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 Intervista esclusiva al grande rocker. Il nuovo album, i grandi rivoluzionari, la dittatura delle multinazionali, gli esempi di oggi, il piacere di cantare canzoni altrui, il ritorno alle utopie.

Avevo appena ascoltato per la prima volta Fibrillante, alcuni mesi fa. La sensazione di trovarmi nelle orecchie un album forte, denso e profondo fu immediata. Sensazione così rara di questi tempi. Tempi di musica da intrattenimento, più da guardare distratti che da ascoltare. È bellissimo quando ci si rende conto che uno dei grandi amori musicali di una vita riesce ancora a donare — una volta di più — una bella scorta di sollecitazioni intellettuali, politiche, emotive. Il leone ruggisce ancora, eccome, pensai. Fu allora che decisi che sarei tornato ad intervistarlo a quasi trent'anni da quando, pischello in una provincialissima Altamura della seconda metà degli anni Ottanta, mi avvicinai alla sua auto prima di una concerto per rivolgergli domande che più ingenue non potrei ricordare. Era il tour di Dolce Italia. Io ero giovane e l'Italia si incamminava su di un lungo cammino di declino sociale, costellato di uomini della provvidenza targati Arcore o Firenze. Ci sono volute un po' di settimane e poi un pomeriggio arriva la telefonata, “Sono Finardi”. Eccola qui l'intervista, grazie anche alla collaborazione di Fabio Pozzi e Enzo Onorato della Lilium. È il 2014, l'Italia è molto meno dolce ma Finardi non ha paura di cantarla.

 

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Lei quest’anno ha pubblicato un album importante, allo stesso momento contemporaneo (per i temi che tratta) e fuori dal tempo, perché — ma potrei sbagliarmi — cantare e suonare di quanto accade intorno non sembra interessare molti.
Sì, in effetti si potrebbe cantare di più questa realtà terribile che stiamo vivendo. E non so perché non si faccia, non quanto si dovrebbe. È sempre molto anestetizzata. Per me si potrebbe essere più incisivi nelle canzoni.

L’anno prossimo il suo primo album, “Non gettate alcun oggetto dai finestrini”, festeggia i 40 anni dalla pubblicazione. Le piaceva di più l’Italia di allora o quella di adesso?
L’Italia di allora. Il mondo di allora. La mia generazione è stata l’ultima ad avere un senso del futuro come continuo progresso, come una strada solare verso un mondo più felice, più sano. Questo è ben dimostrato dalla fantascienza, che è un po’ il raccoglitore del nostro inconscio. Negli anni Settanta la fantascienza era 2001 odissea nello spazio, la nascita dello Star child, del figlio delle stelle, di ET, di Incontri ravvicinati. Gli extraterrestri erano visti come positivi. Poi dagli anni Ottanta abbiamo visto Alien, Blade runner, fino ad arrivare agli zombie. Una fantascienza sempre più scura, come il mondo. Che da allora è molto peggiorato.

 

“Come Savonarola”

 

Lei canta di Savonarola, Masaniello, di urlare a squarciagola inutili parole. Un nuovo modo di lottare. Oggi il “nuovo” è ufficialmente Renzi, ma il suo “nuovo” somiglia tanto alle ricette di Reagan e della Thatcher, vecchie di 30 anni. La risposta potrebbe essere altrettanto vecchia ma riverniciata?
Le sue sono le ricette che hanno rovinato e avvelenato il mondo. Lui ha cercato il suo modo di agire nell’antico, in un mondo reazionario dominato dalle multinazionali e dagli interessi. Io credo che noi dovremmo cercarlo in un nuovo umanesimo, come scrissi nella canzone del 2011. Bisognerebbe mettere al centro delle nostre attività il benessere degli esseri umani, invece che il profitto, l’economia. Il problema è che viviamo in una ideologia dominante — il pensiero unico liberista — estremamente pernicioso e pericoloso. Come tutte le ideologie è una perversione, in questo caso di un ideale come il pensiero liberale. Va sconfitto, ci vuole il coraggio a livello mondiale per capire che forse il nuovo è il vecchio, che bisogna tornare a una vera democrazia. Il mondo è estremamente meno democratico che negli anni Sessanta e Settanta.

Cosa può darci coraggio? cosa le fa pensare che ci sia ancora spazio d’azione, che ci sia qualcuno con la voglia di ascoltare e di agire?
Il fatto che ci sia molta consapevolezza di quello che sto dicendo. Anche se per il momento non è guidata o è mal guidata. Se pensiamo ai decenni passati possiamo renderci conto di quanto siano stati importanti personaggi come Gandhi, Mandela, Martin Luther King e capire che qualcuno può fare una rivoluzione positiva. La nostra generazione sognava di cambiare il mondo, poi troppi hanno tradito e si sono venduti al profitto, all’interesse. Bisognerebbe tornare con onestà a quei principi, a quegli ideali, a quelle utopie se vogliamo. Spogliandole dalle ideologie si potrebbe riprendere il giusto corso. Il problema è che va fatto a livello mondiale. Ormai un singolo paese non conta più niente, una multinazionale conta di più. La democrazia è nelle mani delle lobby, dei gruppi di potere, di interesse, di informazione.

A chi possiamo guardare come esempio oggi?
Ci sono organizzazioni che possiamo prendere ad esempio, come Greenpeace, Amnesty International, Medici senza Frontiere… Personalità non ne vedo. Siamo stati traditi troppe volte. Come quelle persone che non credono più nelle relazioni sentimentali, credono ancora nell’amore ma non credono che possa essere realizzabile.

 

“Cadere, sognare”

 

Era dal 1998 che non pubblicava un album di nuove canzoni sue e in italiano. Cosa hanno lasciato in eredità in “Fibrillante” gli album di blues, fado e quant’altro c’è stato nel frattempo?
Fibrillante tiene conto di tutti quanti loro. Sono esperienze che non rinnego affatto, anzi. L’anno prossimo poi è il decennale di Anima blues e mi piacerebbe riprenderlo. Sono tutte esperienze che vanno avanti, come quella con Sentieri selvaggi e la musica classica contemporanea. Non si possono superare, una volta assaggiate, entrano nel menu delle scelte. Fibrillante ha legato quelle esperienze al Finardi della Cramps.

C’è stato un momento in cui ha sentito di dover tornare a scrivere in italiano, canzoni così dure, così forti?
È stato proprio con Nuovo umanesimo. Mi sono messo a suonare con questa band di ragazzi che potrebbero essere figli miei e ho incontrato Max Casacci dei Subsonica. Lì ho sentito il bisogno. È stato il momento della grandissima delusione del governo Monti. Quando mi sono reso conto della dittatura della finanza, delle multinazionali, con l’essere umano che conta sempre meno. Lì ho sentito il bisogno di lanciare il mio urlo.

In “Fibrillante” lei torna a scrivere e cantare dal punto di vista femminile con “Le donne piangono in macchina” o “Lei si illumina”, così come in passato aveva fatto — per esempio — con “Un uomo”. Come fa?
Basta guardarsi intorno. Allo stesso modo in Cadere, sognare guardo alla realtà di un uomo che perde il lavoro, o in Storia di Franco guardo a quella di un padre separato. Un uomo è nata da una conversazione con una donna estremamente intelligente e attraente, di cui ho capito le necessità profonde. Basta aprire gli occhi e cercare, ascoltare. Sentire. To feel, sarebbe in inglese. Io ho la fortuna di avere a che fare con donne non superficiali, con sentimenti importanti. Da lì nascono canzoni come quelle.

 

“Un uomo”

 

Perché ha voluto chiudere l’album con “Me ne vado (e non torno più)”?
Mi sembrava la giusta chiusura del cerchio. Il disco inizia con Aspettando e finisce con Me ne vado. È un po’ la consapevolezza di quanto siamo impotenti in questo momento. Quando ci troviamo di fronte ad un finto nuovo come quello che ci si sta presentando, il desiderio di andarsene credo sia la cosa più naturale.

Usa i social network per conoscere le reazioni di chi la segue?
Uso Facebook. Twitter non lo capisco, è troppo superficiale. Facebook permette di condividere con più profondità. Molti pensano che quelli della mia età siano digitalmente inconsapevoli, in realtà ho avuto un Commodore, il primo Mac, un Lisa addirittura! Abbiamo dovuto imparare a scrivere in DOS, sei righe di programmazione per una sola nota. E ci ho fatto un pezzo, Trappole. Uno dei miei più bei pezzi.

Qual è, fra i suoi, l’album a cui è più affezionato.
Uno solo non basta. Ne sceglierei uno per decennio. Sugo e Diesel sono forse quelli a cui sono più affezionato. Per gli Ottanta Dal blu, La stanza dell’amore per i Novanta. Se proprio dovessi scegliere uno in cui mi riconosco sarebbe Anima blues. È quello che a tutt’oggi ascolto ancora frequentemente.

 

“Trappole”

 

Quale è il senso che lei assegna al suo ruolo di interprete di canzoni altrui? penso ai brani degli Afterhours, Battisti, Hendrix, Vysotky.
Per me è bellissimo. Non è detto che come autore uno scriva l’ideale per se stesso. Quando interpreto, credo di riuscire a volte ad esprimermi meglio di quanto riesca a fare con le mie canzoni come cantante. Mi sento più libero.

Lasciami leccare l’adrenalina e Come un animale sembrano due canzoni molto legate.
Da certi punti di vista è vero. Sono sorelle. La canzone degli Afterhours ha di diverso l’oscurità, il senso di immanenza, come di una tempesta in arrivo.

Cosa pensa della cosiddetta “leva cantautorale degli anni zero”, quella formata dai vari Dente, Brunori, Luci della Centrale Elettrica?
C’è un qualcosa di incompiuto. Alcuni sembrano fare riferimento a cose già sentite, come se non riuscissero ad inventare un nuovo linguaggio. L’hip hop mi intriga molto di più. Non sono un amante dei cantautori, già quelli della mia generazione mi annoiavano abbastanza. A parte Fabrizio (De André, ndr) e pochi altri. Trovo che in questo momento non ci sia nessuno davvero intrigante in Italia. Non che siano spiacevoli. Dente per esempio è un bravissimo ragazzo, simpatico, ironico. Però mi sembra che scrivano delle piccole cose, che non abbiano il coraggio di affrontare la realtà in toto.

 

“Lasciami leccare l'adrenalina”

 

Al di là della musica, c’è qualcuno in Italia che l’affronti, la realtà?
Il Virzì del Capitale umano per esempio. C’è poco. L’Italia è un paese in cui si scappa dalla realtà.

Eppure di cose da raccontare ce ne sarebbero tante.
Però poi bisogna trovare qualcuno che le voglia ascoltare e vedere. Invece siamo un paese che se la canta e se la suona. Molto provinciale. In cui la cultura mondiale conta poco.

Quando ripropone i suoi pezzi di repertorio, lo fa più per se o più per chi viene ad ascoltarla?
Ci sono pezzi che mi diverte molto suonare, quelli molto rock. Poi ci sono quelli che devo fare. Non che mi dispiaccia, ma alla milionesima volta che faccio Non è nel cuore o PatriziaMusica ribelle mi ha seriamente stufato. Non lo fo per piacer mio, ma per dare soddisfazione al pubblico. È una questione di gratitudine: chi è venuto a sentirmi, lo ha fatto anche per sentire quei pezzi. È per l’onore che questa gente mi fa.

Dove finisce l’intrattenimento e dove comincia l’arte in quello che fa?
L’arte. Io penso a me stesso solo come a una persona che fa della creatività un modo di vivere. Non penso che neppure Mozart o Bach stessero lì a pensare all’arte. Erano posseduti dal desiderio di realizzare delle cose. Come Bernini, Raffaello, Michelangelo. Credo che l’essere artisti sia una condanna più che una scelta. Tanti dicono io voglio fare l’artista. Ma non è che uno vuole fare l’artista, uno è artista. Oltretutto vivi più nella frustrazione di quello che non riesci a fare che quello che riesci. Io darei l’anima per essere un chitarrista come il mio, Giovanni Maggiore, invece ho il talento per il canto. È una cosa che mi viene così naturalmente che non è che ci penso.

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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