Grandi fotografi alla ribalta. Mentre in Villa Reale a Monza continua la mostra di Steve McCurry, arriva nelle sale cinematografiche il film di Wim Wenders su Sebastião Salgado
Un martedì piovoso e buio. Dico a Marisa: “Andiamo a vedere la mostra di Mc Curry in Villa Reale?”. Mi risponde che non la interessa molto e che, dato che gli anziani non hanno più sconti per le mostre, 24 euro per due biglietti sono troppi. Dice che lei andrà a vedere da sola Chagall a Milano (che peraltro conosce a memoria) e me lo racconterà.
Gli scatti di Mc Curry sono molto espressivi, forse caratterizzati da un certo estetismo. Esprimono il lato positivo della globalizzazione, quello della grande diversità degli esseri umani e contemporaneamente della loro appartenenza alla stessa famiglia, con pari dignità.
Sul piano tecnico ho ammirato l’estrema cura dei dettagli, che avvicinano le sue foto ai dipinti del cinque-seicento.
Interessanti le regole che egli dichiara di seguire nei video posti nelle diverse sale, tra cui il suggerimento di “andare rapidamente al sodo”, di ridurre i tempi di preparazione, di cogliere l’attimo fuggente dell’immagine nella sua significazione. Dedicando, mi sembra, più tempo alla cura successiva dell’immagine.
In complesso, una mostra di un livello culturale senz’altro all’altezza del prestigioso contenitore.
Anche per quanto riguarda l’allestimento, condivido il giudizio positivo espresso da Antonio Cornacchia nella suo articolo del 29 ottobre: semplice e geniale, rispettoso dell’ambiente. Mi ha anche fatto piacere il fatto che, in una triste giornata infrasettimanale che invitava a restare in ufficio o in casa, il flusso di visitatori fosse continuo.
Non posso tuttavia non rilevare che con questa destinazione la Villa, come altri monumenti analoghi ma per lo più di minor pregio, resta un contenitore. I visitatori sono lì per la mostra, e non per il monumento che la contiene. Possono forse apprezzare la bellezza dell’ambiente, ma senza adeguata consapevolezza, come verso una musica d’ambiente, che ora è d’obbligo ovunque, a partire dai centri commerciali.
In particolare ho sofferto vedendo calpestare gli straordinari pavimenti intarsiati, il cui pregio è comparabile a quello dei soffitti. Come resisteranno al flusso di migliaia di visitatori? E dopo? Sono un caso esemplare di come si può disperdere un patrimonio, esaurire una miniera.
Molti diranno: ma non ci sono alternative. A mio parere sì, magari da realizzare in modo progressivo. A cominciare dal dedicare uno spazio adeguato (che non esiste!) dove i visitatori possano essere resi consapevoli di cosa è storicamente, culturalmente e paesaggisticamente la “Imperial Regia Villa e Parco di Monza” (cioè: non una residenza residuale e invasiva dei Savoia, come la descrive la vulgata culturale locale, ma una testimonianza della storia europea di due secoli). E successivamente, recuperando per alcuni ambienti gli arredi per fare della Villa, almeno in parte, anche il museo di sé stessa (da visitare a pagamento, ovviamente). Altrimenti, occorrerebbe trovare un materiale composito trasparente e infrangibile da sovrapporre a tutti i pavimenti pregiati.
Terminata la visita, avevo un certo rimorso per aver assecondato grettamente la rinuncia di Marisa. E per compensare questo torto, ho cercato su Internet un cinema dove si proiettasse un film di suo gradimento. E incredibilmente ho scoperto che era in programma a Monza il documentario di Wim Wenders “Il sale sella terra” sulla vita di un altro grande fotografo, Sebastiao Salgado. Alla proposta di andare a vederlo Marisa mi ha risposto con un “sì!” entusiastico.
Un capolavoro. Anche Salgado, come Mc Curry, ci porta in giro per il mondo a conoscere i nostri simili. Ma qui il dramma delle differenze nelle condizioni umane, delle migrazioni, della fame, degli eccidi di massa, del male nel mondo è portato quasi alla disperazione. L’olocausto non è il passato, ed è vicino, come il mare che ci circonda.
Di fronte a questa realtà Salgado, Wenders e noi stessi recuperiamo con fatica la speranza e il gusto di vivere, attraverso un ritorno alla natura, alla consapevolezza di farne parte in modo vitale, in un disegno impenetrabile. (“State contente, umane genti, al quia”, diceva il padre Dante).
Il figlio di Salgado ha affiancato Wenders nella regia. E a proporre l’idea di riportare alla vita, piantando alberi, la terra desolata della tenuta del padre di Salgado nelle alture di Minas Gerais del Brasile, è stata la moglie di Salgado.
Il film mi ha fatto ripensare al “Grande Sertao” di Guimaraes Rosa, un’epopea di quella regione arida solcata da valli lussureggianti, e alla frase ricorrente di Riobaldo, il protagonista: “Vivere è molto pericoloso”. E a un prezioso libretto che ho avuto occasione di regalare a tanti amici: “L’uomo che piantava alberi”, di Jean Jono. La storia di una montagna inospitale, di un piccolo villaggio dominato dall’odio reciproco e violento degli abitanti, trasformato e riportato a una convivenza civile e solidale dall’impegno di un uomo solo: piantare alberi, anno dopo anno, risuscitando una terra apparentemente morta.