A Palazzo Reale di Milano una grande mostra sul pittore che non si lasciò mai prendere la mano da inquietudini e afflizioni devastanti: non sulla tela o sul foglio da disegno, almeno.
Saranno loro, gli artisti, a rammentarci la terra e la luce di ieri, quando ci saremo giocati l’ultimo pascolo e l’ultimo campo di zucche. Scomparso l’ultimo scampolo di Arcadia sotto gli attacchi dissennati del progresso, Giovanni Segantini – pittore ammirato da molti e celebrato da pochi, almeno in questi anni – diventerà finalmente una star della nostalgia collettiva, per aver consegnato ai posteri un’immagine così depurata e limpida della natura da elevare l’ecologismo alle vette del sacro. Ad osservare le sue montagne, fatte di luce più che di pietra, torna in mente – per contrasto – un film apocalittico, quello in cui gli abitanti più vecchi e doloranti del pianeta ridotto a un’unica e degradata megalopoli andavano a morire di eutanasia in una clinica di lusso, confortati dalla visione su grande schermo dei paesaggi perduti.[1]
E dire che Segantini aveva le carte in regola per una carriera da maudit: l’infanzia feroce (miseria, morte prematura dei genitori, spaesamento dal Südtirol a Milano, riformatorio), la cittadinanza incerta (apolidismo forzato, persecuzione della burocrazia austriaca), il physique du rôle (sguardo truce, barba da Rasputin), persino il precoce gran finale (attacco di peritonite sul ghiacciaio dello Schafberg, Engadina, a poco più di quarant’anni). Si consacrò invece a un’immaginazione tutta in positivo, a un “albero degli zoccoli” mondato da ogni sfiga e sofferenza, come se la natura, con i suoi campi e le stalle e gli ovili e le Alpi luminose, fosse stata sempre materna con lui. Glorificò il lavoro dei poveri senza che ne trasparisse fatica, stanchezza o malcontento; al realismo estremo preferì la sublimazione, il sogno; dipinse pastori e contadini senza farne né vittime né eroi, ma figure che fan tutt’uno con l’ambiente, quasi oleografiche nella postura dignitosa e statuaria.
Non si lasciò mai prendere la mano da inquietudini e afflizioni devastanti: non sulla tela o sul foglio da disegno, almeno. Se i mangiatori di patate di Van Gogh (1885) ci portano di peso nella cruda brutalità della vita rurale, le raccoglitrici di patate di Segantini (1885-1886) svolgono il loro compito, non importa quanto pesante, con la grazia di sei figuranti da chorus line. Umani, bovini, montagne partecipano a una visione mistica del paesaggio: di fulgida solarità nella bella stagione, innevato e gelido ma tonificante nella stagione inclemente. Uomini e donne hanno salute, energia e stato d’animo adeguati alla bisogna; nulla può spaventarli, o solo turbarne l’efficienza e il ritmo vitale, sempre simbiotico con l’habitat. E se un nuvolone color antracite oscura mezzo cielo, non è per minacciare il creato ma per congedarsi: la tempesta è già finita, sopraggiunge la quiete.
Ritorno dal bosco, olio su tela, 1890. St. Moritz, Museo Segantini.
Dove il talento di Segantini, non sempre immune dal virus della leziosaggine, si fa temerario e geniale, è nella materializzazione della luce e – soprattutto – nelle illusioni compositive e prospettiche, a volte così audaci da generare meraviglia. Proprio in Dopo il temporale (1883-1885), al quale abbiamo già alluso, le nubi sembrano continuare e sviluppare un movimento a spirale impostato dalla figura del pastore e dalla disposizione del gregge. In Ritorno dal bosco (1890), una vecchia è ripresa di spalle mentre torna al borgo trascinandosi dietro la slitta con un greve carico di legna; la donna, la slitta e, più lontano, il campanile sono armonicamente disposti lungo una diagonale disegnata da tracce di passaggio sulla neve; a sua volta, la diagonale forma un angolo acuto con la fila di case allineate a fondo valle. Ne L’ora mesta (1892), che è quella dell’Ave Maria, una mucca fronteggia la donna seduta su un masso a pregare, esaltando uno stilema magnetico – quello del face-to-face – poi esplorato con molte varianti nella grafica e nella fotografia del Novecento. Donna e quadrupede convivono anche in uno dei dipinti (1889) intitolati Le due madri, composizione ambientata in una stalla: l’occhio è inevitabilmente attratto dalla lampada trapezoidale posizionata quasi al centro della scena, un oggetto che non si limita a fare da sorgente luminosa ma rivendica, come la macchina da presa su un set cinematografico, il suo ruolo di agente creativo, plasmando da protagonista il pathos dell’insieme. Il prete solitario di A messa prima (1885-1996) sale per una scalinata ripresa di tre quarti: i gradini non perfettamente paralleli tra loro, ma lievemente incurvati alcuni verso l’alto e altri verso il basso, concorrono – insieme alle forme architettoniche adiacenti – a rendere singolare la geometria dell’inquadratura, purissimamente stilizzata grazie anche all’assenza di elementi disturbanti frapposti tra la scala e il cielo.
La mostra allestita al Palazzo Reale di Milano merita assolutamente la visita, perché non è facile vedere tanto Segantini in un sol colpo; di rilevante manca solo il Trittico sulla vita, la natura e la morte (apoteosi delle Alpi e del simbolismo) che il Museo Segantini di St. Moritz non mollerebbe nemmeno a Gesù Cristo in persona. Il monumentale e incompiuto testamento artistico è comunque presente a Milano, sebbene solo in video.
L’immersione nell’opera quasi integrale dell’autore ha il valore della scoperta. Chi associava il nome del pittore a qualche sommaria immagine di vacche alla stanga e a vaghe memorie di Millet ha ora dinanzi a sé l’evidenza di una personalità contraddittoria e affascinante, quella di un «ateo non praticante» secondo la definizione che un romanziere di oggi, Joshua Ferris, dà di un suo personaggio.[2] La gamma dei generi (ritratti, still life, scorci urbani) e delle inclinazioni (scapigliatura, naturalismo sensoriale, simbolismo, preraffaellitismo, divisionismo) sperimentati dal pittore contribuisce ad approfondirne la biografia esistenziale ed estetica e a superare l’angustia di certi cliché in cui l’immaginario comune tendeva a relegarlo. Comunque la si voglia giudicare, l’arte di questo europeo nevrotizzato da troppe patrie (Austria, Italia, Svizzera e Nowhere) merita maggior conoscenza di quella che in Italia gli è stata fin qui tributata.
Già sorprende, per un ateo non praticante e un po’ anarcoide ai primi passi di carriera artistica, dunque ancora studente all’Accademia di Brera, la luce che piove dalla vetrata nella chiesa di Sant’Antonio Abate in Milano (1879), proiettando luce divina sul chierichetto raccolto devotamente dinanzi al leggio. E non hanno molto a che fare con le montagne della maturità le eleganti raffigurazioni di Navigli e nobildonne milanesi, quasi da vedutismo veneziano i primi, talvolta superbamente top class le seconde: la colta e volitiva signora Torelli (1885-1886), protofemminista in abito scuro e ombrellino bianco, si staglia sullo sfondo urbano con impressionante densità materica e psicologica. L’accostamento di questo ritratto con quello di Barbara Huffer (coadiuvante di famiglia negli ultimi dodici anni di vita dell’artista, in Svizzera) che si disseta a una fontana (Costume grigionese, 1887) ci dà la misura del prepotente dualismo intellettuale – la città e la campagna, la civiltà e la natura, il progresso e l’innocenza – che deve aver messo a dura prova l’ipersensibilità di Segantini.
Poeta della visione, profeta dell’ambientalismo, l’artista coltivò ideali etici ed estetici propri dell’epoca trasponendoli in una dimensione spiritualeggiante. Il suo socialismo umanitario non sfociò mai in militanza o polemica da “quarto stato”, sebbene Pellizza da Volpedo annoverasse Segantini fra i suoi maestri. Il suo culto della natura, e in particolare della montagna, si traduce in trasognata e superiore saggezza anche quando la morte fa capolino tra i biancori allucinati dell’inverno: come osserva Pietro Bellasi nel catalogo della mostra, a proposito della sezione del Trittico dedicata alla morte, «tutto il paesaggio, sia pur nascosto dal silente sudario della nevicata, partecipa direi con tenerezza, con rassegnata, serena mestizia a una perdita dolorosa ma iscritta nel ciclo ininterrotto della natura.»
L’opera di Giovanni Segantini è in mostra al Palazzo Reale di Milano dal 18 settembre 2014 al 18 gennaio 2015. Informazioni dettagliate qui.
Segantini. Ritorno a Milano, catalogo Skira a cura di Annie-Paule Quinsac con contributi di Pietro Bellasi, Stefania Frezzotti, Dora Lardelli, Guido Magnaguagno, Letizia Montalbano, Gianluca Poldi, Annie-Paule Quinsac, Diana Segantini, Beat Stutzer, Donatella Tronelli, Luigi Zanzi.
[1] Soylent Green (2022: I sopravvissuti) di Richard Fleischer, USA, 1973.
[2] J. Ferris, To Rise Again at a Decent Hour, 2014; ed. it. Svegliamoci pure, ma a un’ora decente, Vicenza: Neri Pozza, 2014.