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Per valorizzare il patrimonio culturale e promuovere lo sviluppo economico, sarebbero necessarie figure professionali specializzate che attualmente in Monza e Brianza non esistono

 

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ossella Moioli, architetto di fama nazionale specializzata in Conservazione Preventiva e Programmata, lavora in maniera esclusiva nell'ambito dei beni culturali. Capo delegazione del Comitato Fai di Monza e consulente esterna del Distretto Culturale Evoluto di Monza e Brianza, è tra i professionisti che meglio conoscono il patrimonio e il territorio di Monza e Brianza. A lei abbiamo posto una serie di domande sullo stato attuale del patrimonio e sul ruolo che esso può avere nel potenziale sviluppo della cultura come motore dell'economia in Brianza.

 

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Johann Wolfgang von Goethe in the Roman Campagna - 1786 - By Johann Heinrich Wilhelm Tischbein - Städel-Museum Frankfurt

 

Anche in Italia si sta compiendo un salto che porta dalla semplice tutela alla gestione e fruizione del patrimonio. A che punto siamo in Brianza?
Il tema della gestione in Italia è relativamente nuovo. Si discute da tempo di come il patrimonio debba essere non solo conservato ma anche valorizzato e quindi gestito con una modalità che integri le due discipline. Se ne discute, ma ancora non si ha la capacità di usare gli strumenti che pure ormai sarebbero disponibili. Molto spesso le attività di fruizione non sono progettate e si eseguono i restauri senza sapere che attività inserire negli edifici. La Soprintendenza e diversi altri Enti, che erogano finanziamenti attraverso bandi, hanno cominciato a richiedere, come condizione necessaria all’autorizzazione, di indicare nei progetti di restauro anche la previsione delle attività di fruizione, associate ad attività di comunicazione e di valorizzazione delle conoscenze. Insomma: il concetto sta entrando, poco per volta, nella prassi. Siamo però ancora lontani dalla evoluzione virtuosa di questi meccanismi, soprattutto nell'ambito del patrimonio pubblico. La principale difficoltà risiede nella mancanza di adeguate competenze che possano, nel settore pubblico, costruire progetti con una visone di medio-lungo periodo: non vi è una normativa che definisca gli organigrammi delle strutture che hanno in carico la gestione dei beni culturali. Dunque non sono definite le competenze che andrebbero previste nelle strutture pubbliche.

Si tratta di competenze di carattere amministrativo?
Non solo: alludo principalmente a quelle tecniche. Un riferimento interessante potrebbe essere il modello inglese: funziona bene sia nel settore pubblico che in quello privato.

In cosa consiste?
Tutti i beni e le proprietà sono presidiati da un team complesso di operatori specializzati con un preciso organigramma: la parte amministrativa con un manager, dotato di competenze specifiche sul patrimonio e la parte gestionale con un conservatore. Poi a cascata ci sono le figure tecniche che si occupano di comunicazione, di educazione al patrimonio, di marketing e della conservazione del bene e delle collezioni. Figure non necessariamente dedicate a un solo sito, ma spesso messe a disposizione di strutture di coordinamento. Il National Trust, che è un soggetto privato, ma riconosciuto a livello governativo, ha prodotto un interessante manuale di housekeeping che definisce sia quali sono i ruoli e le professionalità necessarie, sia come si organizzano le squadre di lavoro all’interno di ciascuna proprietà. E' pratico e molto chiaro. In Italia manca questo tipo di strumento, riflesso di una mentalità e di un preciso approccio. E' il tema su cui stiamo lavorando da qualche tempo con il Politecnico di Milano. Recentemente proprio al Politecnico è stata organizzata una giornata di studio, con la partecipazione di esperti di altissimo livello, sul tema della formazione specifica nell’ambito della conservazione e della valorizzazione dei Beni Culturali. Ha partecipato anche Pietro Petraroia, ex direttore del consorzio Villa Reale e Parco di Monza. Ha sottolineato il fatto che non vi sia alcun obbligo di specializzazione nell’ambito della conservazione, se non per la figura del restauratore e come questo porti ad una mancanza di qualità dei progetti. Inoltre si sono analizzati gli strumenti formativi da mettere in campo. Perché appunto in Italia si sono diffusi i corsi di laurea in Conservazione dei Beni Culturali, ma non si è pensato a come mettere in filiera la formazione e l’impiego di queste figure professionali.

Le strutture pubbliche non sono state adattate per accogliere questo tipo di competenze

L'università non forma queste figure?
A livello formativo le nostre università sono piuttosto attrezzate. Oltre alle lauree magistrali in Architettura, ci sono le facoltà specifiche di Conservazione dei Beni Culturali che hanno uno spettro molto ampio di contenuti, perché teoricamente le figure necessarie sarebbero tante. Ma le strutture pubbliche non sono state adattate per accogliere questo tipo di competenze. Una delle conseguenze è che si sono creati tanti disoccupati.

E in Brianza?
Ta le attività svolte dal Distretto Culturale vi è una ricognizione sul territorio volta alla valutazione della consistenza del patrimonio culturale del nostro territorio. Tra pubblici e privati, senza le cascine, ci avviciniamo al migliaio di beni. I comuni possiedono in media dai tre ai cinque beni “vincolati”, contando che alcuni comuni si fanno carico anche dei beni religiosi. Purtroppo nei comuni della Brianza con cui abbiamo avuto modo di interfacciarci non operano figure professionali specializzate. Non esiste la prassi di istituire un ufficio patrimonio, inteso come patrimonio storico e non ci sono tecnici con competenze specifiche. Eppure questi beni a volte si integrano con le strutture comunali: molti comuni hanno infatti le loro sedi in edifici storici e tuttavia non sono dotati di competenze tecniche, addirittura per il semplice mantenimento delle loro stesse sedi. Questa sarebbe la necessità basilare e purtroppo non è presidiata.

Gli attuali strumenti urbanistici contengono misure adeguate per integrare al meglio i beni culturali del territorio?
C'è spesso una incoerenza già nel Documento di Piano (uno dei documenti che compongono il Piano di Governo del Territorio ndr.). E’ frequente trovare situazioni in cui da una parte si identifica il centro storico, dall'altra non istruiscono misure di protezione, lasciando la possibilità di demolire edifici di una datazione significativa, perché non sottoposti neanche a vincolo puntuale. Potendo demolire parte del tessuto urbano, viene meno la definizione di storico e rimane solo quella di centro.

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Ottobiano: demolizione della vecchia macelleria e del forno

 

Cosa bisognerebbe fare?
Nei Piani di Governo del Territorio si dovrebbero fare analisi comparative con i catasti storici per analizzare le modalità di stratificazione del tessuto urbano. Inoltre andrebbe inserita una analisi storica dettagliata per singolo edificio, come peraltro suggerito dalla norma, utilizzando anche la catalogazione SIRBeC. Il Pgt di Chiavenna, per esempio, è uno dei piani redatti dando importanza a questa catalogazione che può essere utilizzata per la costruzione di un Piano delle Regole efficace. Ma queste analisi vengono fatte solo in pochi casi virtuosi. Bisogna arrivare a unificare il linguaggio tra quella che è la disciplina della tutela e la pianificazione urbanistica.

Manca un linguaggio adeguato?
Il lessico esiste, ciò che manca è la condivisione. Ci sono dei regolamenti edilizi che hanno guidato la realizzazione di restauri. Così capita che all’interno dei regolamenti edilizi si reinventi la teoria del restauro: dato che esiste una norma nazionale, che fornisce precise definizioni di restauro e delle altre attività conservative, un tecnico comunale non può scriverne una personalizzata per il propio ambito.

Ma perché, non conoscono le norme nazionali?
La sensazione è che i beni culturali siano considerati, da una parte una sorta di settore iperspecialistico e dall’altra si tende a non comprendere le implicazioni della loro presenza nel territorio. Ci vuole una maturazione delle competenze negli uffici, o la possibilità di ricercare all'esterno le competenze giuste. C'è anche il tema dell'archeologia preventiva, che pur prevista da una legge nazionale, con difficoltà viene applicata. Il caso classico è la realizzazione di un parcheggio interrato interrotta a metà dell'opera, perché si “scopre” la presenza di un sito archeologico. Prima di pianificare, un comune dovrebbe conoscere a fondo il proprio territorio, in tutti i suoi aspetti.

La competenza nell'ambito della pianificazione e della gestione dovrebbe essere affidata a un'unica figura preparata sui temi del patrimonio

Mancano le competenze?
Competenza da una parte e capacità di pianificazione e gestione dall'altra. Sono temi legati strettamente tra loro. Nella disciplina dei beni culturali c'è da sempre la stessa carenza. Come dicevo prima, non esiste il riconoscimento del ruolo di professionalità dedicate al patrimonio storico. La competenza nell’ambito della pianificazione e della gestione dovrebbe essere affidata a un'unica figura preparata sui temi del patrimonio, in grado di occuparsi della gestione ordinaria e in grado di indirizzare il lavoro dei tecnici esterni. Peraltro così i comuni avrebbero figure importanti e determinanti. Mi viene in mente il caso di Como: il comune si è dotato di un settore specifico per il patrimonio, che pure si è costituito un po’ per casualità e grazie a coincidenza di situazioni favorevoli. E’ presente un tecnico, che ha avuto modo durante il suo percorso formativo di approfondire il tema del restauro dei beni culturali ed ha maturato nel tempo una sensibilità sul tema. In origine non era stato assunto per quel ruolo: la specializzazione si è consolidata con il tempo, in conseguenza delle sue sensibilità e delle capacità di ritagliarsi uno spazio, facendo emergere peraltro una reale esigenza e rendendola evidente agli amministratori.

Per l'area vasta della Brianza, dove il numero consistente di beni si disperde un poco nella frammentazione, c'è l'idea di una gestione unitaria del patrimonio culturale?
Noi abbiamo avanzato questo tipo di proposta all’interno del Distretto Culturale Evoluto. Più che a una gestione unitaria abbiamo pensato ad un’attività di coordinamento e supporto.

Nel Distretto non rientrano le competenze di pianificazione territoriale. Non è un limite?
No. Perché l’obiettivo ovviamente non era sostituirsi agli enti locali, ma creare un modello di messa a sistema di tutte le pratiche virtuose esistenti sul territorio, per valorizzare le potenzialità individuate nell’analisi di contesto. La capacità di lavorare insieme e di dotarsi di una struttura di coordinamento è l’attuazione di una buona pratica.

I comuni dovranno imparare a collaborare tra loro perché oggi è vincente appunto l'economia delle relazioni

I comuni dovrebbero dialogare tra loro? Sono in grado di farlo?
Questa è una sfida. Non è semplice. Però alcuni risultati, seppure pochi, già ci sono. Penso comunque che il lavoro di sistema del Distretto sia vincente. Perché costruisce relazioni. Concentrando le risorse, aumenta le possibilità dei comuni di progettare ed erogare attività di alto valore, che altrimenti sarebbero limitate se ogni comune restasse in solitaria a coltivare piccole e singole iniziative locali. Peraltro l'attività di coordinamento evita che queste si sovrappongano tra loro ed è in grado di intercettare risorse esterne, provenienti da bandi regionali, nazionali ed europei. I comuni dovranno imparare a collaborare tra loro perché oggi è vincente appunto l'economia delle relazioni.

Da quando fai parte del distretto?
Sono una consulente esterna anche se seguo questo progetto da ormai nove anni. Il percorso del Distretto nasce nel 2005 a seguito di un progetto di pre-analisi finanziato da Fondazione Cariplo. Ho collaborato con il Politecnico di Milano per lo studio di pre-fattibilità dei Distretti Culturali; io avevo in carico le analisi di contesto del Vimercatese e della Brianza ovest, cioè di due dei circondari del territorio brianzolo che allora stava per diventare Provincia. In seguito alla pubblicazione del bando di Fondazione Cariplo, si è costituito un gruppo di lavoro e sono stata chiamata a collaborare alla costruzione di un progetto unitario di Distretto per tutta la Provincia. All’epoca l’ente proponente era ancora la Provincia di Milano ed il referente del progetto era Gigi Ponti, in qualità di assessore provinciale. La sua idea era di dotare la nuova Provincia di un Distretto Culturale unitario, poiché l’obiettivo era di dare un'impronta identitaria al territorio della Brianza. Così è partito il percorso che ora sta compiere dieci anni. Il progetto start-up si concluderà nel primo semestre del 2015.

Tra i successi del distretto c'è Ville Aperte. In origine l'evento era nato nel Vimercatese?
Si. L’ufficio cultura di Vimercate ha sempre creduto nel valore della divulgazione del nostro patrimonio. La volontà di far conoscere la storia e il patrimonio cittadino è stata evidente sin dagli anni novanta con la pubblicazione dei due volumi “Mirabilia Vicomercati” e con l’avvio delle visite guidate alla città. Nel 1996, all'inizio della mia attività, con Massimo Cunegatti e una dozzina di altre persone abbiamo creato l'associazione Mirabilia, con l'idea di costruire una serie di progetti volti alla fruizione dei beni nel territorio di Vimercate. Era un servizio di volontariato prestato al comune di Vimercate in collaborazione con l'ufficio cultura. Abbiamo iniziato con il percorso Vimercate Romana proposto alle scuole. Poi abbiamo creato eventi con visite guidate su richiesta a Palazzo Trotti, alla chiesa di Santo Stefano, alla chiesetta di Sant'Antonio e altre ancora. Nei primi anni 2000, anche a seguito di questa esperienza, Angelo Marchesi, con lo staff del comune, ci ha coinvolto nelle prime edizioni del progetto di Ville Aperte. Ora le visite al patrimonio sono entrate a far parte delle proposte stabili del Must e Ville Aperte è stato ereditato come format dal Distretto e sviluppato su scala provinciale. In questo passaggio vorrei ricordare che c’è stata anche l’invenzione del format “pH” (performing Heritage), in cui diversi artisti sono stati chiamati a interpretare con spettacoli originali inizialmente gli edifici recuperati nell’ambito del Distretto e poi i beni coinvolti in Ville Aperte.

La valorizzazione del patrimonio acquisisce valenza anche rispetto alla percezione che di esso ne ha la comunità locale. In questa intervista fatta a Roberto Rampi, avevamo iniziato a trattare il tema delle comunità. Che rispondenza c'è in Brianza per il valore del patrimonio?
All’inizio del 2014 sono stata invitata a Lovanio per partecipare all’annuale Thematic Week organizzata dall’UNESCO Chair in Preventive conservation, monitoring and maintenance of monuments and sites (conservazione preventiva, monitoraggio e manutenzione dei monumenti e dei siti culturali). Il tema proposto era il “coinvolgimento della comunità nella valutazione e nella gestione del patrimonio culturale”, spostando l’attenzione sui valori intangibili e sul valore di relazione all’interno delle comunità. Questa riflessione rappresenta un approccio diverso rispetto a quello che si focalizza esclusivamente sul restauro degli edifici storici. Si è parlato del coinvolgimento delle comunità nella valorizzazione del patrimonio. A un certo punto dei lavori è emersa la necessità di ridefinire il concetto di comunità: nella comunità locale convivono più comunità che si intersecano tra loro. Quindi si e discusso su come identificarle e come operare il loro coinvolgimento all’interno dei processi di conservazione e valorizzazione. In quell’occasione ho presentato il “Progetto di conservazione del patrimonio architettonico della Comunità Pastorale della Beata Vergine del Rosario di Vimercate e Burago di Molgora”, cofinanziato da Fondazione Cariplo e condotto grazie al grande impegno del parroco e dei volontari, che riguarda un sistema di edifici costituito da dodici chiese.

 

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Le nostre 12 chiese: un tesoro da conservare - Vimercate

 

la partecipazione e la risposta delle comunità si ottengono se le persone hanno un ruolo attivo nel processo e se si stabilisce un linguaggio comunicativo appropriato

Qui in Brianza come si fa?
Il progetto sulle dodici chiese, nato dall'esigenza della comunità della frazione di Ruginello di Vimercate, si è ampliato grazie alla partecipazione di quelli che potrebbero essere gli stakeholder, cioè di quei soggetti che quotidianamente frequentano gli edifici e se ne occupano. Si è partiti da riunioni con i volontari preposti alla cura degli edifici. L'iniziativa è nata da loro e dai frequentatori della chiesetta dell'Assunta e poi si è estesa a altre chiese, con i loro piccoli o grandi problemi di degrado. Nel percorso si è lavorato con la memoria storica degli abitanti, sono stati organizzati diversi incontri pubblici anche all’interno degli edifici coinvolti nel progetto e si è ricostruito un grande bagaglio fatto di conoscenze note, ma disperse, e di informazioni nuove. La prima lezione imparata è che la partecipazione e la risposta delle comunità si ottengono se le persone hanno un ruolo attivo nel processo e se si stabilisce un linguaggio comunicativo appropriato. Il secondo risultato è stato la creazione di una comunità nella comunità, costituita dalle persone che ci hanno accompagnato alla “scoperta” delle chiese, visitando insieme luoghi normalmente inaccessibili e confrontandoci sui problemi e sulle possibili soluzioni. Poi l’ultimo obiettivo da raggiungere sarà di diffondere il sapere tecnico sotto forma di istruzioni semplici e concrete per la fruizione e la cura di ciascuno dei dodici edifici. Nei prossimi mesi il progetto verrà portato a compimento e saremo in grado di presentare gli ultimi risultati.

Torniamo sul tema iniziale delle difficoltà esistenti per quanto riguarda la fruizione dei beni culturali. Puoi spiegare ai nostri lettori come funziona il sistema in Inghilterra?
Un caso davvero interessante è rappresentato dal National Trust, al quale potrebbe essere paragonato in Italia il FAI (nato peraltro ispirandosi al modello inglese). Le attività di questo soggetto sono veramente molte, ma tra gli aspetti più interessanti vi sono le occasioni di formazione per i tecnici, per i volontari e per i proprietari di beni e l’approccio imprenditoriale nella gestione del proprio patrimonio. Il National Trust possiede tratti di costa e foreste, gestisce attività agricole, produce alimenti tipici e dispone di una serie di edifici, principalmente cottage, che utilizza come strutture ricettive.

C'è un ritorno economico consistente?
E’ un soggetto molto forte che esiste dal 1895. La sostenibilità economica deriva da molti fattori: a partire dalle quote di iscrizione, con ben quattro milioni di soci, donazioni, fruizione dei beni, fino alle attività di tipo imprenditoriale/produttivo come ricettività, offerta formativa, produzione e vendita di vari prodotti. Ma il vero motore che garantisce l’esistenza di questa realtà sono i volontari.

 

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Dyffryn, Vale of Glamorgan - National Trust Images

 

In Italia non è possibile fare questo?
Chiaramente non è possibile copiare un modello e sperare che funzioni. Bisogna comprendere le peculiarità della realtà in cui ci si trova e individuare le modalità di attuazione più adeguate. Il National Trust è un soggetto privato detentore di beni. In Italia il Fai è anch’esso un soggetto privato, ma con una dimensione molto inferiore, sia dal punto di vista del patrimonio che degli iscritti. Un ulteriore esempio della presenza di soggetti privati nella gestione dei beni culturali è rappresentato dal modello PPP – partnership pubblico-privato. Una delle possibili modalità è la concessione di beni pubblici a soggetti privati, normata dal Codice dei Contratti. Questo tema trova resistenza nell’opinione pubblica che teme una limitazione della possibilità di fruizione dei beni. Esattamente quello che è successo nel caso di Villa Reale di Monza, dove un gruppo di cittadini ha contestato la presenza di un soggetto privato nel ruolo di gestore di un bene pubblico.

Il problema cruciale a mio parere è la costruzione di un modello di gestione integrata tra le attività di valorizzazione e le attività di conservazione nel tempo

E' un allarme non giustificato?
Dal mio punto di vista alcune obiezioni sono anche fondate. Ma su Monza la principale preoccupazione non riguarda né le modalità di restauro del bene, né il dubbio che la presenza di un soggetto privato possa determinare una limitazione della fruizione pubblica del bene. Il problema cruciale a mio parere è la costruzione di un modello di gestione integrata tra le attività di valorizzazione e le attività di conservazione nel tempo. All’interno del piano di gestione si deve dare il giusto peso alle esigenze di profitto del privato, ma deve essere perseguito il principale obiettivo che è la conservazione del bene, finalizzata ad una valorizzazione intesa come fattore di produzione culturale. Si tratta di un compito non semplice che richiede competenza e risorse. Dunque si ritorna alla questione iniziale della situazione del settore pubblico in materia di beni culturali.

E' per questo che nella società nascono resistenze e critiche?
La sensibilità presente nella società individua un rischio generico, nel senso che il dissenso ed i malumori spesso non individuano con precisione i reali fattori critici. Peraltro in mancanza di un'immagine chiara, alla fine si mette in discussione lo strumento, in questo caso la concessione al privato. Così ci si focalizza su un falso problema. Una concessione può essere uno strumento virtuoso o pericoloso a seconda, ripeto, della capacità del soggetto pubblico di esercitare controllo e dare un’impronta gestionale.

Però non c'è solo un preconcetto verso il privato: i comitati lamentano anche l'uso non consono del patrimonio, consentendo di trasformare la Villa Reale in business commerciale.
La compatibilità della destinazione d’uso viene valutata dal Ministero attraverso la locale Soprintendenza, quindi l’interlocutore ultimo dovrebbe essere chi ha dato l’autorizzazione. Ma anche in questo caso mi pare una questione secondaria, bisognerebbe infatti aprire una parentesi su cosa si intende per valorizzazione e su quali sono i modi consoni di utilizzo del patrimonio culturale. L’utilizzo a fini commerciali ovviamente sarebbe finalizzato al puro rientro dell’investimento fatto. In realtà le iniziative in “contenitori” di questo genere rientrano in una programmazione culturale. Ma nell’ambito del patrimonio è chiaro che la valorizzazione non può essere limitata all’erogazione di servizi ed attività culturali, che comunque vengono prevalentemente valutati sulla base della bigliettazione, perché la sostenibilità di un bene culturale deve essere garantita dalla capacità di produrre cultura in senso più ampio. Da tempo la discussione si è spostata nel campo dell’economia della cultura e dunque bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di affrontare il problema del reperimento delle risorse al di fuori da posizioni ideologiche.

L'azione dei comitati non è utile?
E' certamente è utile tenere alto il livello di attenzione ed è anche un esercizio di democrazia. Ho letto ed ascoltato le obiezioni sollevate. Ho sostenuto la necessità di concentrarsi sui problemi e le criticità reali, costruendo una base comune di informazioni corrette, partendo dal livello tecnico, ed individuando un linguaggio condiviso. Senza questi presupposti diventa difficile discutere correttamente e sviluppare un dibattito in cui ognuno può portare la sua visione.

A Vimercate, almeno secondo quanto viene riportato dai media locali, emerge un certo malcontento verso il Must che invece è un ente completamente pubblico. Per quale ragione?
Penso che all'origine ci sia il solito e diffuso problema della scarsa attenzione degli amministratori verso la comunicazione dei risultati ottenuti. Spesso e volentieri sui social network e sui giornali si vede l'attacco al museo visto come fonte di spesa, come attrattore di fondi che potrebbero essere usati per la città. Io, lo dico sempre, non condivido questa posizione. Non metto in discussione l'idea di avere un soggetto come il museo del territorio, anzi ritengo fondamentale la sua presenza a Vimercate, perché producendo cultura potrebbe elevare quello che viene definito il “capitale sociale” del territorio e avrebbe per conseguenza anche una ricaduta di tipo economico. Però nella popolazione prevale un istinto di pancia e si recrimina sulla mancata realizzazione di altre opere di carattere più materiale, per esempio la copertura delle buche dell'asfalto o l'eliminazione del problema dell'esondazione del Molgora.

La conservazione del patrimonio appare come un peso, per cui si accantona il problema e si concentra l'attenzione sulle attività di valorizzazione

Si mettono sullo stesso piano di voci di spesa e non viene individuata una gerarchia di priorità?
Si. Come al solito queste critiche non sono né documentate né costruite su basi solide e si confondono i livelli di analisi, mettendo sullo stesso piano temi che invece attengono a responsabilità e ambiti decisionali diversi. Bisogna però anche riconoscere che è difficile comprendere quale sia la visione strategica che guida le scelte degli amministratori e questo contribuisce a confondere temi di tipo tecnico-amministrativo con temi di indirizzo politico.La realtà è che gli enti pubblici non attuano politiche per lo stanziamento di risorse finanziarie finalizzate né al recupero di beni abbandonati all’incuria, né alla conservazione nel tempo di quelli restaurati. La conservazione del patrimonio appare come un peso, per cui si accantona il problema e si concentra l’attenzione sulle attività di valorizzazione, che già dal nome appaiono come qualcosa di creativo e decisamente meno impegnativo dal punto di vista economico, pensando inoltre che dalle attività di valorizzazione derivino i profitti. Bisognerebbe incrementare la capacità di produzione di cultura e la sua ricaduta economica e poi migliorare la comunicazione da parte dell'amministrazione, finalizzata far percepire il valore della cultura e del patrimonio cittadino come un’esperienza che è parte integrante del vissuto di ciascuno di noi.

 

Rossella Moioli

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Laureata in Architettura nell'ottobre del 1999, dal 2000 opera come libera professionista nell'ambito della Conservazione e Valorizzazione dei Beni Culturali. Svolge una attività professionale qualificata incentrata sul restauro di edifici tutelati e su progetti di valorizzazione distrettuale del patrimonio culturale.

Oltre ad aver svolto progetti di restauro ed aver seguito la loro realizzazione, da alcuni anni collabora con il Politecnico di Milano nell'ambito delle attività relative alla Conservazione Preventiva e Programmata del patrimonio storico-architettonico. Ha insegnato presso l'Università di Macerata nel Corso di laurea magistrale in Management dei Beni Culturali. E' autrice di pubblicazioni sul tema della Conservazione del Patrimonio Culturale ed ha partecipato come relatrice a numerosi convegni in Italia e all'estero.

 

Gli autori di Vorrei
Pino Timpani

"Scrivere non ha niente a che vedere con significare, ma con misurare territori, cartografare contrade a venire." (Gilles Deleuze & Felix Guattari: Rizoma, Mille piani - 1980)
Pur essendo nato in Calabria, fui trapiantato a Monza nel 1968 e qui brianzolato nel corso di molti anni. Sono impegnato in politica e nell'associazionismo ambientalista brianzolo, presidente dell'Associazione per i Parchi del Vimercatese e dell' Associazione Culturale Vorrei. Ho lavorato dal 1979 fino al 2014 alla Delchi di Villasanta, industria manifatturiera fondata nel 1908 e acquistata dalla multinazionale Carrier nel 1984 (Orwell qui non c'entra nulla). Nell'adolescenza, in gioventù e poi nell'età adulta, sono stato appassionato cultore della letteratura di Italo Calvino e di James Ballard.

Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.