Cantore di ribelli e anarchici, profondo conoscitore del Messico e dell'America Latina, Pino Cacucci è stato il primo ospite per la rassegna di Brugherio, BruMa 2014 ideata da Camilla Corsellini
ABrugherio, nella biblioteca Civica, lo scrittore Pino Cacucci ha lungamente colloquiato con Camilla Corsellini, animatrice di BruMa, rassegna culturale al suo ottavo anno, permettendo a chi lo ascoltava di essere trasportato su onde e mari lontani, ma non soltanto questo. Cacucci non è soltanto uno scrittore geografico, non potremmo inserirlo con scioltezza sotto la categoria "letteratura di viaggio"; i suoi libri spaziano, ma non solo nel numero di paesi che raccontano: spaziano tra mito e leggenda, tra memoria storica e cultura popolare, tra realtà e leggenda. Cantore soprattutto delle Americhe Latine e del suo amato Messico, Cacucci nel 2012 ha conquistato il premio Chiara per la raccolta Nessuno può portarti un fiore, dedicata a dei ribelli, emarginati, antieroi, anarchici, esseri umani innamorati della libertà, la cui vita assomigliava già ad un romanzo, assecondando il detto che la realtà supera spesso la nostra più fervida immaginazione.
Pino Cacucci è piccolo, abbronzato, ha il baffetto curato e il capello brizzolato; sembra in tutto e per tutto un latino, un messicano.
E invece è italiano, viene da Chiavari ma vive quasi sempre a Bologna. Quasi sempre perché spesso è via, in uno dei suoi viaggi in America Latina; ed è stato via molto a lungo, oltre oceano ma anche a Parigi e in Spagna, sempre girovagando, assecondando la sua inquietudine di scrittore e viaggiatore. Fu così che scoprì la minuscola località di Puerto Escondido, di cui si innamorò, rendendola un libro affascinante che attirò così tanto Gabriele Salvatores da spingerlo a trarne quel film che tutti ricordano.
Da sempre Pino Cacucci è anche un cantore delle donne anticonformiste: tra i primi a interessarsi e far conoscere Tina Modotti, indimenticata – grazie a lui – attrice e fotografa italiana, ribelle e antifascista, emigrata prima negli States, dove visse il fermento culturale della West Coast, partecipò ai grandi movimenti sindacali che la portarono a sposare la causa rivoluzionaria del Messico, dove morì in circostanze ancora poco chiare (per chi vuole approfondire, consigliamo il suo Tina, edito da Feltrinelli).
Oltre a lei, Cacucci si è interessato a Carmen Mondragon/Nahui Ollin, la bellissima artista messicana dalla personalità tanto libera quanto forte ed intrigante, nonché alla più famosa Frida Kahlo, per cui ha scritto Viva la vida ed in cui parla anche dell'altrettanto famoso suo compagno Diego Rivera, artista e intellettuale di spicco per la cultura del Messico. Che torna sempre nei suoi romanzi – e nella sua vita – nonostante lo scrittore dichiari di essere d'accordo con le parole di Carlos Fuentes "Non si può raccontare il Messico", quasi negando il suo stesso operato, ma in realtà affermandolo con forza quando, poi, continua dicendo: "Il Messico non puoi tentare di capirlo e spiegarlo, ma puoi solo amarlo con totale e completo abbandono". E scrivere è sicuramente il suo modo di amarlo.
È per questo che la prima domanda che ho per Pino Cacucci è da cosa è scaturito e come è iniziato il suo amore per l'America Latina e per il Messico in particolare.
Comincia con delle letture e poi è sbocciato con un primo vaggio in Messico, senza uno scopo preciso. Erano i primi anni '80, la prima volta sono partito nell'82, e arrivai in Messico perché vagabondavo fuori dall'Italia, avevo vissuto un po' a Barcellona e a Parigi. E proprio a Parigi avevo incontrato degli amici messicani che mi avevano invitato da loro, mi avevano detto: "Non puoi vivere e non vedere Città del Messico". E all'epoca non era come oggi, non c'era l'email, ma noi comunque ci siamo tenuti in contatto, scritti delle lettere e quando sono arrivato lì, all'aeroporto di Città del Messico, c'era una famiglia di messicani che mi aspettava. E non poteva essere meglio di così, questo inizio che mi ha fatto entrare nella vera cultura messicana e che ha cambiato per me molte cose. Sentivo che ce n'erano tante che non capivo ma che mi piacevano e che volevo a tutti i costi approfondire, perciò tornato a casa, dopo un mese, a Bologna, mi sono messo subito a cercare un modo per ritornare là. Ai tempi scrivevo, ma nessuno mi pubblicava e il mio interesse per Tina Modotti non sfociava in nulla; poi strada facendo mi sono inventato il mestiere del traduttore. E col tempo, con i viaggi, il Centro America e il Messico sono diventati il mio luogo dell'anima, l'ho girato poco a poco tutto e nel tempo ho costruito una serie di relazioni, ho incontrato persone e amici, lavoro con le Università e partecipo a Festival e Fiere. Anche se è finito quel periodo della vita in cui vivevo più là che qua, ci torno sempre.
Come ha scoperto Mahahual, questo paradiso terrestre, ancora quasi completamente inesplorato, che è anche il luogo che dà il titolo al suo ultimo libro?
Lì è l'estremo sud messicano, dove confina con il Belize, con una natura praticamente incontaminata, e in tanti anni che viaggio in Messico non so quante volte sono stato in Yucatan, ma non mi ero mai spinto fino alla frontiera col Belize. Perciò tre anni fa mi sono detto voglio andare a vedere che c'è lì. Guardando sulla cartina c'era un unico luogo abitato sulla costa del Mar dei Caraibi, così prendendo delle corriere locali, ci sono arrivato. E ovviamente non immaginavo assolutamente che qualcuno potesse conoscermi in quel posto, ma il secondo giorno che ero a Mahahual ho sentito una voce che mi chiamava ed ho scoperto che lì viveva un italiano che anni prima avevo incontrato in non so quale fiera del libro e mi aveva detto che aveva una mezza intenzione di trasferirsi in Messico. Ora lì lui ha costruito un hotel molto bello, ecosostenibile, rispettoso dell'ambiente circostante. Così è nata anche la nostra idea di creare un festival letterario nell'ultimo avamposto della società civiltà su quel confine naturale, ed è stata un'impresa rocambolesca, alla Fitzacarraldo, ma che adesso va, sta in piedi da sola.
Facciamo un passo indietro e partiamo dal principio, ossia da Puerto Escondido, che è stato il libro, e poi anche il film (di cui Cacucci fu sceneggiatore, ndr) del successo. Che cosa è cambiato dopo?
Per me dopo è cambiato molto: il film mi ha permesso definitivamente di campare di scrittura, cosa che prima era molto difficile. Il film mi ha portato quella notorietà e stabilità che non avevo prima; mi ha dato la possibilità di poter iniziare a vivere di quella che prima era poco più che una passione, che coltivavo ma che facevo insieme ad altre mille cose precarie per andare avanti; è stata perciò una grande fortuna per me che Gabriele leggesse quel libro e gli piacesse. Per contro poi sono cambiate tante cose... una marea di italiani sono arrivati a Puerto Escondido gli anni successivi, che si è trasformata, ma non soltanto per merito del libro. Oggi è molto più riconoscibile rispetto a come la trovai io trent'anni fa, quando era ancora più piccola di quello che è Mahahual adesso. Ecco, magari un po' a Mahahual ho risentito quelle atmosfere che sentii trent'anni fa a Puerto Escondido, da cui recentemente un mio amico mia ha detto che se ne va perché non può vivere in un posto in cui ci sono otto semafori, hanno messo otto semafori lì e lui non ce la fa già più; questo per darvi l'idea di com'era prima.
Pino Cacucci non poteva permettersi di vivere di scrittura prima del boom di Escondido, eppure durante la serata racconta un aneddoto stupefacente per un totale neofita della scrittura qual era. Ossia. Agli inizi era presentato in giro come "lo scrittore che piaceva a Federico Fellini". "Fellini aveva comprato il mio primo libro, Outland rock, che era una raccolta di racconti gialli usciti per Transeuropa per il semplice motivo che sulla copertina, per nessunissimo motivo riconducibile al contenuto del libro, c'era un gorilla; in quel periodo Fellini cercava immagini simili per uno dei suoi film. Non gli interessava affatto il libro, la trama o i racconti, e aveva avuto persino l'idea di strappare la copertina, perché non aveva senso comprare un libro solo per la foto di copertina. Ad ogni modo, il libro ce l'aveva in casa e una notte, dato che Fellini era insonne e i libri, ogni tanto li leggeva pure, lesse il libro e gli piacque. Così il giorno dopo cercò sull'elenco telefonico il mio nome e numero, trovando quello di mia sorella, perché all'epoca, spiantato com'ero, non avevo neanche un fisso. Chiamò e si presentò come Federico Fellini, dicendo a mia sorella di voler parlare con me e lasciandole il suo numero di casa; mia sorella non ci credette, entrambi pensavamo fosse uno scherzo; ma io chiamai lo stesso e così iniziarono delle telefonate con Fellini". Che poi avrebbe parlato di lui con la stampa dicendo che nelle sue pagine aveva trovato le stesse atmosfere di certi noir francesi. Una coincidenza alquanto assurda, dato che poi Cacucci non ha più scritto dei gialli, ma che gli valse il curioso appellativo di scoperta del famoso regista.
Lei ha vinto diversi premi; non da ultimo il Premio Pietro Chiara, nel 2012, dedicato al racconto.
Sì, mi hanno dato altri premi ma già decisi, di cui almeno un paio per le traduzioni, a cui tengo tantissimo, mentre invece nel premio Chiara ho vissuto la suspence di vedere i voti che arrivavano e si accumulavano e i numeri che crescevano. E sono stato molto felice anche per il tipo di libro che è Nessuno può portarti un fiore, perché sono storie di ribelli che hanno dato anche la vita per i propri ideali. E lo stupore si è associato al fatto che gli altri due finalisti erano del calibro di Veronesi e Ammaniti, perciò pensavo già di essere arrivato terzo e andava bene; e invece no, è stato scelto quel libro così particolare ed è stata un'enorme soddisfazione.
Lei ha vissuto molto all'estero e spesso parte ancora, perché poi torna comunque in Italia? Perché alla fine poi sceglie di tornare?
Forse ormai la mia condizione è quella dell'andirivieni. Forse avendo già vissuto degli anni fuori, ed è chiaro che mi piacerebbe starci anche molto di più, piuttosto che due o tre mesi, ma a un certo punto è come se il Messico mi abbia respinto, ho sentito il bisogno di tornare. Perché il Messico è uno di quei posti che sembrano nati per smentirti ogni momento, sembra sia fatto apposta per ripeterti continuamente che hai sbagliato tutto e non hai capito niente, e sento il timore che se rimanessi lì per due o tre anni senza mai muovermi - e ce ne sarebbe da girare in Messico – in qualche maniera se restassi tanto tempo fermo in un posto, dovrei cominciare ad occuparmi di alcune cose di cui adesso non mi preoccupo, tipo prendere casa lì e smetterla di essere un vagabondo. E poi c'è un lato lato tragico, spietato, repellente del Messico, e proprio perché non posso dire che non ne sono innamorato e perché è stato un paese, una cultura così generosa con me, non voglio che quel lato tragico possa prevalere sulle emozioni, sulle sensazioni che le persone amiche che ho lì mi danno. Trovo giusto staccarmi per andare a prendere, egoisticamente forse, i lati positivi del Messico; se ci stessi due o tre anni di seguito non sarei più il vagabondo che sono di solito, anche se ogni volta che torno qui mi basta guardare un telogiornale per dire ma chi me l'ha fatto fare. Poi però di pratico c'è che io le mie cose le porto avanti qui. È qui che scrivo. Io là assorbo, ascolto, raccolgo. Spesso mi dico: "C'è troppo da vivere in Messico per perdere tempo a scrivere" e infatti il tempo da perdere per scrivere lo perdo qua, mi è congeniale isolarmi nella mia tana a Bologna per mettere a frutto quel che ho vissuto. Poi chissà quanto dura questo andirivieni, non esistono per me ricette di viaggio e tutto sommato mi piace riconoscere quest'anima che ti impone di rinunciare a tutte le categorie ottuse con cui sono nato e cresciuto per vivere.
Quello che dice è perfettamente coerente con la sua frase “Le radici sono importanti, nella vita di un uomo, ma noi uomini abbiamo le gambe, non le radici, e le gambe sono fatte per andare altrove”, (da Un po' per amore, un po' per rabbia, 2008 ). Mi sono chiesta se Pino Cacucci pensa a se stesso, e quanto, come un viaggiatore.
Sì, lo sono, anche se sto tanto fermo, per scrivere, però di fatto lo stimolo per avere idee e punti è viaggiare e muovermi. Io scrivo anche tanto di memoria storica, devo fare del lavoro anche lungo di ricerca e nove volte su dieci mi interesso a messicani perciò poi finisce che vado lì, e quello è un paese che agevola tanto questo genere di ricerche perché lì coltivano moltissimo la memoria storica. Però non sono un viaggiatore con la smania di dover vedere tutto o di girare il più possibile; mi piace fermarmi nei posti, ascoltare le persone che mi raccontano le loro storie, che a mia volta scrivo. La curiosità sì, ma senza avere fretta, è questo ciò che mi muove. Del resto mi ritrovo perfettamente con ciò che dice anche il mio amico Sepulveda: “Prima vivi, poi scrivi”.
In questo mondo post ideologico, il famoso grido di Aleksandr Marius Jakob "L'anarchia verrà" è ancora valido?
Si, sicuramente è valido, in quanto l'anarchia è un utopia e l'essere umano non può fare nulla senza questa, non può vivere senza; anche la scienza non sarebbe mai andato avanti senza quella scintilla di rivolta, in fondo anche Galileo era un utopista, un anarchico che voleva andare oltre grazie ad una sua intuizione. L'utopia è quell'atto di ribellione che ti porta avanti, citando Eduardo Galeano "L’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare." L'umanità non riuscità mai a realizzare l'ideale libertario, ma si può vivere secondo un'etica anarchica.
BruMa continua il 14 ottobre, sempre alle 21.00 presso la Biblioteca Civica di Brugherio, per un altro incontro che si preannuncia interessantissimo: a colloquio con Camilla Corsellini ci sarà Wu Ming 4. Ingresso libero e attenzione assicurata.