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Fra mostre, nuovi musei e convegni Monza si sta riposizionando. Da città dell'autodromo a città culturale. Un paio di riflessioni sul rapporto pubblico-privato e sul ruolo degli operatori del settore

Nelle ultime settimane a Monza si sono sviluppate dinamiche interessanti intorno al mondo della cultura e dell’arte. Fulcro inevitabile la Villa Reale. Ora che è in buona parte tornata in condizioni dignitose — grazie soprattutto ai 20 milioni di soldi pubblici investiti dalla Regione Lombardia — si comincia a capire finalmente cosa ospiterà. Ce lo chiedevamo da anni, da quando ponemmo la domanda all’allora presidente della Giunta Formigoni (sembra passato un secolo, era solo 3 anni e mezzo fa).

Alla conferenza stampa per la mostra di Steve McCurry c’era un affollamento di giornalisti mai visto a Monza, il che non è certo sufficiente a garantire la bontà della mostra, ma di sicuro un ottimo segnale di attenzione per quello che col tempo succederà. Che l'esposizione — voluta da Civita/Villa Reale — sia comunque di livello molto alto pensiamo di non essere i soli a dirlo e non staremo qui a disquisire su quanto pop o meno sia la fotografia dell’artista della Pennsylvania (lo è eccome…).

 

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Steve McCurry assediato dai fotografi sullo scalone della Villa Reale di Monza

 

Dopo McCurry sarà la volta della mostra per Expo 2015, “Il fascino e il mito dell’Italia dal Cinquecento al Novecento” (22 aprile - 31 agosto 2015), per la quale sappiamo già che sono stati destinati 600.000 euro, sempre da Regione Lombardia. Anche solo dalle cifre si capisce il salto di livello che il settore culturale cittadino sta affrontando.20141115-sgarbi

Inaugurata poche settimane prima nell’adiacente Serrone, la mostra su Giorgio De Chirico non fa che rafforzare questo momento di passaggio nella storia di Monza. Altri tasselli fondamentali in questo lavoro di posizionamento sono la recente apertura dei Musei Civici Casa degli Umiliati e l’imminente riapertura post restauro della spettacolare cappella con gli affreschi degli Zavattari nel Duomo, dove certo non va dimenticato quel gioiellino del Museo del tesoro.

E ancora la giornata fortemente voluta da Roberto Rampi e dedicata alla cultura dal gruppo dei deputati del partitone democratico che ha visto alternarsi sul palcoscenico del Teatrino di corte della Villa Reale (ancora lei) onorevoli, consiglieri, assessori e qualche operatore del settore (pochi, pochissimi come al solito gli artisti).

 

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Insomma, se per tutti questa era la città dell’autodromo, e quindi “degna” di visibilità nazionale solo nel weekend del Gran Premio, ora sta costruendosi una identità di città culturale, o — come dice la mappa distribuita in questi giorni con il TuaMonza — di città d’arte, natura e storia.

20141115-mappa-di-monza-copertinaPer noi che nel 2008 abbiamo dato vita a questa piccola rivista dedicandola soprattutto a cultura e ambiente, tutto questo fiorire di cultura non può che essere una grande soddisfazione e allo stesso tempo occasione per ribadire alcune istanze a cui in questi anni abbiamo dedicato articoli su articoli.

La prima è di carattere politico. Prendendo in considerazione l’intervista (la trovate a piè pagina) di Massimiliano Rossin sul Cittadino del 6 novembre a Luigi Rossi, ovvero colui che ha portato De Chirico a Monza investendo un cospicuo capitale di tasca propria: «I comuni oggi sono al più in grado di salvare gli spazi, ma non di produrre progetti. Quella di Monza, anche se non viene percepita come tale, è un’iniziativa imprenditoriale. Altrove, come negli Stati Uniti, non esiste l’idea molto italiana che dev’essere il settore pubblico a fare tutto (…). Il settore pubblico non è più in grado di fare da sé.» Al nostro amico Rossi, cui riconosciamo una sensibilità per l’arte e un coraggio non comuni, ci permettiamo di far notare che nessuno sano di mente penserebbe mai di intralciare il cammino di coloro — imprenditori — che vogliono investire in cultura, altra cosa è invece mettere qualche punto nelle frasi quando i privati imprenditori pretendono di usare il patrimonio pubblico per fini privati. Sembra un gioco di parole, ma fra un privato che investe in proprio (vedi Rossi stesso o Pirelli con l’Hangar Bicocca) e uno che “gestisce” la Villa Reale ci passa un fiume di differenza. Userò una rozza metafora per spiegarmi meglio: siamo tutti liberisti col culo degli altri.

Tornare un attimo sulla questione gestione Villa Reale sarà utile: il suo restauro nell’immaginario di tanti è frutto dell’impegno di un privato. Chissà perché il fatto che quasi l’intero costo sia stato sostenuto dal pubblico (il vituperato pubblico) viene messo in secondo piano. Quello che farà realmente il privato nei prossimi 22 anni è ancora tutto da vedere e c’è chi scommette che non appena quel privato si renderà conto che la cultura non è una mucca da mungere (o un pozzo petrolifero da spremere) leverà le tende. Sì, perché per quanto ce la vogliamo raccontare sulle industrie culturali e sulle leve di sviluppo, la cultura è soprattutto un servizio pubblico come la sanità e l’istruzione, e come queste costa. Costa.

Così come è compito di uno Stato che si rispetti fare in modo che i suoi cittadini siano sani e istruiti, è suo compito anche metterli nelle condizioni di essere colti, ovvero consapevoli. Questo “servizio” ha un costo che nessun privato si accollerà mai perché dà un profitto che non è economico, ma civile. Ai privati imprenditori interessa invece — legittimamente — il ritorno economico. Ma se la logica è solo economica si cade nelle distorsioni che conosciamo tutti, quelle che hanno fatto della televisione la cloaca che è, per dirne una.

Lungi da noi l’idea di una cultura sovietica, di una cultura come propaganda del regime o di un monopolio pubblico, soprattutto se guardiamo alle condizioni in cui questo versa (vedi la politica attuale, miope all’inverosimile). Ma troviamo fuorviante pensare che i criteri economici siano sempre e comunque applicabili. Siamo uomini prima che consumatori. Altrimenti rassegniamoci alle mostre da cassetta, agli Uffizi usati per le cene galanti e la Sistina per le riunioni della Canottieri Lazio. Fotografare il pubblico come la madre di tutti i mali e il privato come il padre di tutto il bene non aiuta nessuno, perché si abdica al ruolo critico di ognuno di noi: se il pubblico non funziona non lo si rottama (ops…) lo si rimette in sesto. Prendendo dal privato quello che di buono sa fare, non lasciandogli mani e piedi liberi di fare e disfare. Perché farebbe quello che ha fatto con il territorio, probabilmente.

 

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Roberto Scanagatti, Margherita Brambilla, Marta Galli, Roberto Escobar e Roberto Rampi

 

E allora dove sta il confine, l’equilibrio fra pubblico e privato? Sta nel senso. Nel fare cultura prima ancora che nel venderla. E la cultura la fanno gli autori, gli studiosi, gli artisti, gli operatori. Pubblico e privato dovrebbero mettere a disposizione l’hardware, ma il software lo lascino a chi la cultura la fa quotidianamente, per professione, dopo aver studiato una vita. Ecco la nostra seconda istanza. Sindacale quasi.

La risibile rappresentanza degli operatori della cultura è paradossale. Parlano tutti di cultura: amministratori, imprenditori, opinionisti, impiegati. E gli autori? Gli artisti? Nulla o quasi, lasciando spazi enormi nel dibattitto sulla cultura e sulle politiche culturali.  È un problema a qualsiasi livello e Monza non fa eccezione. Seppure sia un settore in enorme crescita, quello culturale ha un evidentissimo problema di rappresentanza, di peso politico. Anche questa, secondo noi, è una questione da affrontare.

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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