un musicista che si è reso conto che il Novecento, e in particolare la sua seconda metà, non è stato per nulla italiano. Quindi questo è un doveroso omaggio alla realtà dei fatti. Certo, si sa che nel mio caso c’è una certa attenzione nei confronti di alcuni percorsi, ad esempio quello di Tenco, però è stato così tanto omaggiato, a volte anche in maniera eccessivamente gratuita, che non me la sono sentito di aggiungermi. Poi bisogna tenere conto del mio compagno di lavoro, che viene da percorsi diversi e lontani da influenze italiane. Quindi, non volendo fare una cosa totalmente mia, ma che tenesse conto anche della sua storia, ho preferito concentrarmi su altro.
È un fatto che noi italiani, per varie ragioni storiche, non abbiamo rappresentato qualcosa di significativo a livello mondiale negli ultimi cento-centocinquanta anni
Eppure quando intervistai Cristiano qualche anno fa gli feci notare che con i Marlene Kuntz aveva iniziato a fare cover di artisti italiani, ad esempio La Libertà di Gaber…
Quello è un tipo di sintesi che si potrebbe fare, il convergere di alcuni percorsi, però è un fatto che noi italiani, per varie ragioni storiche, non abbiamo rappresentato qualcosa di significativo a livello mondiale negli ultimi cento-centocinquanta anni. Quindi, per fare un excursus che avesse un valore in Indonesia così come a Chicago, non poteva esserci qualcosa di italiano. Tenco, pur essendo stato un grandissimo innovatore per quanto riguarda il linguaggio della musica d’autore in Italia, rimane, come la stragrande maggioranza di tutti noi musicisti italiani, derivativo.
In questo periodo state invece portando in giro una serata chiamata “La ricerca della bellezza” assieme al giornalista Luca Barachetti. Com’è strutturata?
È una serata molto gustosa perché in tempi di difficoltà e di svuotamento del contenuto noi facciamo delle riflessioni sul nostro tempo, sul ruolo dell’arte e del musicista, ma soprattutto su cos’è la bellezza e sul suo ruolo. Stimolati da Luca Barachetti, io e Cristiano diamo il nostro punto di vista, con anche qualche brano in acustico, voce e chitarra, in versione molto scarna, essenziale, quasi embrionale. Le serate vengono sorprendentemente bene, la gente è molto attenta e c’è una bella interazione con il pubblico, il che è molto incoraggiante, anche perché vengono fatte per creare momenti di contatto con chi ci ascolta, per abbattere la parete che spesso si crea tra chi sta sul palco e il pubblico.
La bellezza è l’ideale miglioramento delle sorti di un individuo, che coincide con un miglioramento anche per la collettività.
A questo punto la domanda che sorge spontanea è: che cos’è la bellezza? E come la si riconosce?
La bellezza per ognuno di noi è qualcosa di diverso, però per tutti è invariabilmente qualcosa verso cui tendere. Non tutti ce ne rendiamo conto, ma se dovessimo tradurre le attese di una persona, verso cosa volgono? A cosa tende una persona? Tende verso un miglioramento. Quindi la bellezza è l’ideale miglioramento delle sorti di un individuo, che coincide con un miglioramento anche per la collettività. È l’inseguimento di qualcosa che senti come un tuo diritto, una pulsione nel senso del desiderio. Credo sia un principio vitale irrinunciabile, non si può vivere senza quello che noi normalmente consideriamo inutile, superfluo, nel senso di ciò che rende più alta e migliore la vita, non nel senso che gli viene dato oggi, dell’avere cose inutili in quantità. In ultima analisi mi sento di aggiungere che la bellezza è veramente motore delle sorti, anche concrete, di un individuo e della società. Un uomo migliorato e in grado di migliorare se stesso, è un uomo che ha una maggiore consapevolezza e che può quindi rendere meglio il proprio servizio alla collettività. Una collettività migliorata può quindi puntare verso sorti migliori per tutti.