Una lettura del romanzo Marco e Mattio di Sebastiano Vassalli per una riflessione sul tema alla base di Expo 2015: l'esempio della val di Zoldo
E
xpo Milano 2015 «si confronta con il problema del nutrimento dell’uomo e della Terra.... Questa Esposizione Universale ha come obiettivo primario quello di stimolare davvero il dibattito sull’alimentazione e sul cibo»: così recita il sito ufficiale della tanto attesa e discussa manifestazione. Un tema di enorme rilevanza e di assoluta priorità, che spesso viene oscurato da sterili polemiche e dai mille problemi sempre legati nel nostro paese alla realizzazione di grandi eventi. Ma è proprio di quel tema che noi vogliamo occuparci, privilegiando un approccio che permetta di sottrarlo all’appiattimento nella pur necessaria dimensione delle tecnologie produttive e degli scambi commerciali, per metterne in primo piano la dimensione etica e umana: il dramma della fame e il sogno dell’abbondanza, lo scandalo dello spreco e la lotta per strappare il nutrimento all’aridità e all’inclemenza delle terre e degli uomini, il legame tra alcune zone del pianeta, alcuni momenti cruciali della storia e il nostro cibo. Dove trovare un simile approccio se non nella letteratura? Abbiamo pensato perciò di proporre periodicamente la lettura o la rilettura di romanzi che parlino di questi argomenti: con qualche riferimento, talvolta, ai grandi classici, ma scegliendo testi contemporanei; non recensioni letterarie, ma un percorso tematico attraverso autori che ci porteranno in epoche e paesi diversi sulla scorta degli insopprimibili e multiformi bisogni alimentari dell’umanità.Cominciamo da uno sguardo sul passato alimentare del Nord Italia. Delle sue ristrettezze nel XVII secolo ci ha raccontato, come è ben noto, il Manzoni de I Promessi Sposi, segnalando fin dai primi capitoli la carestia che incombeva sul ducato di Milano tra il 1628 e i tre anni successivi: la «vaccherella magra stecchita» a cui la «fanciulla scarna» che la porta al pascolo si china in fretta a rubare«per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevano vivere»; o la «piccola polenta bigia, di gran saraceno»che si mangia a casa di Tonio. Erbe del prato e cereali poveri: unico lusso, i capponi con cui Renzo doveva festeggiare le sue nozze, o il brodo, sempre di cappone, che la moglie del sarto offre a Lucia, compiacendosi di non essere tra «que’ poveri poveri che stentano ad aver pane di vecce e polenta di saggina», ma umilmente sottolineando che quello in cui si trova ad accoglierla è un giorno fortunato, uno di quelli in cui «non c’è il gatto sul fuoco». Poteva capitare dunque anche alla gente relativamente benestante di non aver nulla da mettere sul fuoco...
Di ciò che accade invece quasi due secoli dopo nella confinante Repubblica di Venezia ci racconta Sebastiano Vassalli in un romanzo del 1992, Marco e Mattio(Einaudi): romanzo storico nel solco della migliore tradizione letteraria, che, basandosi su documenti d’epoca, offre la ricostruzione dettagliata e realistica di eventi e situazioni del passato, accompagnandola però talora col contrappunto del confronto esplicito col presente e con un’invenzione tinta di simbolo e di mistero.
I tempi: i decenni a cavallo tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, quelli che precedono e seguono la Rivoluzione Francese e l’ascesa di Napoleone; tempi, dunque, di straordinari rivolgimenti politici e sociali, di profonde crisi e trasformazioni culturali, tempi in cui anche nelle zone più appartate della nostra penisola arrivava il vento del razionalismo e della rivoluzione, mentre ancora sopravvivevano tenaci la superstizione e la sottomissione all’ordine costituito. «Ogni epoca, si sa, è un groviglio di contraddizioni e di cose assurde, e però forse il groviglio non fu mai così intricato come nel periodo che precedette la morte di Venezia, e l’ascesa di Napoleone, e la nascita del mondo moderno».
I luoghi: la Val di Zoldo, una delle valli dolomitiche del Cadore, coi suoi piccolissimi paesi riuniti attorno alle pievi e i boschi dove stazionavano per mesi i carbonai intenti alla produzione del combustibile richiesto a valle dalle officine per gli arsenali veneziani; le città “madri”, Belluno, chiusa nel recinto egoistico dei suoi palazzi di pietra, e soprattutto Venezia, la Serenissima, la Dominante, tutta aperta al mondo esterno, ricca di meraviglie architettoniche e di ogni ben di Dio prodotto in ogni angolo della terra.
A ripercorrere le pagine che Vassalli ha dedicato ai problemi alimentari di quei luoghi e di quei tempi, mi piace iniziare da uno degli ultimi capitoli, quello attraversato dal ritornello di una canzone popolare che riassume in modo vivissimo il sogno dell’abbondanza, «il più gran sogno di quegli anni di fame»: il mare e le montagne trasformati in cibo, il cibo più appetitoso e nutriente che i più poveri potessero allora desiderare...
Se i mare fusse tocio
e i munti de puenta
oi mama che tociàda
… puenta e baccalà
«... quel canto si ripeteva, nella notte, con minime variazioni: rimbalzava contro le montagne lontane, s’allungava nella valle buia del Piave facendo correre un brivido nella schiena ai grand’uomini nudi e indifesi dentro ai loro palazzi di pietra, e alle loro consorti in ansia di martirio». Di quelle strofe familiari a tanti, non sospettavamo forse quel che Vassali ci rende noto nelle sue pagine: che nel marzo del 1800, proprio all’inizio del nuovo secolo, esse rappresentarono il canto di rivolta dei contadini della Val di Zoldo, calati in città a reclamare da una nobiltà ottusa ed egoista una possibilità di sopravvivenza, un sollievo all’oppressione economica da essa esercitata su una popolazione rurale stretta nella morsa di una fame sempre più intollerabile.
Diversa dalla sommossa milanese del novembre 1628, raccontata dal Manzoni come tumulto spontaneo scatenato dal rincaro dei prezzi del pane dovuto alla carestia, la rivolta dei contadini della Val di Zoldo era stata invece discussa e progettata sulla base di una nuova consapevolezza e di una inaudita speranza indotta dal breve periodo del governo napoleonico sulla zona (cui si era sostituito ormai stabilmente, dopo Campoformio, il dominio austriaco): «tutti si stavano pian piano persuadendo – e in ciò, forse, era la vera novità dei tempi – che l’infelicità dei poveri e la beatitudine dei ricchi non fanno parte della natura delle cose come il giorno e la notte, il caldo e il freddo, il sole e la pioggia; e che le vicende umane possono cambiare, e cambiare in meglio!».
Così, il luogo che nel romanzo manzoniano rappresentava il crocevia degli inganni, l’osteria del paese, diviene qui luogo di ferventi discussioni e di proposte sulle «cose che dovevano essere fatte perché la miseria cessasse e perché anche ai poveri fosse riconosciuto il diritto ad avere un’esistenza dignitosa». L’oste Pietro Pra, uomo stimato ed equilibrato, ben diverso dai maledetti osti manzoniani, viene eletto, insieme al calzolaio Mattio Lovat, (il protagonista del romanzo), rappresentante del popolo delle valli, per ottenere la cancellazione delle tasse più odiose e insopportabili. Ma le trattative sono destinate a fallire: la nobiltà bellunese sostiene di essere la benefattrice delle plebi rurali, di quei contadini che sarebbero condannati «dall’angustia del territorio, e dalle sevizie del clima a restar sempre miseri e senza sussistenza, se non fossero alimentati per sei mesi all’anno dai loro padroni».Ai “territoriali” non rimane che la lotta armata: il loro consiglio generale riunito «in una cava di pietra a poche miglia della città» elegge i suoi capi e ne ascolta il giuramento, ma, curiosamente e significativamente, la cerimonia si conclude con una inattesa elargizione di cibo da parte di un famoso bandito locale, L’Userta, che è venuto, come sostiene, a mettere la sua spada al servizio della rivolta, e che ne diverrà il vero eroe:«... entrarono quattro donne vestite con il costume di Agordo e ognuna di loro reggeva una paniera che doveva contenere un cibo appena cucinato: un cibo caldo, a giudicare dal profumo che riempì tutta la cava e che a molti tra i convenuti strappò un nome, sonoro come un applauso: “Il bacalà!” (sic)».
Mattio Lovat, il ciabattino di Zoldo protagonista del romanzo, si chiede cosa mai possa essere quel cibo che «manda in estasi la gente della cava»: il baccalà lo ha già visto alla pescheria del mercato a Venezia, «un pesce secco e duro come il legno, ancora poco conosciuto tra le montagne del Piave», ma non sa certo che, cotto in umido, può diventare un tocio succulento. La polenta, invece, ovviamente la conosce bene: è da più di due secoli il cibo dei poveri nel Veneto dell’epoca, soprattutto dei montanari, che pur nutrendosene quasi esclusivamente, non ne conoscono né l’origine né, soprattutto, le conseguenze sulla loro salute. Anche i campi di granturco, «i campi della polenta», «così numerosi e così grandi che sembrava non dovessero finire mai», Mattio li vede per la prima volta in vita sua quando scende in pianura, nel suo viaggio a Venezia, e subisce per la sua ignoranza i rimproveri di un altro viaggiatore: «Come si fa... a non riconoscere il Dio che ci ha creati, e i genitori che ci hanno fatto crescere, e questi campi che ci mantengono in vita?».
Un opposto rimprovero il giovane aveva subito qualche tempo prima da un personaggio allora molto noto nella Val di Zoldo come il Crociato «per metà eremita cristiano e per metà stregone», uno scomunicato che tutti evitavano ma al quale spesso ricorrevano per chiedere alle sue conoscenze “alternative” qualche impossibile guarigione. Il mulo sul quale Mattio e suo padre girano per le valli in cerca di zoccoli da riparare si è ammalato: la loro sopravvivenza economica è minacciata da questa sciagura, perciò il giovane viene spedito a consultare «l’unico veterinario della valle». Lo trova intento a prepararsi il pranzo, infilando su degli spiedi «dei pezzi di carne, lunghi e neri», che dispone su un rustico braciere di pietre. Invitato a condividere quel cibo dall’odore sgradevole, Mattio boccheggia e trattiene a stento il vomito: ha riconosciuto nel secchio di legno da cui il Crociato pescava quei pezzi di carne dei grossi carbonazzi (o biacchi, serpenti innocui, che si cibano di topi)! Invitato ad assaggiarli, non sa dissimulare il suo disgusto, e per questo riceve dallo scomunicato una lezione di corretta alimentazione di cui nessuno allora era in grado di valutare l’esattezza: «La chiamate polenta, non è vero, - gli chiese, - quella pappa gialla che è diventata il cibo di tutti i poveri di Zoldo, e di tutti i poveri del mondo? Ebbene... Io l’ho assaggiata una volta soltanto la vostra polenta, ma posso dirti cos’è. È un’invenzione del Diavolo per fare impazzire gli uomini; è un falso cibo, che ti sazia senza nutrirti e ti avvelena, entrandoti a poco a poco nel sangue...».
Il cibo che sazia senza nutrire e avvelena! Ne conosciamo molti anche noi, di cibi di tal genere, cibi spazzatura per i poveri dei paesi ricchi, e ne ignoriamo anche noi nei fatti la pericolosità... Il Crociato ha ragione: l’alimentazione a base quasi esclusiva di polenta è la causa della malattia che devasta le vite dei poveri di Zoldo, rendendoli folli e istupiditi e causandone la morte. La gente la chiama pellarina, la famigerata pellagra che fino ai primi del Novecento imperverserà nelle campagne del Nord Italia. Anche Mattio, come prima suo padre, se ne ammala, e ne subisce gli attacchi a più riprese: «La pelle di tutto il corpo cominciò ad arrossarsi e a staccarsi; i denti si annerirono e si guastarono; le forze vennero meno... Non era una sola malattia, la pellarina: era un universo di malattie, fisiche e psichiche, che potevano anche produrre effetti tali da sembrare miracoli... Per esempio, l’insensibilità al dolore».Allucinazioni diverse, gioiose, in genere, accompagnavano la fase finale della malattia: nel caso di Mattio, un delirio religioso autolesionistico che lo condurrà a morire all’Ospedale di San Servolo a Venezia, il morocomio, cioè l’ospedale dei matti (fondato grazie alla donazione dell’ultimo Doge della Repubblica, Lodovico Manin, che nella sua travagliata vita politica si era sentito vittima di quella che riteneva la vera pazzia, quella di chi si crede sano).
Eppure sarebbe stato possibile introdurre qualche variazione a quella monodieta mortale: dalle Americhe non era arrivato solo il mais, ma anche un tubero dalle virtù alimentari a lungo misconosciute a causa della sua provenienza sotterranea e del suo aspetto, pur essendo invece capace, per la sua alta produttività, di sfamare con poca spesa una vasta popolazione:
«un frutto della terra, un frutto nuovo e straordinario, che veniva dalle Indie Occidentali, dette Americhe, era stato portato in Europa dai missionari cristiani e avrebbe salvato i contadini veneti dalla fame, come la manna piovuta dal cielo, nella Bibbia, aveva salvato il popolo d’Israele mentre attraversava il deserto!». Così recitava la propaganda, diffusa dai pulpiti delle Chiese, per l’introduzione della patata nella coltivazione e nell’alimentazione nel Nord Italia. Due frati portano a Zoldo due sacchi del nuovo cibo miracoloso, mostrando come moltiplicarlo e assicurandone la straordinaria resa e il buon sapore dopo la cottura. Ma qualcuno protesta, con tutto il rispetto: «perché noi non siamo maiali, siamo uomini! Abbiamo bisogno di granoturco e di farina gialla!». Eppure, di quel cibo per porci, che pure qualcuno si era convinto a portare a casa per piantarlo, non si era riusciti ad avviare la produzione perché o era stato mangiato crudo la sera stessa o era stato dissotterrato e rubato per spegnere nell’immediato una fame sempre più crudele. Bisognerà aspettare tempi meno famelici per acquisire la patata al nostro panorama agricolo e alimentare...
Anche Vassalli ricorda, come Manzoni, che la fame insegna a cercare nelle piante selvatiche qualche sollievo nei periodi di carestia; e racconta di come Mattio si cibi dei germogli del rovo, «uno dei tanti surrogati del cibo di cui la gente si serve per ingannare la fame: gli si toglieva la buccia, e sotto la buccia c’era una polpa acquosa e zuccherina, dal sapore asprigno: non più sgradevole, né peggiore, di quella di certi frutti esotici che si vendono oggi a caro prezzo nei negozi delle nostre città».
Ecco, l’esotico nell’alimentazione crediamo sia una conquista del nostro tempo, uno fra i risultati positivi della globalizzazione. In realtà, da sempre l’alimentazione umana è il risultato della circolazione “globale” dei prodotti, e le città di mare e di commerci devono la loro ricchezza non solo allo scambio di manufatti preziosi, ma in primo luogo all’afflusso di cibi per i più ricchi dalle più lontane regioni. Lo spettacolo del mercato alimentare di Rialto, «il ventre di Venezia», quale appare al giovane Mattio Lovat, è un passaggio indimenticabile del romanzo di Vassalli: la descrizione per accumulo, l’infinito e variatissimo elenco di casse, sacchi, canestri, montagne di frutti, grani, legumi, verdure, semi, frutta secca e frutta candita:
«i fichi di Samo, le noci di Cappadocia, le mandorle dell’Illiria e della Tessaglia, l’uva passa di Corfù e delle isole dell’Egeo, lo zibibbo di Cipro e di Pantelleria, i datteri della Cirenaica...».
Altro che chilometro zero, insomma! E poi i pesci e i frutti di mare, piccoli e familiari o enormi e mostruosi; cibi freschi e conservati, salati ed insaccati, animali vivi e macellati...
«In campo delle Beccarie, però... l’esposizione diventava orribile e nello stesso tempo sublime. Era la mostra di un massacro che si era compiuto chissà dove poche ore prima, e che si ripeteva ogni giorno perché quel luogo fosse sempre rifornito di carne fresca, cioè di animali ancora palpitanti e di carni ancora sanguinanti... Mattio svoltò lasciandosi dietro le spalle l’urlo silenzioso di quella carne macellata che reclamava vendetta ad un Creatore, indifferente e lontano».
Non solo Zola e il suo Ventre di Parigi, ma soprattutto Bacon, in questo urlo silenzioso della carne macellata: come a dire che nell’eccesso ogni cosiddetta civiltà denuncia il suo male più ancora che nella mancanza e nell’assenza.
Della fame e della pellagra gli abitanti della Val di Zoldo si sono liberati divenendo liberi cittadini e iniziando a lavorare e commerciare una impensata risorsa alimentare delle Dolomiti: la neve. A partire dalla fine dell’Ottocento, gli Zoldani, prima trasformatisi in venditori ambulanti di castagne e mele cotte, sono diventati gelatai famosi in tutto il mondo (si può visitare nella valle un Museo del Gelato), imparando nelle città dell’impero austriaco l’arte del sorbetto da gelatai siciliani.
Dalla estrema necessità al piacere di un superfluo accessibile a tutti: c’è un futuro migliore se si vuole davvero nutrire il pianeta...