Quando il dono di una scultura fa sì che le competenze di una comunità generano cultura: Claudio Borghi e il Teatrino del tempo leggero
Da
tempo la rivista si spende per un certo tipo di “evento” culturale, dove (tra le altre cose) la parola evento, dal latino eventus (che deriva a sua volta da evenire, venir fuori, accadere), ci piace slegarla dalla sua etimologia prettamente “accadente” per collegarla invece a una dimensione più duratura e strutturata: evento culturale è un “accadimento” che mette in gioco sinergie, professionalità, collaborazioni, confronto che, nel fare cultura, creano cultura e spettatori consapevoli dell’evento.Ecco dunque che il dono della scultura da parte di Claudio Borghi al comune di Barlassina è diventato occasione di scambio con la comunità. E un’occasione per noi di dialogare con il diretto interessato di scultura.
Presentiamo ai lettori di Vorrei Claudio Borghi: chi è, che cosa fa?
Ho sessant’anni e faccio lo scultore da quarantacinque. Dopo studi regolari al liceo e l’accademia di Brera, ho cominciato a divertirmi a costruire “cose”. Cose “speciali”.
Probabilmente l’arte è cominciata così: l’uomo cominciò a costruire gli attrezzi e gli oggetti che gli servivano per vivere e si accorse che alcune cose gli venivano meglio di altre, erano speciali, possedevano un non so che o un quasi niente che faceva la differenza e in essi vi si riconosceva. Così costruì i primi idoli, dei, altari.
Ecco: io ho scommesso che a certe condizioni - le mie - posso costruire degli oggetti speciali.
Che cos’è la scultura per lei?
Per non rischiare di essere banali la risposta dovrebbe essere un trattato.
O un aforisma: per me la scultura è uno strumento per indagare il mondo.
Quali sono i materiali che predilige e perché?
Da tempo sono passato alle lamiere: il bronzo è troppo costoso e porta con sé troppo passato.
Per varie vicende poi, da studente, mi sono trovato a guadagnarmi da vivere in una officina meccanica e lì ho conosciuto le lamiere e l’acciaio.
Con il bronzo ci si perde nel bel colore e nei luccichii; con il ferro non si può: o lo si rispetta o vince lui. È più vero.
In fondo, il nostro lavoro in studio è trovare i nostri trucchi che ci portino nella direzione voluta: il ferro e le lamiere sono uno di questi.
L’utilizzo di diversi materiali le permette di sperimentare un diverso concetto di spazio e quindi di forma? O il materiale si piega alla forma?
I miei materiali non sono diversi: sono lamiere, anche se di diverso colore a seconda del materiale. Ma la lamiera non deve essere troppo duttile: il rame, pur bello nel colore, è troppo “barocco”, non offre resistenza sufficiente per portarmi dove vorrei, non mi sostiene.
Sì, il mio materiale mi permette di sperimentare un’idea di spazio diverso.
Cercherò di descriverlo, e questa volta non potrò essere breve:
«Il chiaro del bosco è un centro nel quale non è sempre possibile entrare; lo si osserva dal limite e la comparsa di alcune impronte di animali non aiuta a compiere tale passo. È un regno che un’anima abita e custodisce. Qualche uccello richiama l’attenzione, invitando ad avanzare fin dove indica la voce. E le si dà ascolto. Poi non si incontra nulla, nulla che non sia un luogo intatto che sembra essersi aperto solo in quell’istante e che mai più si darà così. Non bisogna cercarlo. Non bisogna cercare».
Così inizia il libro Chiari del bosco di Maria Zambrano, che ha ragione: i chiari di bosco sono luoghi incredibili, non bisogna cercarli e alla fine ci resta il nulla, il vuoto e il silenzio che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca.
Mi capita spesso camminando lungo i sentieri nei boschi di ascoltare i suoni degli animali, il sibilo del vento, lo scrosciare della pioggia, il fruscio dei miei passi. Poi all’improvviso si scorge una radura. Eccolo: è un chiaro di bosco. Allora smettono i suoni e il sole illumina il tutto, solo in questo preciso momento si odono le risposte alle domande che non si sono mai formulate.
Non ho trovato nulla che esprima meglio il mio intento e il mio interesse: il mio spazio.
Il bello è che mi ritrovo a mettere insieme sculture che sono simili a quelle di quarant’anni fa
Il Fuma, grande vecchio, storico gallerista milanese, ripeteva sempre, citando chi non ricordo più: «In fondo fi difinge fempre lo fteffo quadro fer tutta la vita...» sibilando da sotto i baffetti come un serpente per la mancanza dei denti.
Nella nostra epoca frenetica, distratta, rumorosa, seriosa e spietata, fatta esclusivamente da geni, c’è bisogno del contrario: d’ironia, di pazienza, tolleranza, gentilezza, umiltà, silenzio. In poche parole di timidezza.
Ben sapendo di non essere un pensatore illuminato, né teorico o critico contemporaneo, non ritengo di commettere presunzione nel riconoscermi almeno due modalità del pensare. Mi piaccia o no, questi sono i mezzi di cui dispongo.
La prima è quella del pensiero fulmineo, dell’intuizione, dell’illuminazione improvvisa che ti colpisce in un lampo.
Il secondo, invece, è quello che emerge dopo molto tempo. Quando il significato di quella parola – ma anche di un segno, uno spigolo o un elemento – il significato di quella frase detta per caso, di quell’intercalare sfuggito a qualcuno a cui non dai mai credito o di quel vezzo insignificante che in altre situazioni sarebbe passato inosservato ma che in quel contesto si è imposto, torna e ritorna continuamente. È proprio il suo continuo imporsi periodicamente a voler suggerire qualcosa. Questo è uno spazio da salvaguardare: questo è il mio spazio!
Uno spazio che si oppone agli spazi ostentati e rumorosi dove le cose sono esibite senza pudore e il chiasso la fa da padrone. Il mio spazio è un gioco paradossale e pudico, platonicamente anarchico, di sostegno a contrari. Niente che Giacometti o Melotti non abbiano già detto. Il mio spazio è un incontro fortunato tra le 5 le 7 della sera,dopo una giornata di inutile lavoro.
Il mio spazio è il gioco con la fiamma della farfalla: per conoscerla – la fiamma – non basta guardarla danzare ma bisogna conoscerne il calore dal di dentro, dal punto di vista della bruciatura. La farfalla non può che avvicinarsi il più possibile alla fiamma, sfiorare il suo calore bruciante e giocare letteralmente col fuoco; ma se, avida di conoscerla meglio, giungerà a penetrare imprudentemente nella fiamma stessa, ne resterà solo un pizzico di ceneri.
Conoscere la fiamma dal di fuori ignorando il suo calore, oppure conoscere la fiamma stessa consumandosi in essa? Sapere senza essere o essere senza sapere, ecco il dilemma: vietato riunirli! Il mio spazio deve essere più agile della farfalla per restare come sospeso al di sopra del chiasso, situarsi al limite, pronto a sprofondare nella stupidità dell’ammasso inattivo, nel punto estremo dove la musica diventa rumore, sul punto di non essere più niente, e ripristinare in extremis il proprio equilibrio acrobatico.
Il mio spazio si sviluppa dall’insieme, come un senso evasivo. I volumi e i segni si possono assemblare o spostare come tasselli di un intarsio; il senso, invece, anche se può essere analizzato per frasi, gruppi di frasi e persino opposizioni, non si deve frazionare: non è costituito dalla somma di parti: o è o non è. Deve restare un insieme più forte, anche se basta spostare qualcosa per vanificarne l’originalità qualitativa.
Il mio spazio è vago e ovattato che si deve cogliere tutto insieme in un colpo d’occhio, da destra a sinistra o da sinistra a destra in una corsa dello sguardo.
Il mio spazio è come quello del gironzolare senza meta: lo scopo non è quello di andare da qualche parte o arrivare a destinazione nel minore tempo possibile, quasi si trattasse di un impiegato che ha fretta e traccia il percorso in funzione del principio di economia. È una velocità che indugia e non va da nessuna parte: sta; non sorprende che i suoi significati non possano essere subito dispiegati, ma si snodano a poco a poco per sguardi pazienti, rivelati dai volumi che costruisco come oggetti: un diversivo, perché il mio spazio è quello fuori, quello che sta intorno.
Così è la brachilogia, cioè il “pezzo breve” di Satie. La “reticenza” e il “pianissimo” sono il silenzio del silenzio.
Il mio spazio è uno spazio a levare, contrario a quella del pittore che, invece, aggiunge.
Cosa sottintendono, nella scrittura, i puntini di sospensione? Dicono: andate avanti voi, io ho parlato troppo. È un gioco al quasi-niente che invita a maggiore attenzione.
Uno spazio silenzioso, non liquido ma solido, fermo e immobile. Liquido è il denaro che scorre come il tempo, non il mio spazio.
Ciò che mi interessa non è tanto il suono del colpo battuto sul piatto del gong ma il ...ngh finale, che vola e risuona dopo che il gong ha suonato.
Verso che cosa si sta spostando la sua ricerca nella scultura? Ammesso che sia possibile individuarne una direzione.
Verso la leggerezza, probabilmente.
Per capire quello che voglio dire è essenziale comprendere la differenza tra potenza e forza, di cui l’equivalente in musica è fra volume e intensità: quando si dice a un musicista di suonare con grande intensità, la sua prima reazione è di suonare più forte. In realtà, occorre fare il contrario: minore è il volume, maggiore è il bisogno di intensità; maggiore è il volume, minore è il bisogno di intensità. L’effetto prodotto dalla grande effusione sonora di Beethoven o Wagner è maggiore quando il suono non viene controllato forzatamente passo a passo; la sua potenza naturale intrinseca è il risultato di una forza che si è andata accumulando in maniera graduale. L’incremento e l’allentamento della tensione sono fondamentali. Per questo anche l’accordo più potente andrebbe suonato sempre in modo da consentire l’ascolto di tutte le sue voci interne, altrimenti manca di tensione e dipende esclusivamente dalla forza brutale. Bisogna poter sentire l’opposizione.
Così vorrei fosse la mia scultura.
Come si relaziona la sua opera rispetto all’ambiente?
Dimensione a misura d’uomo, mai troppo grande che l’occhio non possa coglierle tutte insieme.
Come nasce il progetto della scultura “Il teatrino del tempo leggero” per piazza Cavour del comune di Barlassina?
L’idea iniziale è venuta all’architetto Gigi Trezzi, amico d’infanzia e progettista della piazza, durante i lavori della piazza stessa. Lo incrociai mentre col sindaco visionava lo stato di avanzamento dei lavori. La piazza era già stata praticamente fatta e c’era tutto quanto era previsto. Gigi disse che su quel basamento ci sarebbe stata bene una mia scultura.
Io non mi tirai indietro. Il sindaco promise di vedere cosa si sarebbe potuto fare. Il mandato poi terminò e nulla emerse. Il sindaco venne rieletto, ma stava per finire anche il secondo mandato: la crisi e tanto altro non permettevano nulla.
Tornato in studio decisi di proporre: se l’Amministrazione Comunale si fosse fatta carico di trovare chi pagasse le spese vive, io avrei realizzato la scultura senza chiedere alcun compenso. Feci il progetto che, dopo un anno, venne accettato.
Poi l’amico con l’impresa edile offrì l’assistenza del caso, la carpenteria locale tagliò e piegò le lamiere, la banca locale offrì il catalogo, un altro amico mise a disposizione lo spazio di lavoro perché il mio studio era troppo piccolo, eccetera: questa scultura, nonostante le aride polemiche, è stata fatta riunendo le varie competenze dei cittadini, e questo mi sembra molto bello, soprattutto in un momento storico come questo.
Ci racconti “Il teatrino del tempo leggero”.
Sempre e dovunque la piazza è ritrovo fra le persone. In essa si svolgono funzioni che interessano le persone che vivono in quel momento la città. La piazza è uno spazio dove una collettività urbana si muove. Anche nel mondo antico, le piazze svolgevano un ruolo primario nel territorio in quanto rappresentavano il potere e la politica, che spesso erano esercitate dal popolo e quindi una prerogativa della cittadinanza. Erano il luogo del commercio e degli scambi. Nell’antica Grecia la piazza, l’Agorà, oltre ad essere il centro del potere religioso e commerciale della città, era soprattutto il luogo simbolo della democrazia del paese, tant’è che vi si riuniva l’assemblea della polis per parlare di politica. La piazza è anche un luogo in cui si espongono cose, quindi “mettere in piazza” significa mostrare; è nella piazza e non altrove che si svolge ogni sorta di manifestazione. Questa piazza, più che mai ospita manifestazioni e spesso è occupata da palchi, tende o stand. E non solo. Ricordo questa piazza – nemmeno troppo anni fa – ricoperta di granturco appena raccolto ad asciugare. Per questo una scultura nel pubblico non è cosa facile. Presuppone una certa responsabilità.
«La scultura non svanisce come un verso nel vento – dice Maddalena Mazzocut-Mis nel testo che accompagna il catalogo – Rosenkranz tra questi, mettevano la scultura, poco sotto l'architettura, tra le arti che avevano la minor possibilità di rappresentare il brutto. La giustificazione era banale, ma non scontata: se sbagli un verso lo getti e ne fai un altro: in poesia, quindi, l'errore può essere introdotto a piene mani. Ma se sbagli quando inizi a lavorare il materiale l'errore resta. Errore rispetto al progetto, errore rispetto alla resa che il progetto poteva avere, errore rispetto alla propria immaginazione che si modifica, si adatta alla nuova forma, ma magari non l'accoglie fino in fondo».Un brutto libro, dopo qualche mese viene messo al macero, una scultura brutta è li che ti accusa.
Il problema rimaneva: che fare? Certo, del piedistallo avrei fatto volentieri a meno; non è più possibile oggi fare piedistalli che accolgono l’opera come nell’Ottocento: con tutto il rispetto possibile, non volevo fare il monumento al soldato o al grande eroe: dovevo fare una scultura per la gente, tra la gente, che la gente potesse toccare, usare. Poi il lampo: se non posso abbassare il basamento posso sempre farci salire la gente. Ero reduce, poco tempo prima, da una mostra a Brescia dal titolo Il giardino segreto, in cui il soggetto erano strani alberi costituiti da tronchi a forma di stele verticali sormontati da chiome dalle forme più disparate; io gli alberi li ho sempre fatti, e, come disse il vecchio Fuma, in fondo si fa sempre la stessa scultura. È bastato togliere le chiome e ingrandire le stele: gli alberi sono diventati quinte e il bosco teatro, per magia tutto ha preso il suo posto. Ciò che ne è uscito è una scultura a metà strada tra il teatro e il bosco. Della leggerezza abbiamo già detto. È stato bellissimo, nello spettacolo inaugurale, vedere Camille Claudel recitare seduta sulla sfera del teatrino. Sarebbe altrettanto bello se la cosa si ripetesse a ogni autunno. La cosa che più mi riempie di gioia, poi, è – devo confessarlo – il vedere che i bambini che, costretti per tornare a casa dell’asilo, passando dalla piazza, non se ne vanno se non hanno fatto un giro sopra, come fosse una giostrina del parco, e questo mi riempie di gioia. Loro hanno capito che il messaggio vero, in fondo, è che facendola ho goduto come un riccio, e così fanno anche loro.