Nel 1959 e nel 1961 Antonino Uccello realizzò due campagne di ricerca in Lombardia che interessarono in particolare le province di Como, Lecco e Monza Brianza. Brani rilevati a Cantù, Caslino d'Erba, Ceriano Laghetto, Figino Serenza, Lurago d'Erba, Mariano Comense, Montevecchia, Rovagnate, Seveso e Seregno. Un libro per riscopire le ricerche e i suoni
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Nel 1959 e nel 1961 il siciliano Antonino Uccello, maestro elementare in servizio dal 1947 in alcune scuole della Brianza, realizzò, dapprima a Cantù (CO), poi a Seveso (MB), Ceriano Laghetto (MB), Mariano Comense (MB), Lurago d’Erba (CO), Caslino d’Erba (CO), Seregno (MB), Figino Serenza (CO), Rovagnate (LC) e Montevecchia (LC), due campagne di registrazione di canti popolari che permisero la raccolta complessiva di 300 brani tra canti, filastrocche e musiche strumentali. La ricerca di Antonino Uccello fu sostenuta dal Centro Nazionale Studi di Musica Popolare di Roma (CNSMP), ora Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, e fu la prima vera raccolta di canti popolari in Lombardia realizzata con attrezzature professionali: la parte tecnica fu gestita, infatti, dalla RAI, che per l’occasione mise a disposizione di Uccello “l’automobile con la scritta RAI”, come ricorda Anna Caligiore, moglie di Antonino Uccello[1], e l’equipaggiamento necessario per effettuare le registrazioni. Una tale opera di documentazione, di per sé straordinaria, e non solo perché opera di un siciliano, acquisisce ancora più rilievo se vista all’interno dell’interesse e della considerazione dell’epoca per la musica e la cultura popolare. La documentazione su supporto magnetico della musica tradizionale in Lombardia, prima di quella realizzata da Uccello, era veramente poca cosa: nel 1949 la RAI registrò a Milano grida di venditori ambulanti (Raccolta 7 CNSMP) e nello stesso anno vennero registrati a Venezia, in occasione dell’International Folk Music Council, tre brani per flauto di Pan eseguiti da un gruppo di suonatori di Vighizzolo di Cantù (Raccolta 10 CNSMP). Nel 1954 alcune località del bergamasco e del pavese vennero toccate dalla ricerca di Alan Lomax e Diego Carpitella (Raccolta 24e e 24n CNSMP) e sempre nel 1954 Roberto Leydi documentò il sonoro e variegato mondo della piazza milanese registrando grida di ambulanti, imbonimenti, musicisti di piazza (Raccolta 31M Discoteca di Stato)[2]. Nulla di più. Tuttavia, a dispetto dell’ovvia rilevanza di questi materiali per lo studio della musica e della vicenda delle classi popolari in Brianza, si è sempre saputo poco circa la reale consistenza dell’ingente patrimonio di canti popolari raccolto da Antonino Uccello: si sapeva che comprendeva musiche per flauto di Pan, un grande numero di filastrocche e di canti rituali, ed era stata anche affermata l’imprescindibilità di questa documentazione per lo studio del canto di tradizione orale in Brianza. Non si era mai andati oltre, però, questi generici riferimenti[3]. Gli unici autori che, oltre a citare l’esistenza di questa documentazione, la Raccolta 49 e Raccolta 61 del Centro Nazionale Studi di Musica Popolare registrate dal maestro siciliano, ne hanno dimostrato la concreta conoscenza sono stati, a quel che so, Cesare Bermani e Luisa Betri, curatori del disco I Caprara. Fra città e campagna. In questo lavoro, datato 1974, veniva fatto riferimento alla Raccolta 61, in particolare alla canzone registrata a Seveso da Uccello Fin che avevo tólleri, e alle diverse versioni di Quell’uccellin del bosco presenti, appunto, in questa raccolta. Non sappiamo se Bermani e Betri, per realizzare questo loro lavoro si fossero recati a Roma per ascoltare le bobine registrate nel 1959 e nel 1961 da Uccello: sicuramente facevano riferimento al Catalogo sommario delle registrazioni 1948-1962, pubblicato a Roma nel 1963 a cura dell'Accademia Nazionale Santa Cecilia e dalla RAI Radiotelevisione Italiana.
Oltre a queste essenziali indicazioni che, lo ripetiamo, non sono mai entrate nel merito del materiale realmente registrato, non si trovano tracce di quel lavoro di Uccello nella letteratura specializzata: non solo quindi, non sono mai stati resi noti i singoli canti di cui sono composte queste considerevoli raccolte, ma non è stato nemmeno affrontato il punto centrale, cioè il reale valore di queste registrazioni per la conoscenza della musica e della cultura popolare della Brianza, e questo benché si parli, sia pure saltuariamente, ancora oggi, a più di trent’anni dalla morte di Uccello, di quella pionieristica ricerca, e benché da più parti ne sia stato riconosciuto il valore.
Quello che ci proponiamo con questo lavoro è di mettere a disposizione degli studiosi e degli appassionati questi preziosi materiali -abbiamo escluso quelli registrati nella bergamasca- cercando, per quello che ci è possibile, di illustrare il loro significato e di collocarli nel loro preciso contesto sociale e culturale, cioè in una località nella quale oramai da molti anni è ben difficile trovare in funzione canti tradizionali nella quantità e con le modalità esecutive con cui Antonino Uccello li rilevò, e in un’epoca in cui giunsero a compimento quei profondi mutamenti economici e sociali, in corso dalla fine dell’Ottocento, che hanno toccato profondamente le strutture stesse della società e della mentalità di una zona oggi divenuta luogo di benessere diffuso.
Osservando le schede di rilevazione di questa opera di documentazione del canto popolare, e cioè le località visitate, i nomi degli esecutori, le date e le rade annotazioni sui canti, l’analisi del lavoro di raccolta del maestro siciliano in Brianza può svolgersi su un duplice versante: su quello del tipo di ricerca etnomusicologica realizzata e su quello dei materiali registrati, cioè sulle premesse della ricerca e sui suoi esiti, momenti separabili analiticamente, ma in realtà reciprocamente implicati.
Il lavoro di Uccello si svolse tra gli anni ‘50 e ‘60, in un momento in cui, come abbiamo già accennato, pochissime erano le indagini etnomusicologiche nel nostro Paese e la moderna metodologia della ricerca etnografica, volta a cogliere in un unico oggetto di indagine la profonda unità di “testo letterario, melodia, interpretazione del cantore, occasione del canto, condizioni materiali di esistenza in cui il canto nasce…, persona del cantore”[4], si era affermata solamente con i lavori di Diego Capitella e di Ernesto De Martino in Lucania.
Accanto a questa impostazione etnologica, o più propriamente, e modernamente, etnomusicologica, negli stessi anni Giorgio Nataletti e il CNSMP portavano a compimento, soprattutto nell’Italia meridionale, una serie di ricerche sulla musica popolare di tipo musicologico-documentario[5]. Quest’ultimo modello di ricerca appare evidente anche nelle raccolte di Antonino Uccello: le schede di campo, compilate a illustrazione dei materiali sonori, infatti, non accennano alla biografia del cantore e difficilmente entrano nel merito del testo verbale o musicale del canto: riportano semplicemente- come già detto- i nomi degli esecutori, la data di registrazione, un titolo per il canto -spesso si tratta dell’incipit o del titolo che comunemente gli viene attribuito-, la tipologia esecutiva (coro, voci maschili, femminili, infantili) e qualche rara e laconica nota atta a contestualizzare il brano, ad esempio all’interno della ritualità calendariale, o volta a chiarire qualche termine idoneo ad illustrare il particolare significato o la funzione del canto (ad esempio nel brano 227 della Raccolta 61, Uccello specificò il significato di ritundella -in realtà rindondélla- e cioè girotondo: il canto in questione prevedeva, infatti, un girotondo da parte degli esecutori oltre a una drammatizzazione del testo verbale).
Uccello, e con lui il CNSMP, seguiva evidentemente il tipo di ricerca ben evidenziato qualche anno prima da Diego Carpitella e da Alan Lomax nella loro raccolta di materiali musicali estesa a tutto il territorio nazionale. Cercava cioè di documentare stili e modi esecutivi con l’idea di comporre un quadro d’insieme della musica tradizionale in Italia che negli anni ’50 ancora non esisteva: le raccolte di musica popolare allora erano infatti poche e limitate a poche regioni[6], soprattutto meridionali. L’intento era evidentemente quello di dare testimonianza del mondo sonoro di un determinato territorio prima della sua imminente sparizione o inevitabile trasformazione: l’urgenza antropologica, scevra da ogni intento “passatista”[7], era dunque la finalità che animava la ricerca di Uccello, finalità a cui era estranea la sistematicità dell’indagine antropologica già raggiunta nelle “spedizioni etnografiche” degli anni ’50 di Ernesto De Martino e dello stesso Diego Carpitella.
Antonino Uccello era infatti consapevole dei profondi cambiamenti nel tessuto sociale ed economico che stavano radicalmente trasformando in quegli anni il mondo contadino, tanto al Sud quanto al Nord, come dimostrano le note che seguono.
Quando ci recavamo nei feudi e nelle terre in abbandono, spesso i contadini buttavano via gli attrezzi dell'uso quotidiano: cucchiai e collari in legno per bovini o per ovini si ritrovavano spesso negli immondezzai; con un gesto che voleva distruggere tutto un cattivo passato. Era il rifiuto di tutto un mondo che rappresentava per loro uno stato di oppressione, il loro male antico. Erano gli oggetti che io avevo visto fin dalla nascita e che costituivano gli utensili della pratica quotidiana della nostra famiglia, così povera che perfino sull'unico canterano — portato in dote da mia madre — il falegname aveva sostituito il piano di marmo con quello di legno dipinto: per risparmiare, si diceva in famiglia. (…) Ma quando questi utensili cominciarono a subire la distruzione, come mi venne di osservare durante le lotte contadine, inconsciamente mi resi conto che c’era qualcosa che noi stavamo perdendo irrimediabilmente.
Non avevo ancora vent'anni, e cercavo di recuperare tutto quello che potevo.
I miei interessi allora erano rivolti alla poesia, compresa quella popolare. La scuola, che a mia madre e ai miei nonni era costata fame e fatiche indicibili, non mi aveva dato la possibilità di intendere il senso delle cose che raccoglievo. Cominciai a prendere coscienza solo a vent'anni, quando emigrai in Brianza, a contatto con uomini di estrazione culturale diversa dalla mia. Tra i primi conobbi Ernesto Treccani, Raffaellino De Grada, Salvatore Fiume, Luigi Guerricchio, e quindi Luciano Budigna, Bartolo Cattafi, Pietro Chiara, Scheiwiller, e Bosio e Leydi.
Durante il periodo delle vacanze ritornavo in paese. Giovane, ero già sposato. Mia moglie proviene da una famiglia di coltivatori diretti. Insieme, io e mia moglie, cominciavamo le nostre escursioni alla ricerca della poesia popolare e via via degli usi, delle tradizioni, del modo di vivere delle classi popolari.
Quei primi oggetti e attrezzi di lavoro rinvenuti nei rifiuti, ora, dopo il fallimento della riforma agraria (1950) e con la grande emigrazione, era più facile trovarli abbandonati tra le macerie: tra i muri crollati e sotto le tegole, nell'incuria generale. Già prevalevano gli oggetti di consumo, che oltre tutto rappresentavano un mondo di promozione sociale. L'utensileria dei grandi magazzini faceva concorrenza ai cucchiai di legno e agli strumenti popolari[8].
Uccello, in Brianza dal 1947, non si mosse affatto da sprovveduto nella sua ricerca di documenti della vita musicale e culturale dei paesi in cui si trovava, e non procedette improvvisando, come si potrebbe pensare ascoltando per la prima volta le sue registrazioni: con esigue note di campo e senza concreti elementi di contestualizzazione dei materiali raccolti, la prima impressione è, infatti, quella di una raccolta avvenuta quasi casualmente. Leggendo con attenzione le brevi note lasciate, però, ci si trova davanti a un lavoro di ricerca ben organizzato e pianificato -cosa, del resto, testimoniata da Anna Caligiore che afferma che le sedute di registrazione erano precedute da una fitta serie di contatti e di accordi con gli stessi esecutori, ma anche con intermediari, sindaci e parroci, per meglio giungere agli stessi cantori o suonatori.
La prima seduta di registrazione fu a Cantù, il 16 novembre 1959. In quell’occasione Uccello raccolse 41 canti e 17 brani per organico di flauti di Pan.
Dopo due anni si mosse in più località, realizzando otto sedute di registrazione così organizzate:
il 12 maggio 1961 a Seveso raccolse 30 canti e a Ceriano Laghetto altri 14;
il 13 maggio sempre a Seveso registrò 6 canti, quindi raggiunse Cantù (Cascina del Pero) e ne registrò altri 15, quindi a Cantù, questa volta in centro supponiamo, riuscì ad ottenerne altri 2;
il 17 maggio fu a Seregno per registrare 4 canti, quindi raggiunse di nuovo Seveso per raccoglierne altri 7 da parte di un gruppo di cantori bergamaschi costituenti quella che lui definì una “colonia al quartiere Bondi”;
il 19 maggio a Calusco d’Adda, in provincia di Bergamo, gli vennero eseguiti 24 canti;
il 20 maggio prima di raggiungere Mariano Comense, in cui registrò 24 canzoni, si fermò a Seveso dalle informatrici Luigia Costa e Maria Giuditta Corti che gli cantarono altri 5 brani;
il 23 maggio fu a Vighizzolo di Cantù: ebbe in tutto 34 canti e 4 brani per organico di flauti di Pan;
il 24 maggio a Lurago d’Erba ricavò 11 canti, si spostò poi alla Cascina Viganò, sempre a Lurago d’Erba, e riuscì ad averne altri 5, infine a Caslino d’Erba gliene vennero eseguiti altri 7;
il 26 maggio fu a Curno, in provincia di Bergamo: qui raccolse 13 canti;
il 27 maggio a Mariano Comense registrò un canto solo; si spostò a Seregno e ne ricavò altri 13;
il 28 maggio fu a Figino Serenza per registrare 14 canti, lo stesso giorno fu anche a Rovagnate, alla località Spiazzo, in cui ne ottenne altri 5 canti, infine fu a Montevecchia per raccoglierne altri 4.
Come si è visto, Uccello raggiunse anche più paesi nello stesso giorno e ogni giornata fu più che fruttuosa in termini di raccolta di canti: senza avere avuto contatti, concordato appuntamenti, senza cioè aver prima indagato sulla concreta fattibilità della ricerca, sulle reali possibilità di rilevare un buon numero di canti da cantori riconosciuti tali, tutto ciò non sarebbe stato possibile. Ma non ci si deve accontentare solo di questa osservazione. Ad indicare una meticolosa preparazione del lavoro di documentazione -che, lo ricordiamo, mobilitò i tecnici della RAI per la registrazione- ecco alcuni fatti presi ad esempio. Il 13 maggio Uccello terminò la seduta di registrazione a Seveso -il giorno prima vi era già stato- e poi raggiunse la Cascina del Pero di Cantù, località in cui registrò quindici canti solo da Giovanni Porro e Caterina Marzorati, per poi spostarsi a Cantù e registrare altre due canzoni. Senza aver avuto indicazioni dell’esistenza di un bravo cantore oramai anziano, probabilmente da qualche tempo non più in esercizio, Giovanni Porro aveva 78 anni, non avrebbe potuto registrare un numero così rilevante di canti dalla stessa persona nello stesso giorno. E’ evidente che la scelta non fu e non poté essere casuale. Non sappiamo quanto potesse essere esteso il repertorio di Giovanni Porro, ma sicuramente i quindici canti eseguiti per il microfono di Uccello non esaurirono i brani da lui conosciuti[9]. Per avere un termine di confronto non ho altro riferimento che le registrazioni di Paolo Vinati con i coniugi Guerini di Ponte Zanano in Val Trompia, in provincia di Brescia, vere e proprie enciclopedie viventi. I Guerini diedero prova di conoscere 107 canti, eseguiti in 11 sedute di registrazione: in una sola occasione eseguirono 15 canti[10].
Un altro esempio: il 17 maggio si recò a Seregno e registrò 4 brani eseguiti da Adelaide Spreafico e Paola Galimberti, due personaggi noti agli studiosi della musica popolare della Brianza: la prima autrice di un libro ancora oggi assai citato, Canti popolari della Brianza, pubblicato a Varese nel 1959, la seconda una sua fidata informatrice più volte presente con le sue preziose testimonianze in quella pubblicazione. Anche in questo caso l’incontro non poté essere casuale: Uccello doveva avere letto quel libro, per questo cercò la sua autrice, la trovò e la invitò ad incidere su nastro i materiali che lei stessa aveva pubblicato. Registrò così tre canti e una filastrocca (i canti resi a Uccello sono tutti editi nel libro della Spreafico con trascrizione musicale: le esecuzioni, fatte salve le incertezze esecutive delle due donne, non si discostano molto da quelle pubblicate in quel volume)[11]. Quell'incontro, che avrebbe dovuto essere assai gratificante per il ricercatore, si rivelò, però, poco felice. L’informatrice e la stessa Spreafico non si dimostrarono abili cantatrici. Grazie a loro Uccello documentò una versione assai articolata e completa di Donna lombarda, ma dal punto di vista prettamente esecutivo i canti delle due donne di Seregno dimostrarono al maestro siciliano lo stato della cultura tradizionale di quella zona della Brianza: forse non ancora completamente dismessa, ma oramai poco presente nella vita quotidiana di molti. Il canto risultava, infatti, molto faticoso e frammentato, l’incedere melodico era incerto perché molto probabilmente le due donne non avevano mai cantato insieme. Tornò ancora a Seregno ma non si appoggiò più alla Spreafico e ai suoi informatori: diede corso, evidentemente, ad altre sue conoscenze e nella stessa Seregno raccolse il 27 maggio 1961 bellissimi canti da osteria, repertorio allora ben più vitale di quello contadino arcaico. Un altro particolare: Uccello a Cantù, e a Seveso, registrò, come si vedrà, anche canti appartenenti alla ritualità calendariale tradizionale, in particolare relativi alle festività della Giübiana. In queste registrazioni Uccello non si limitò alla registrazione delle formule ritmate di circostanza che venivano scandite nel corso della festa, ma si premurò di ricostruire di fronte ai microfoni l’atmosfera festiva complessiva, con urla da parte del pubblico, rumori di latte percosse e di tamburi, ed esecuzione di brani musicali da parte di squadre di firlinfö, prima di lui soltanto Ernesto de Martino, i cui scritti Uccello doveva conoscere, aveva provveduto a documentare un rituale riprodotto “in vitro” e le osservazioni di Carpitella a proposito, sottolinearono la validità di questa pratica della ricerca[12]. Uccello fece la stessa cosa dimostrando una notevole sensibilità etnografica e una più che evidente capacità organizzativa.
Per quel che riguarda il procedere concreto della rilevazione all’interno di ogni singola seduta di registrazione, credo che i canti eseguiti da Teodora Zarlone a Seveso il 12 maggio 1961, offrano uno spunto per capire quanto accadesse realmente in quelle circostanze. Teodora Zarlone eseguì solisticamente, infatti, due canti militareschi di segno opposto, uno di coscrizione, con toni di compassione per il povero soldato costretto ad un lungo periodo di leva, l’altro militarista, riferito alla guerra italo-turca del 1911. La medesima tematica, sia pure declinata diversamente, in due delle tre canzoni eseguite dalla Zarlone, la terza canzone è un frammento di Angelo bell’angelo, brano conosciuto come La povera Rosetta, lascia pensare a una tecnica della indagine etnomusicologica basata sulla libera associazione di idee. Coloro che accettavano di cantare nel corso delle due campagne di registrazione eseguivano semplicemente quello che veniva loro in mente, che spesso era determinato dalla situazione stessa, da ciò che in quell’occasione si ascoltava dagli altri esecutori, senza esplicite richieste da parte dell’intervistatore. E’ proprio dovuto al particolare contesto che si veniva a creare che, ad esempio, a Figino Serenza il 28 maggio, nel corso di una delle ultime giornate di registrazione, Uccello documentò uno dopo l’altro La mama e la fiöla, Pian che la rump i véder, O mamma mia la spùśa l’è chì, O mamma maridém, Tövel no, tutti brani inerenti le tematiche del matrimonio e i rapporti interni alla famiglia tradizionale, in particolare quelli altamente problematici e conflittuali tra suocera e nuora; ed è proprio per questo motivo che nelle registrazioni si trovano due canti cumulativi consecutivi: La mia mamma la va al mercà e Che ha creato il mondo che affrontano tematiche assai lontane tra loro, ma sono simili per le modalità di trattamento del testo verbale. Procedeva in questo modo Antonino Uccello: una volta ottenuta una canzone, e non gli era affatto difficile avendo come primi interlocutori i bambini, probabilmente suoi alunni, lasciava che le altre venissero da sole, sulla base degli stimoli suscitati da quelle che man mano andava registrando.
Uccello, raccogliendo canti corredati da scarse note, utili solo in pochissimi casi alla comprensione del testo verbale -la gran parte dei canti che non abbiamo trascritto ha un testo verbale poco comprensibile, infatti- e alla contestualizzazione sociale e antropologica del canto, escluse, di fatto, ogni rapporto con l’esecutore oltre il momento dell’esecuzione stessa, precludendosi la conoscenza e l’approfondimento di ciò che riguardava il mondo musicale di questi cantori e che oggi a distanza di più di cinquant’anni da quelle registrazioni appare difficilmente ricostruibile, dati gli enormi cambiamenti nel tessuto sociale ed economico intervenuti.
Egli non indagò sulla concreta esperienza del fare musica delle persone che conobbe e con cui condivise una parte del loro mondo. Non sappiamo nulla, ad esempio, su coloro che composero la “colonia bergamasca” nel quartiere “Bondi” a Seveso[13], e anche meno sugli altri cantori che resero a Uccello i brani di queste raccolte: non sappiamo dove avessero imparato i canti e dove e in quali occasioni li eseguivano, non sappiamo nulla del loro lavoro e della loro vita quotidiana, così come non conosciamo i loro ricordi legati alle canzoni che conoscevano (e che sono spesso legati -come l’esperienza della ricerca insegna- a vicende personali) e soprattutto sappiamo poco circa i contesti esecutivi e la reale pratica musicale dei paesi della Brianza frequentati da Antonino Uccello tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Ciò di cui siamo all'oscuro, nonostante l’ingente corpus di musiche registrato, è la realtà dell’uso pubblico e privato della musica tradizionale. Si cantava ancora nelle osterie o nelle piazze, in occasione di feste? Le feste invernali documentate da Uccello erano ancora praticate negli anni ’50 o ’60 e se non lo erano, quando furono dismesse? Quali luoghi della Brianza sono risultati più conservativi rispetto ad altri, dove il repertorio tradizionalmente contadino si era maggiormente mantenuto? All’interno delle mura domestiche, qual era la concreta pratica musicale: nelle feste familiari si cantava? Cosa? Come? C’erano famiglie che per tradizione interna conservavano e coltivavano la musica tradizionale? C’erano ancora cantori ritenuti validi e depositari del sapere musicale di allora? Solo a questa domanda possiamo rispondere: osservando il ricorrere dei nomi degli informatori possiamo affermare che i cantori validi, persone che conoscevano un gran numero di canti, c’erano, e Uccello riuscì a catturare le loro esecuzioni. Penso, ad esempio, a Giovanni Porro della Cascina del Pero a Cantù, penso a Maddalena Latini di Seveso che eseguì sette brani (un ottavo brano lo eseguì un certo Pietro Latini, forse il marito, nato a Graffignano, vicino a Lodi), oppure al gruppo di cantori da osteria di Ceriano Laghetto o di Seregno, in cui emergevano le personalità di Ambrogio Pizzi, Salvatore Moltrasio e Rosetta Turati, o al già ricordato coro di ragazze di Figino Serenza, a Giuditta Frizzi di Lurago d’Erba, che rese al maestro siciliano una notevole versione monodica di Donna Lombarda, al gruppo di Vighizzolo di Cantù reperito in parte da Uccello tra le fila della formazione di suonatori di flauto di Pan Natale Brambilla -mi riferisco a Tarcisio Guanziroli, a Umberto Crippa, esecutore della stupenda El mè murùs se l’è de Barlasìna-, e ai loro parenti Angelina e Dolores Consonni[14], e si potrebbe continuare ricordando, ad esempio, anche Angela Colombo di Cantù, di soli 13 anni, che ci ha lasciato una pregevole versione di Mi sun chi a fa ‘nà la cüna.I cantori c'erano ed alcuni erano senz’altro ancora in attività. Ma non solo: nella ricerca di Uccello troviamo anche i cantori specializzati, Maria Caimi, ad esempio, dimostrò una vera predilezione, o, appunto, specializzazione, per il repertorio attinente le tematiche religiose. Oltre alla notissima ballata E' la figlia di un fittavolo, che narra di una vicenda di monacazione forzata, l’esecutrice conosceva integralmente La vita di San Lèssi, Santa Lucia e Lunedì mattina bunùra[15], tutti brani assai lunghi e complessi. Un’analoga conoscenza del repertorio religioso era anche quella, ad esempio, di Maria Giuditta Corti, che eseguì, come Maria Caimi, il brano sulla vita di Sant’Alessio, oltre alle orazioni SanGiüsèp varginèl e Dona curóna.
Alcuni canti, inoltre, pongono interrogativi per ulteriori ricerche che potrebbero prendere le mosse proprio da questo splendido corpus di musiche che Antonino Uccello ha consegnato alla nostra memoria. Mi sto riferendo alle cadenze venete o emiliane che sono presenti in alcune registrazioni: Mi son quella che impasta i gnocchi, per esempio, in cui l’inflessione della giovanissima esecutrice è smaccatamente veneta, oppure a Dona curóna, filastrocca-orazione eseguita da Maria Giuditta Corti, di origine lomellinese, ma dalla parlata emiliana, al gruppo di donne bresciane che eseguì con l’accompagnamento del pettine Caro ‘l me Tone, o ai già menzionati cantori bergamaschi di Seveso. La Brianza, come si vede, accoglieva -le ragioni sono da ritrovare probabilmente nel nascente boom economico- gruppi provenienti da altre province o regioni: i canti registrati da Uccello, più che canti “della Brianza” possono quindi essere meglio definiti come “canti registrati in Brianza”: all’origine problematica, come dimostra la bibliografia spesso abbondante raccolta per ogni singolo canto, preferiamo fare riferimento unicamente al luogo e alla data di registrazione, riferimenti sicuramente più concreti e realistici, che evidenziano il continuo rimescolarsi e rimodellarsi, grazie a contatti e a scambi fra persone e gruppi, dei materiali formalizzati della tradizione orale.
Il repertorio rilevato da Antonino Uccello per l’area della bassa Brianza (265 fra canti e filastrocche) è sostanzialmente integro: in esso trovano infatti rappresentazione tutti i generi del canto tradizionale. Per ricchezza di materiali è senz’altro assimilabile a quelli rilevati da Marino Anesa a Parre, nella bergamasca, da Massimo Pirovano per l’alta Brianza, o da Paolo Vinati con le registrazioni dei coniugi Guerini e dei cantori di Brione per quel che riguarda il bresciano; tutti questi studiosi, infatti, ci hanno lasciato visioni della pratica musicale tradizionale complete e attendibili. I canti documentati da Uccello offrono un panorama assai preciso della realtà del canto popolare in quest’area della Lombardia, anche se per la gran parte i canti sono già conosciuti sia nel testo sia nella melodia.
All’interno del corpus di musiche raccolto da Uccello si rilevano un repertorio arcaico e uno di formazione più recente.
Il repertorio tradizionale contadino, quello che Roberto Leydi definì il “materiale tradizionale di base”[16] è largamente attestato. Sono ben documentati, infatti, il repertorio infantile in molte sue forme, il canto rituale e il canto narrativo tradizionale.
Circa l’abbondanza del materiale propriamente infantile è facile immaginarne il motivo: senza alcuna difficoltà il maestro Antonino Uccello poteva reperire i suoi alunni come informatori. Nella prima registrazione della Raccolta 49, Gh’era una tuśa, registrata a Cantù il 16 novembre 1959, l'annotazione relativa agli esecutori è, infatti, la seguente:“Gruppo di bambini di 10 anni: Molteni, Rizzi, Marelli ed altri”. Uccello, secondo l’uso scolastico, annotò gli esecutori utilizzando i soli cognomi: doveva chiaramente conoscere molto bene i componenti di quel gruppo di bambini. La facilità nel trovare informatori, però, non significava affatto l’immediata disponibilità dei materiali formalizzati tradizionali. Fu lo stesso Antonino Uccello, infatti, a sottolineare, riflettendo sul linguaggio e sulla composizione della società canturina del tempo, la oramai avvenuta dismissione di questo repertorio.
Inevitabili sono infatti gli apporti venuti al lessico locale per effetto di un più o meno lungo soggiorno di immigrati, che, nella gran maggioranza, si esprimono in un linguaggio ibrido, costituito da parole canturine in una veste dialettale della propria regione d’origine, quindi con una particolare inflessione ora siciliana, ora pugliese, ora veneta ecc. e con l’inevitabile difficoltà d’inserire concretamente la parola lombarda nel sistema fonetico e morfologico dei dialetti italici.
Di solito gli immigrati, specie all’inizio, si adattano in abitazioni di fortuna, in cascine, in capanne, e sono i loro figli che, a contatto con la parte più tradizionalista della popolazione, con la parlata del luogo, assorbono perfettamente canti fanciulleschi, giuochi tradizionali; mentre, dei bambini del posto, solo tre o quattro su trenta in media ricordano, e con difficoltà, qualche nenia o filastrocca o giuoco[17].
Il repertorio infantile, poco frequentato dalla ricerca, vero e proprio territorio inesplorato, a tratti largamente oscuro, è costituito in gran parte da filastrocche, cioè “Test[i] brev[i], ritmat[i], assonanzat[i], recitat[i], cantat[i], cantilenat[i] con destinazione infantile e con finalità genericamente educativa (ricreativa, ludica…)”, secondo Mario Alinei[18].
Come si vede per la definizione del genere è decisivo l’aspetto pragmatico. Centrale è infatti il ruolo dei bambini, destinatari o esecutori del componimento, mentre la forma delle filastrocche, e talvolta anche il contenuto, è prossima ad altri generi della narrativa tradizionale: le favole, infatti, hanno la medesima finalità educativa delle filastrocche ma formalmente sono molto lontane da queste; i proverbi, diversamente dalle favole, sono formalmente simili alle filastrocche ma sono destinati agli adulti, (la finalità educativa è identica tanto nelle une quanto negli altri). Scongiuri e formule d’incantesimo sono analoghi formalmente alle filastrocche ma la loro funzione è differente, così come da queste non possono essere distinte con precisione, le conte e le rime legate ai giochi infantili. Ad aggiungere ulteriori difficoltà anche la loro versatilità pragmatica che ne rende problematica la classificazione: chi recita o chi canta le filastrocche (adulti o bambini)?; E’ necessaria per la recita delle filastrocche la presenza di una data realtà, di un animale o di un fenomeno naturale? E’ prevista sempre l’interazione adulto-bambino? La filastrocca è autonoma o è parte di una gioco o di una qualche azione?
Dal punto di vista rigorosamente musicale, invece, ad identificare la filastrocca occorre unicamente la sua particolare configurazione ritmica, che peraltro supporta anche strutture melodiche, identificata da Constantin Brăiloiu come una successione di serie costituite, nella forma più semplice, da 8 unità pari a 8 sillabe brevi, scomposte in più tronconi da rime e assonanze, a prescindere dal numero reale di sillabe che compongono la serie[19].
Nelle raccolte brianzole di Uccello il repertorio infantile è presente in molteplici forme. Troviamo filastrocche e canzoncine che articolano il ritmo infantile legate a giochi motori eseguiti da bambini, ad esempio il già citato Passano le signorine, ma anche Lunga lunghéra,Andarèm in guèra; scioglilingua cantati, ad esempio Mi son quella che impasta i gnocchi, canzoncina con una vicenda precisa che unisce a questa anche la difficoltà dell’articolazione vocale: il brano realizza quindi un difficile esercizio di precisione fonetica; le conte, cioè le filastrocche atte a sorteggiare un ruolo preciso per un giocatore, ad esempio Pim pum d’or, La Madòna de la nev; filastrocche dal senso oscuro, La vègia tuntùna, Vittori memori, Pizzìga munìga, Lìrum lìrum lanza, Lìrum lìrum catelèt, ma che può essere svelato relazionando i contenuti al mondo delle feste calendariali tradizionali e alle figure e alle attività che in esse erano previste[20], oppure, ma solo apparentemente, senza senso, dato che la funzione educativa delle filastrocche non viene mai meno, come nel caso di Gh'era 'na wölta 'n òm e 'n umèt in cui il testo offre un argomento, o un campo di argomenti, su cui è possibile ironizzare e ridere senza alcuna riprovazione. Ci sono anche filastrocche enciclopediche, ad esempio la molto nota “filastrocca della berretta” (Trenta quaranta), in cui trova rappresentazione l’intiera filiera produttiva contadina; filastrocche recitate in presenza di un animale (lumaca, maggiolino, grillo, falchetto): in questo caso l’elemento magico, retaggio di antiche concezioni del mondo, totemiche secondo Mario Alinei, è la ragione d’esistenza della filastrocca[21]. Uccello rilevò anche filastrocche-formule per indurre la pioggia, Piöf piöf, e una filastrocca-scongiuro per favorire il ritorno del sole o comunque del bel tempo, O Giuanìn càscia fö la cràpa; filastrocche relative alle vite dei santi o prossime all’orazione religiosa, ad esempio la già citata Dona curóna, oppure O Madòna Santa Clara, brano conosciuto e documentato sia come canzoncina, sia come canto religioso e come orazione: un esempio di come lo stesso testo possa essere sottoposto a diversi tipi di formalizzazione e possa essere destinato a più funzioni.
Erano rilevabili nella Brianza di cinquant’anni fa anche filastrocche da recitare in occasione di rituali ad esempio Spùśa linùśa, atto dalla valenza iniziatica, sia pure in negativo, in quanto gesto di scherno nei confronti della sposa che abbandonava, con il matrimonio, la sua precedente condizione. Sono presenti, ma il repertorio non è più solo quello prettamente infantile, data la strutturazione musicale più complessa e la presenza dello stesso tema anche in canzoni eseguite da adulti, alcune canzoncine satiriche nei confronti dei gobbi: nella canzoncina Io sono quel bèl gobètto, eseguita da Antonella Bernardi di 5 anni di Seveso,l’origine della gobba ha cause soprannaturali in quanto dono delle streghe al gobbo. Segnalo anche una filastrocca satirica, Teresa burghéśa, su chi si crede eccessivamente raffinato a dispetto dei suoi comportamenti grossolani.
Uccello complessivamente raccolse una quarantina di brani scanditi da bambini, della gran parte dei quali esistono poche testimonianze o non ne esistono affatto, indice questo di un repertorio mai seriamente preso in considerazione della ricerca etnografica.
La debole formalizzazione musicale -la realtà musicale delle filastrocche, come abbiamo già accennato, è sostanzialmente ritmica- prevede spesso intervalli di seconda maggiore e di terza minore attorno a una corda di recita, tuttavia, quale che sia la loro semplice organizzazione melodica, spesso non sono realizzate allo stesso modo dagli esecutori quando sono eseguite collettivamente, e spesso le note sono male intonate. Non si è creduto il caso, per questo tipo di materiali sonori, di complicare la trascrizione differenziando tra note male intonate e note non intonate (perché parlate o urlate) in quanto la stessa collocazione tra il parlato e il cantato delle filastrocche rende più che mai l’ascolto prioritario sulla trascrizione[22].
Sono presenti in queste raccolte anche le ninne nanne, caratterizzate dall’essere uno spazio funzionale e comunicativo interamente femminile all’interno della vita domestica ed è proprio per questo che colgono e rivelano il dolore e la fatica della condizione della donna nella famiglia contadina. Nelle ninne nanne tradizionali spesso non ci troviamo in presenza di soavi invocazioni al sonno e di leggeri e dolci dondolii per cullare il neonato: il tono della voce con cui è cantata la ninna nanna è talvolta potente, o più potente di quel che solitamente si immagina e i testi verbali contengono osservazioni sulle difficoltà della madre alle prese con un figlio da crescere nella più completa assenza del marito, si veda ad esempio Mi sun chi a fa 'nà la cüna. Talvolta anche un canto qualsiasi può assumere questa funzione: le sorelle Panzeri di Castello Brianza, ad esempio, cantavano ai propri nipotini le Litanie Lauretane per farli addormentare[23]. Ad identificare la ninna nanna, quindi, la funzione, prima della musica e del testo verbale[24]. I canti che Uccello ha identificato come ninna nanna sono in tutto cinque, ma potrebbero essere, quindi, molti di più.
Anche il canto rituale occupa molto spazio nel repertorio di Uccello: stupisce la ricchezza di riti che ancora all’inizio degli anni Sessanta erano praticati o erano stati da poco dimessi. Uccello, infatti, documentò a Seveso la questua cantata della legna da ardere per il falò di Sant’Antonio (il 17 gennaio)[25], il rituale della cacciata di gennaio a Montevecchia, già conosciuto e studiato a Premana e in Valtellina[26], ma probabilmente diffuso anche in pianura[27] e infine il rituale della giübiana ancora presente a Cantù e in altre località. Dai materiali presentati da Uccello, relativi a Cantù, a Seveso e a Mariano Comense, si coglie la parte pubblica di quest'ultimo rituale caratterizzato da strepito per le vie del paese con latte, tamburi, oltre che da musiche per firlinfö, distruzione mediante il fuoco di un fantoccio, la Giübiana, e consumo di alimenti grassi (lügànega; salsiccia). Il riferimento ai moscerini -in La giübiana di muschì- è in relazione al piatto tradizionale, il risotto, cibo apotropaico nei loro confronti in questa circostanza rituale. Accanto a tutto ciò poteva essere presente anche una parte del copione festivo, che Uccello non rilevò, che si svolgeva nelle case private. A Bovisio Masciago, ad esempio, oltre al pranzo tradizionale in funzione profilattica, in famiglia avveniva una drammatizzazione: una persona si vestiva da Giübiana, gli abiti utilizzati erano vecchi, trasandati e bizzarri, si tingeva il viso di nero e rincorreva i bambini che impauriti andavano a nascondersi. La Giübiana era impersonata dalle donne di mezza età, le mamme o le zie. In quel giorno si andava anche al cimitero a trovare i morti[28].
Troviamo anche due canti, Al venticinque di questo mese e Mangi un piatto di pastasüccia, entrambi registrati a Seveso, che si riferiscono alla coscrizione, e che, probabilmente, in mancanza di note esplicative, facevano parte di feste di coscrizione, i cui protagonisti erano, appunto, i coscritti, cioè coloro che nell’anno in corso dovevano recarsi alla visita di leva. Altrove, a Schignano (Como) -ma verosimilmente in molti paesi della Brianza tra cui Verano Brianza e Bovisio Masciago di cui abbiamo testimonianze[29]- tali canti, unitamente ai gesti legati all’insieme delle azioni festive di circostanza, mediano o mediavano significati di forza, di bravura, di potenza sessuale e di resistenza attingendo al repertorio di caserma (non importa se militarista o di protesta), a quello da osteria e a ogni altro idoneo allo scopo, lasciando trasparire una finalità iniziatica, e cioè l’ingresso ritualizzato dei giovani nella vita pubblica[30].
Numerosi sono i canti relativi al Natale: dai tradizionali Piva piva[31] e A mezanòt quan nas el Bambìn, in una versione legata a O don gh'è scià ‘l muléta, canto poco attinente alla tematica natalizia, fino ai canti paraliturgici che si riferiscono al viaggio di Giuseppe e Maria a Betlemme, segnato da eventi prodigiosi. Tra i canti rituali anche due canti di nozze ben eseguiti: Mamma mia la spuśa l’è chi e Evviva la spuśa. Segnalo inoltre Pian pian che la rump i véder, di cui Uccello rilevò più lezioni, in cui si accenna ai rapporti difficili della sposa con la suocera, assai indicativi circa la reale condizione della donna all’interno della famiglia contadina tradizionale.
Al materiale tradizionale di base appartengono anche i canti religiosi sulla vita dei santi: La vita de S.Lèssi (Sant’Alessio), di cui Uccello raccolse due versioni, E Santa Caterina, Santa Lucia e anche La Maddalena la và sui monti, eseguita in forma drammatizzata -secondo Roberto Leydi questo brano è ciò che rimane del dramma liturgico medievale Quem queritis[32]-. Interessanti perché oramai in disuso anche E l’anima perduta, storia di un’anima che trova la porta chiusa del paradiso e l’orazione recitata S. Giusèp varginèl.
Tra le ballate -ovviamente presenti e in genere riccamente documentate in tutto in nord Italia con pochissime differenze dall’una all’altra- ne segnalo, a fianco delle conosciutissime Il giorno di carnevale ho fatto la morosa, E la bela la va al fosso, Donna lombarda ecc., due di cui complessivamente ci sono poche testimonianze e che la recente ricerca di Massimo Pirovano nell’alta Brianza non ha messo in luce perché probabilmente oramai uscite dall’uso: Monta in carrozza oi bella ‘rnestina (Tentazione, Nigra 78) e Leva sü oi bèlla che l'è dì (L’uccello fuori di gabbia, Nigra 63).
Il secondo aspetto del repertorio di Uccello riguarda i canti di formazione più recente. Riporto il testo di O paiśàn, raccolto a Seregno il 27 maggio 1961, canto di importanza cruciale in questa raccolta, che permette, meglio di ogni altro, un’analisi sul rapporto tra la parte arcaica, ma non astorica[33], del materiale raccolto da Uccello e quella originatasi in anni non eccessivamente lontani dai nostri.
O paiśàn
i cavalé van male
o paiśàn
i cavalé van male
i cavalé van male
furmént e furmentùn
e paserà l'anàda
senza pagà 'l padrùn
e paserà l'anàda
senza pagà 'l padrùn
ò sciùr padrùn
i cavalé van male
ò sciùr padrùn
i cavalé van male
i cavalé van male
furmént e furmentùn
e paserà l'anàda
senza pagà 'l padrùn
ò paiśàn
i cavalé van male
ó paiśàn
i cavalé van male
i cavalé van male
furmént e furmentùn
e paserà l'anada
senza pagà 'l padrùn
ó paiśàn
pienté sü di sciòper
ó paiśàn
pienté sü di sciòper
pienté sü di sciòper
di sciòper di burdèi
e paserà l’anàda
senza pagà cinch ghèi
e paserà l’anàda
senza pagà cinch ghèi[34].
Il canto ha chiari riferimenti agli scioperi contadini di inizio Novecento volti ad ottenere migliori contratti agrari.
Tali scioperi segnarono il destino di un’epoca: diedero infatti inizio, in modo sia pure non uniforme, a quel processo che portò, nel giro di una ventina d’anni, con il passaggio dal fitto misto a grano al fitto a denaro, dal mondo di fame e di miseria sette-ottocentesco, governato da logiche di deferenza e di paternalismo, a una nuova concezione dei rapporti tra capitale e lavoro nelle campagne e a una monetarizzazione dei rapporti sociali.
Vale la pena, ora, di ripercorrere brevemente le tappe di quel percorso per meglio comprendere la formazione del repertorio di canto tradizionale più aggiornato e più rappresentativo delle classi popolari del Novencento.
Le rivolte contadine riequilibrarono l’assetto sociale ed economico fino ad allora eccessivamente sbilanciato a favore della classe padronale. Il nuovo contratto era più favorevole sia alla proprietà, che non doveva più supervisionare e controllare il lavoro contadino distraendosi dai nascenti interessi industriali, sia agli stessi contadini, che potevano dirigere come a loro più conveniva la forza lavoro familiare, continuando sì a fare affidamento alla terra, ma anche al lavoro manifatturiero, da parte della componente femminile della famiglia e ricorrendo all’occorrenza anche all’emigrazione. L'affitto a denaro penetrò in Brianza, territorio nel quale era presente già da tempo l'industria, mutando le sorti della famiglia colonica oramai da molto tempo attiva sia in fabbrica sia in agricoltura ma che ora, grazie all'industria diffusa sul territorio, guadagnava l'indipendenza dal padrone senza perdere la terra. Garanzia di ciò doveva essere l'unità della famiglia multipla, già da tempo pluriattiva -quindi contadino-operaia, non più unicamente contadina- che cominciava però ad essere minata e spesso lacerata al suo interno da tensioni nuove, prodotto di frequentazioni, aggregazioni e possibilità di consumi nuovi rispetto al passato, ad opera soprattutto delle generazioni più giovani.
I tempi stavano cambiando velocemente: i trasporti che permettevano viaggi in giornata a Milano, ma anche a Monza o a Sesto San Giovanni, offrivano la possibilità di un impiego in fabbrica anche alla componente maschile della famiglia, che, per ragioni di convenienza, generalmente continuava a mantenere la residenza nelle campagne prossime ai centri industriali. Se all’incirca fino alla Prima guerra mondiale le esperienze lavorative non agricole furono soprattutto femminili, da quegli anni in poi il lavoro in fabbrica fu appetibile anche al mondo maschile, che prese ad essere occupato nell’industria cotoniera, metallurgica e metalmeccanica, nell’edilizia e nelle prime industrie produttrici di mobili. Tutti questi nuovi lavoratori mantenevano forti legami, spesso tramite la famiglia d’origine, con il lavoro agricolo. L'affitto a denaro venne conquistato quasi ovunque negli anni Venti, grazie alle agitazioni del 1919-20. L’accumulazione di capitali che permetteva, per via dei redditi derivanti dall’industria, non più solo manifatturiera, rese possibile, anche grazie al cooperativismo cattolico[35], l’acquisto della terra e l’affrancamento del debito nei confronti del proprietario.
Il rapporto tra famiglia contadino-operaia, terra e industria rimase dinamico ancora per un paio di decenni nei quali l’industria prevalse, per numero di occupati, sull’agricoltura, che finì per essere relegata alla coltivazione nei fine settimana o lasciata alle braccia degli anziani di famiglia. La famiglia divenne quindi operaio-contadina, fino ad arrivare, all’incirca a partire dagli anni Trenta, alla piccola impresa a gestione familiare[36]. Senza entrare nelle dinamiche sociali ed economiche relative alla nascita di questa nuova formazione sociale riportiamo quanto afferma Paul Corner:
gli operai di questa generazione, i quali avevano assistito al declino del ruolo dell’agricoltura, riconobbero che la soluzione dei loro problemi [a causa della crisi economica degli anni Venti] non poteva venire da un ritorno puro e semplice alla terra. La loro era un’attività prevalentemente industriale o commerciale, e tuttavia fondamentalmente diversa da quella dei loro colleghi completamente urbanizzati. Essi tendevano infatti a conservare molti dei valori basati sulla famiglia, con cui soprattutto e innanzitutto s’identificavano (anziché con la categoria industriale cui appartenevano), e perseguivano scopi che erano comuni alla famiglia piuttosto che a una qualsivoglia organizzazione politica. Si trattava dei valori che si accordavano bene con il cattolicesimo moderato e tendevano a escludere l’adesione tanto all’attivismo dei fascisti quanto alla solidarietà collettiva dei socialisti. I legami di fedeltà di questi giovani operai rimanevano in effetti ancorati al gruppo familiare[37].
Nella trasformazione dei rapporti parziari si ebbe, quindi, “l’origine di quel particolare atteggiamento verso il lavoro e verso le attività imprenditoriali che ha reso la Brianza contemporanea un’area di grande importanza a livello economico”[38]. E’ questo che abbiamo brevemente, e sommariamente, delineato il clima sociale ed economico, oramai affermato in Brianza grazie alla ripresa economica del dopoguerra, in cui svolse la sua ricerca Antonino Uccello, che O paiśàn ci ha permesso di ricordare.
Il recente abbandono del canto popolare, che Uccello testimoniò a proposito del repertorio infantile, e che oggi appare sempre più confinato in spazi privati, o velocemente dimenticato come simbolo di un mondo di povertà, avvenuto negli anni Sessanta del Novecento, ha una vicenda che trova le sue radici nell’estremo sfruttamento cui vennero sottoposte le classi popolari nel corso del secolo XIX. Legate alla terra da contratti che postulavano rapporti di dipendenza personale dal proprietario e che si inasprirono proprio nel corso dell’Ottocento con l’inserimento dell’agricoltura nell’orizzonte capitalistico e quindi con l’abbandono dell’economia di rendita per quella di mercato, annullate le garanzie paternalistiche dall’emergere della classe dei fittavoli estranei a conduzioni della terra che non fossero quelle del suo massimo sfruttamento, le famiglie contadine, costrette ad affidare all’industria -unico ammortizzatore sociale dell’epoca- ragazze e bambini come manodopera a basso costo, sperimentarono in quel mondo di sfruttamento e di fame il progressivo sfaldarsi della cultura tradizionale o il suo disporsi su posizioni poco inclini alla riformulazione e rifunzionalizzazione degli strumenti della comunicazione e quindi a un’assimilazione e rielaborazione con nuovi significati delle influenze esterne, finendo per assumere come modelli culturali quelli della classe borghese, o quelli più genericamente provenienti dal mondo cittadino.
Ciò che chiaramente emerge dall'ingente opera di documentazione del canto popolare realizzata da Antonino Uccello, è che, per numerosi canti registrati, il mondo contadino arcaico, a cui ingenuamente, o ideologicamente, troppo spesso si rimanda, era oramai lontano.
Se la lavorazione del merletto al tombolo è antica –pare risalga al sec. XVI– ed è molto viva e praticata, certo chi ha rinnovato l’economia locale, chi ha dato impulso a un’attività divenuta frenetica è l’industria del mobile. Sorta nell’Ottocento, scalzò via via l’antichissimo artigianato del ferro battuto fino a divenire una delle attività più rinomate dell’artigianato nazionale, coi suoi 700 laboratori, che impiegano più di duemila operai, con otto edifici destinati alla esposizione permanente dei mobili, con un cospicuo volume di vendite in Italia e all’estero, con mostre internazionali e un Istituto d’Arte con corsi aggregati per maestranze (serali, domenicali e diurni)[39].
In questo modo Uccello descriveva Cantù: la realtà era decisamente quella artigianale-operaia nella quale convivevano forme antiche e recenti di canti popolari. L’aggiornamento del repertorio, che comunque avvenne, è immediatamente evidente nei testi verbali di alcuni canti amorosi: interessante quanto si afferma nella canzone El mè murùs.
El mè murùs
sì l'è 'n bèl tùs
gh'à lunch ul nas
ma a mé 'l mé piàs
e dè mesté
‘l fa 'l legnamé
fa i taparèl ai tuśàn bèi[40].
Così come altrettanto degno di nota è il testo della seguente conta infantile:
Tàvula
ul mè pà la fà una cà
quanti ciùd l'à ‘duperà
vòt
vün dü tri quàter cinch sés sèt vòt föra e sòta[41].
Il dettaglio relativo al lavoro dell’amato o del padre -rispettivamente falegname e carpentiere- indica, insieme ad altri canti, la nuova realtà sociale che si è costituita e che il canto riflette. Un altro esempio: O mamma la mia mamma sulla melodia de Lo spazzacamino:
O mamma la mia mamma
stasera non si scéna
polenta non si mena
teàter non si va[42]
Questo è solo un frammento, ma il dettaglio del teatro indica il richiamo della città, e una vita che non è più quella contadina mezzadrile, così come estraneo al mondo mezzadrile era il possesso di una casa:
A cà mia fu mè möd
a la matina e pìzi 'l föch
trapulìn de ciapà i rat
e la serva de lavà i piàt[43]
Domàn l’è festa non si lavora
ho la morosa d’andà a trovàr…
Un’altra idea estranea al mondo tradizionale era quella del tempo festivo come al tempo del non lavoro o come al tempo da dedicare a se stessi andando a fare visita all’amata. Ma si va anche oltre: Lunedì poi, brano conosciuto come La settimana della lingéra, registrato a Mariano Comense, mostra l’atteggiamento verso il lavoro della classe della lingéra, i primi sottoproletari migranti, inabili a gestire il denaro e incuranti della rigidità degli obblighi lavorativi.
Come si vede, si tratta di strofe con inserti nuovi -l’oralità tradizionale ha spesso proceduto nell’adeguamento delle forme della comunicazione agendo sui materiali a disposizione con lievi modifiche[44]-, frammenti di canti che altrove sono documentati con i testi verbali tradizionali: questi minimi mutamenti affermano, laddove sono utilizzati, una nuova rappresentatività sociale.
Indice dei tempi nuovi, un corpus di canti satirici nei confronti dello stesso mondo contadino: in Giuvanin l’andà a Milàn, la satira è diretta nei confronti del paesano, E qui de Com, che descrive gli abitanti di Como come ignoranti, impresentabili e inaffidabili nelle solennità civili. Ci sono altri canti in cui vittime dell’ironia sono gli abitanti della montagna ad esempio ‘na vòlta ‘n muntagné o coloro che esercitano i tradizionali mestieri umili ad esempio Spazzacamìn chi vien da Ròm[45]. Ricordiamo anche Mi sun bèl, sul ridicolo matrimonio contadino; Teresa burghéśa, in cui il termine borghese è sarcastico per chi, come la protagonista di questa filastrocca, si comporta in modo poco raffinato e sconveniente; Gh’è chi ‘l battèl che vén de Còm, in cui la derisione è diretta al fidanzato ignorante delle buone maniere e poco elegante. Sostanzialmente viene preso in giro il villano al quale viene applicato lo stesso stereotipo di ferinità, ignoranza, inferiorità, che per secoli è stato applicato dalle classi colte a quelle popolari. Questo pregiudizio grava ancora sul contadino: lo stesso mondo popolare tende in questo modo a distinguersi da chi contadino è rimasto o ne ha mantenuto i modi. Costruisce così l’alterità, contribuendo nel contempo a definire un’identità sociale e culturale, tradotta da questi canti, che non è più quella tradizionale[46]. Il mondo contadino è oramai alle spalle, il canto che la ricerca di Uccello ha documentato, è costruito sul presente, sulla nuova realtà sociale delle classi popolari.
Questi ultimi canti che abbiamo citato, non considerando le filastrocche, non sono legati a funzioni o occasioni esecutive specifiche, ma si ritrovano presenti unicamente nelle occasioni conviviali, quali il ritrovo all’osteria, la festività familiare, l’occasione informale pubblica ecc. Esistono naturalmente altre funzioni assorbite e legate a quella del piacere del fare musica insieme o del piacere dell’ascoltarla da parte del pubblico (l’affermazione secondo cui la musica è sempre funzionale è in questo caso più che valida: cantando insieme nelle modalità tradizionali si realizza un’affermazione identitaria, si consolidano i legami sociali, si dà voce a stati emotivi…). Dal punto di vista formale questi repertori erano i più diversi nel mondo popolare: canzoni a ballo, romanze da salotto, canti lirici, riproposizione di canti di lavoro, canti narrativi eseguiti monodicamente o polivocalmente, o con accompagnamento strumentale. In questi canti, che gli esecutori realizzano per il piacere intrinseco di stare insieme facendo musica, si ritrovano forme polivocali complesse e coloro che, per bravura, per passione e per la qualità della loro voce, meglio eseguono questi canti, finiscono per avere le parti principali. Si ha, così, una differenziazione interna al gruppo, cantori da una parte e cantori specializzati dall’altra. A causa del recente affermarsi della nuova realtà sociale ed economica, con la liberazione del tempo libero anche per gli strati bassi della popolazione, il canto d’intrattenimento ha avuto maggiori possibilità di affermarsi a causa della nuova possibilità di incontri e delle più frequenti occasioni per stare insieme[47]. Il canto da osteria appartiene a pieno titolo a questo orizzonte. L’osteria -la géśa di òmen, la chiesa degli uomini, come afferma un canto raccolto a Vighizzolo di Cantù- di fatto è divenuta, dal diffondersi del lavoro in fabbrica, il luogo d’incontro, forse il principale, in cui veniva speso il tempo libero -rigidamente strutturato in netta antitesi rispetto al tempo del lavoro- da parte delle classi popolari[48], e non aveva ancora perso questa funzione negli anni in cui Antonino Uccello registrò i canti nei paesi della Brianza. L’osteria era un luogo di conservazione del canto tradizionale, una forma di resistenza del mondo tradizionale nei confronti delle aggressioni e dei tentativi di assimilazione che provenivano dall’esterno. In osteria si cantava di tutto, anche ciò che aveva perduto la sua funzione tradizionale, ma non evidentemente il suo valore identitario. In osteria, e in quegli anni solamente in osteria, veniva riaffermata e difesa, senza alcun tipo di censura colta o borghese, la vita comunitaria tradizionale; in osteria avveniva la rifunzionalizzazione del materiale comunicativo, quell’aggiornamento del repertorio e quell’accoglimento di contenuti nuovi, eseguiti con i moduli formali del canto tradizionale, indice ancora di una certa vitalità della cultura popolare. Fuori dall’osteria, invece, la cultura tradizionale trovava pochi spazi.
Non sappiamo come Uccello recuperò i suoi cantori, ma il mondo dell’osteria è presente in queste raccolte: lo si capisce dalla forte, e spesso unica, componente maschile impegnata nell’esecuzione; dal tipo di canto, che spesso fa emergere intense voci tenorili; da una certa teatralità formale spesso consistente in giochi di domanda e risposta come in Tuśàn de la Valassina[49] e Pellegrin che vien da Ròma, brani registrati a Vighizzolo di Cantù il 23 maggio 1961, dalla quantità di canti legati, o incatenati, ad altri canti, indice del prevalere della funzione emotiva su quella referenziale del canto e ovviamente dall’accoglimento nei testi verbali dei canti di riferimento al mondo contemporaneo. Frammenti di questo vastissimo repertorio sono stati registrati a Ceriano Laghetto, a Seregno, e, come già accennato, anche a Vighizzolo di Cantù. I contenuti sono quanto mai vari: strofette con riferimenti alla vita locale e alle vicende nazionali (si vedano gli accenni alla stazione di Rovellasca e ai fucili di Napoleone III), canti cumulativi, ballate tradizionali di cui si eseguono poche strofe in quanto la finalità non è quella del racconto di una storia ma quella del gusto di cantare insieme; canti, come O dòn gh'è chi 'l mulèta, oppure Me ricordi quan 'navi a scöla, che provengono dall’ambiente urbano e dei quali si conoscono gli autori; non possono mancare, ovviamente, le canzoni “da vino” Forse vurì o che canti, raccolta a Seveso,e Se l'acqua mi fa male, Son bersaglier[50],registrate a Cantù; e non possiamo non citare, in questa breve rassegna, gli splendidi canti eseguiti a Seregno Son qui sotto la tua finestra, Buonasera miei signori, Andiam andiam noi tutti, Vanne vanne, questi ultimi due derivati dall’opera o dall’operetta, realizzati con il mantenimento dell’impianto polivocale per terze parallele e, nel caso di Andiam andiam noi tutti, con una parte aggiunta di tipo melodico-ritmico sul levare del tempo a imitazione bandistica -si è di fronte, quindi, ad un’appropriazione e ad una vera e propria ricreazione di forme della comunicazione musicale nate in ambito colto- el'unico canto sociale di cui abbiamo già parlato, O paiśàn, eseguito dalla straordinaria voce di Rosetta Turati. Ma non basta. Il repertorio del canturino Angelo Bergna, detto Branzìn, spesso in compagnia di Ferdinando Molteni, è a pieno titolo, per l’impostazione tenorile della voce e per la teatralità quasi cabarettistica del suo modo di cantare, materiale recente che probabilmente trovava occasioni esecutive e pubblico proprio in osteria.
Indubbiamente indice dei tempi nuovi, della mutata società e dell’evidente e disponibile categoria sociale e culturale del tempo libero, sono i brani per flauto di Pan registrati a Vighizzolo di Cantù costituiti in gran parte da canti di filanda -repertorio peraltro presente e raccolto da Uccello proprio a Vighizzolo e a Mariano Comense, si veda E canta la scigàda, Sciùr Giuanìn sül canapè, Passégian per la sala, in cui le operaie della filanda descrivono con molta ironia e consapevolezza la loro condizione -e da marcette di ispirazione bandistica[51], e i canti eseguiti nello stile polivocale tradizionale dai membri della corale parrocchiale “Giuseppe Verdi”, diretta per più di 30 anni da Cesare Bergna che costituiva evidentemente un solido punto di aggregazione dopolavoristico nella Cantù degli anni ’50[52]. A proposito del canto di filanda, il passaggio a una nuova forma espressiva e comunicativa di quel repertorio fu colta dallo stesso Uccello.
La diffusione delle fibre tessili ha ormai da anni posto in crisi la produzione della seta naturale. Con la trasformazione degli stabilimenti anche i canti sono andati via via esaurendosi. Sono in genere le donne anziane o di mezza età che ricordano qualche canzùn per averla cantata nella vecchia filanda o nello stabilimento.
Molti di questi canti ora vengono cantati individualmente, o assorbiti da gruppi folkloristici o da “corali” con scopi evidentemente turistici e di spettacolo[53].
Troviamo inoltre canti da cantastorie ad esempio il già citato Angelo bell’angelo, raccolto a Seveso e Sono le sette, registrato a Rovagnate.
Questo è, sommariamente, il contenuto del repertorio che Antonino Uccello ha lasciato alla nostra attenzione e al nostro studio.
Quello che, in conclusione, se ne può dedurre è che, a nostro modo di vedere, non c'è contraddizione alcuna tra il consistente e pregevolissimo corpus di canti recuperati da Uccello e la constatazione evidenziata da Roberto Leydi, per cui nell'epoca in cui Uccello effettuò le registrazioni già da tempo il canto popolare si era ritirato dagli spazi pubblici. Io stesso, nato nel 1962 a Bovisio Masciago, a pochi chilometri da Seveso e da Ceriano Laghetto, non ho alcuna memoria della presenza del canto tradizionale né nelle piazze, né nelle osterie e nemmeno all’interno della mia famiglia: negli anni ‘60 e ‘70 in molte zone della bassa Brianza il canto popolare era oramai solo un ricordo. L'apparente contraddizione si supera ritornando con l'attenzione alla accurata preparazione della ricerca da parte di Antonino Uccello, che, forse proprio perché siciliano, privo quindi di pregiudizi su persone e aggregazioni, mi riferisco al mondo dell’osteria, da più parti ritenuto moralmente disdicevole, riuscì a dare un’idea attendibile circa materiali e repertori della pratica musicale popolare. E' vero che non conosciamo nulla dei modi con cui Uccello recuperò gli informatori, tuttavia siamo certi, dai pochi indizi che abbiamo sopra evidenziato, in particolare dal fatto per nulla casuale che gli esecutori canturini erano in gran parte i familiari di coloro che animarono le formazioni dei flauti di Pan -gruppo sociale assai mobile per esigenze di spettacolo, frequentatore di osterie, e quindi disposto ad integrare materiali nuovi nel proprio repertorio- che egli gettò il suo sguardo di ricercatore sia in ambienti conservativi, sia in ambienti in cui era ancora possibile cogliere l’espressività tradizionale nella sua attualità, e solo in quei limitati spazi sociali poté trovare canti ancora in funzione o dismessi da poco e ci mise davanti agli occhi, forse per l'ultima volta, la complessità esecutiva e l'articolazione e la stratificazione del repertorio tradizionale così come doveva realmente essere o per quello che a quell’epoca poteva ancora essere rilevato.
Le ricerche successive che si sono realizzate in Lombardia -nella bassa Brianza la ricerca non è stata effettuata- muovendosi in un ambito segnato oramai dall’abbandono delle occasioni esecutive tradizionali, hanno rilevato la presenza del canto popolare solamente nella memoria dei singoli o nei repertori familiari o in alcune rare singole feste, con i loro canti di circostanza, ma difficilmente hanno documentato il repertorio di cantori validi e in attività[54]. Sicuramente quella ancora consistente diffusione del canto tradizionale, come dimostrano le raccolte del maestro siciliano, oramai da qualche decennio non è più accessibile ai ricercatori.
Il lavoro di Antonino Uccello, sia pure con gli aspetti che oggi ci appaiono irrimediabilmente datati, illustra, forse per l’ultima volta, una certa vitalità di un repertorio di canto che a distanza di pochi anni si è irrimediabilmente perduto e che lascia aperti numerosi interrogativi sia sulla reale base sociale di questi canti -la cultura popolare non è affatto monolitica, ma appare frammentata in numerose sottoculture[55]-, sia sul reale mondo musicale dell’epoca, descritto da Uccello come unicamente costituito da canti, per lui punto di arrivo della ricerca, in realtà punto di partenza per una ricognizione rigorosa sulla musica nella Brianza fatta sì da canti, ma anche da persone, gruppi, funzioni, occasioni esecutive e idee estetiche.
[1] Ringrazio Massimo Pirovano per avermi permesso di utilizzare l’intervista da lui realizzata con Anna Caligiore registrata a Palazzolo Acreide, in provincia di Siracusa, il 13 novembre 2009.
[2] Cfr. Accademia Nazionale S. Cecilia, RAI Radiotelevisione Italiana, Catalogo Sommario delle Registrazioni 1948-1962, Roma, 1963 e B. Pianta, Resoconto indicativo delle ricerche in Lombardia, in R. Leydi (a cura), Quaderno 5-6 della Regione Lombardia, Cultura tradizionale in Lombardia, Milano, Regione Lombardia, 1972, pp. 267-275.
[3] Cfr. B. Pianta, Resoconto indicativo…, cit., p. 270.
[4] D. Carpitella, Gli studi sul folklore musicale in Italia, “Società”, VIII, 3, 1952, p. 547.
[5] Sulle due impostazioni metodologiche si veda F. Giannattasio, Il concetto di musica. Contributi e prospettive della ricerca etnomusicologica, Roma, la Nuova Italia Scientifica, 1992, pp. 67-86.
[6] Sull’importanza per la nostra tradizione di studi etnomusicologici del viaggio attraverso l’Italia di Diego Carpitella e Alan Lomax, cfr. M. Agamennone, Etnomusicologia italiana: radici a sud, “Suonosud”, 1989, pp.18-41.
[7] Si veda per questo il saggio di Febo Guizzi in questo volume.
[8] A. Uccello, La casa di Icaro. Memorie dalla Casa-museo di Palazzolo Acreide, a cura di S. Nigro, Catania, Pellicanolibri, 1980, pp. 20-23; si veda anche S. Bonanzinga, Antonino Uccello e l’avvio dell’etnomusicologia sul campo in Sicilia, in G. Pennino (a cura di), Antonino Uccello etnomusicologo. Documenti sonori degli Archivi di etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Palermo, Regione Sicilia, 2004, pp. 20-21.
[9] Giovanni Porro cantò: Moretto Moretto, Vanne vanne o montanara, Ven chi Ninètta, Di là di là del ponte, Tutti i giorni andavo alla posta, Quel cacciator del bosco, In campagna non mi vado, Son bersaglier, Trentasei mesi che sono carcerato, La bella Isolina, Sì l’è ‘rivà Pangràzi, Si la vien giù dè la muntàgna, Tìres in ment Ninètta, Ninètta sei bella, O mamma maridém. Non abbiamo trascritto tutti i canti eseguiti in quell’occasione da Giovani Porro: alcuni furono male realizzati a causa della inesperienza nel canto tradizionale di Caterina Marzorati.
[10] Cfr. P. Vinati, Canti di tradizione familiare nella montagna bresciana. Il repertorio di Tilio e Pasqua Guerini, Brescia, Grafo, 1997.
[11] Paola Galimberti e Maria Adelaide Spreafico cantarono: Donna lombarda, La biondina di Voghera, Se i fossi una regina e recitarono la filastrocca S’éri là sül strecirö. Quest’ ultima venne rilevata da Uccello anche a Vighizzolo di Cantù.
[12] “Constatare come la musica fosse al centro di una ricerca interdisciplinare, sottolineare i rapporti con la storia delle religioni, l’etnologia, la demologia, ecc. consentì di interpretare coerentemente i suoni nella loro funzione contestuale. In Lucania assistemmo a numerose lamentazioni e incontrammo diverse prefiche di mestiere. Sperimentammo anche alcune registrazioni in vitro: al confronto non risultarono molte differenze fra esperienze “dal vivo” ed esperienze riprodotte in vitro. Il modello del pianto era allora così radicato che risultava sufficiente una lieve provocazione iniziale perché l’esperienza esistenziale si riproducesse egualmente”: M. Agamennone, Etnomusicologia italiana…, cit., p. 21.
[13] In realtà non esisteva alcuna colonia bergamasca a Seveso e meno che meno il quartiere Bondi. Ci informa Francesco Bassi, un allievo di Antonino Uccello che partecipò a quelle registrazioni, che probabilmente una simile nota fu dovuta a una cattiva interpretazione da parte del maestro siciliano di ciò che i cantori bergamaschi gli dissero in quella occasione. Si riferivano probabilmente all’osteria di un certo Bundi, Abbondio, situata nella località Seveso Altopiano. Probabilmente, quindi, si trattava un gruppo di lavoratori temporanei.
[14] Si veda in questo volume il saggio di Giorgio Foti.
[15] Di Maria Caimi non abbiamo trascritto Lunedì mattina bunùra, registrata da Uccello in una verisone meglio eseguita a Vighizzolo di Cantù.
[16] Cfr. R. Leydi, Le trasformazioni socio economiche e la comunicazione orale-tradizionale, in R. Leydi (a cura), Le trasformazioni socio-economiche e la cultura tradizionale in Lombardia, Milano QDR 5-6 Regione Lombardia, Cultura tradizionale in Lombardia, 1972.
[17] A. Uccello, Canti popolari di Cantù. Registrazione effettuata il 16 novembre 1959, dattiloscritto rilegato in cartoncino custodito nei faldoni dell’Archivio della Raccolta 49.
[18] Cfr. M. Alinei, Le origini linguistiche e antropologiche della filastrocca, “Quaderni di semantica” a. XXX, n. 2, dicembre 2009, pp. 263-290.
[19] C. Brăiloiu, La ritmica infantile, in Folklore musicale. Volume secondo, Roma, Bulzoni, 1982, pp. 104-139.
[20] Si vedano i lavori di M. Anesa e M. Rondi, Filastrocche popolari bergamasche, Bergamo, Sistema Bibliotecario Urbano, 1991 e Goi S., Il segreto delle filastrocche, Milano, Xenia, 1991.
[21] Cfr. M. Alinei, Dal totemismo al cristianesimo popolare. Sviluppi semantici nei dialetti italiani ed europei, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 1984.
[22] Sui problemi relativi al rapporto tra parlato e cantato si veda F. Giannattasio, Dal parlato al canto, in Enciclopedia della musica diretta da J. J. Nattiez, vol. V L’unità della musica, Torino, Einaudi, 2005, pp. 1003-1036.
[23] Cfr. M. Pirovano, Cari signori che state ad ascoltare. Il canto popolare tradizionale nella Brianza lecchese, Oggiono-Lecco, Cattaneo Editore, 2002, p. 214.
[24] S. Mantovani, ‘Lo daremo all’uomo nero’. Il repertorio infantile, in R. Leydi (a cura), Canti e musiche popolari, Milano, Electa, 1990, pp. 69-76.
[25] Circa gli usi per Sant’Antonio in Brianza cfr. I. Sordi, Il ciclo dell’anno nelle tradizioni, in M. Pirovano (a cura), Storia della Brianza vol. V, Le culture popolari, Oggiono-Lecco, Cattaneo Editore, 2010, pp. 63-111. Tale canto era conosciuto e utilizzato anche a Bovisio Masciago, ma era rivolto ai fiori delle robinie per la produzione di legna da consumarsi nel corso dell’anno. Ricavo questa informazione dall’intervista a Severina Veronesi registrata da chi scrive nell’abitazione dell’informatrice nel luglio del 2004.
[26] Cfr. I. Sordi, Le feste tradizionali, i loro protagonisti, il loro pubblico, in AA.VV., Premana. Ricerca su una comunità artigiana, Milano, Silvana Editoriale, 1976, pp. 601-617; per la Valtellina faccio riferimento alla testimonianza di Elisa Pezzini e Nino Morelli registarata a Sacco in Val Gerola da chi scrive il 31 luglio 2002 e a G. Marchesi, In Valtellina. Costumi, leggende, tradizioni, “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, XVII, 1898, pag. 417.
[27] Faccio riferimento a una testimonianza di Amelia Colombo di Parabiago, resa a chi scrive alcuni anni fa, secondo la quale un gioco praticato dai bambini, negli anni dell’immediato dopoguerra, consisteva, in occasione dell’ultimo giorno del mese di gennaio, febbraio e marzo, nel percuotere i coperchi delle pentole e nello scandire la filastrocca Föra genàr dént febràr (fuori gennaio dentro febbraio), il mese successivo Föra febràr dént mars (fuori febbraio dentro marzo) ecc.
[28] Tali usi erano praticati a Bovisio Masciago nel periodo precedente la Seconda guerra mondiale. Le informazioni mi vengono da Severina Veronesi nell’intervista sopra citata. Sulla ritualità popolare del mese di gennaio in Brianza, in particolare sulle feste della Giubiàna e del Ginée cfr. I. Sordi, Il ciclo dell’anno…, cit. pp. 79-86.
[29] Cfr. R. Valota, Vedo le ruote che girano. I canti dei coscritti di Schignano (Como), Bologna, Ut Orpheus, 1996. Per quanto riguarda Verano Brianza e Bovisio Masciago il riferimento è alle testimonianze di Alessandro Brenna e di Severina Veronesi registrate rispettivamente a Verano Brianza il 19 aprile 1993 e a Bovisio Masciago nel luglio 2004 da chi scrive. In quest’ultima intervista Severina, che si riferiva al periodo precedente la Seconda guerra mondiale, è apparsa censoria circa i canti in uso, probabilmente per le oscenità che li caratterizzavano.
[30] Cfr. I. Sordi, Il carnevale di Schignano e le sue maschere, in Leydi R. e Sanga G. (a cura), Como e il suo territorio, Milano, Silvana Editoriale, 1978, pp. 201-273.
[31] Tale canto fu registrato da Uccello a Cantù il 16 novembre 1959. Non lo abbiamo trascritto in quanto conosciutissimo e già più volte pubblicato.
[32] R. Leydi, Le trasformazioni socio economiche…, cit., p. 175.
[33] Sui riferimenti dei canti popolari a un tempo anteriore alle trasformazioni operate dalla rivoluzione industriale nel tessuto sociale -e cioè la continua penetrazione nelle campagne di modi di comportamento e di comunicazione di tipo urbano-, tempo in cui il mondo popolare era ancora in grado di filtrare autonomamente i cambiamenti in modo organico e funzionale creando una propria visione del mondo, cfr. R. Leydi, Le trasformazioni socio-economiche…, cit. Si veda anche R. Leydi, Dalla cultura contadina alla cultura operaia in Lombardia (osservazioni e ipotesi), in Regione Lombardia, Assessorato agli Enti Locali e alla Cultura, Il paese di Lombardia, Milano, Garzanti, 1978, pp. 255-315.
[34] O contadino/ i bachi da seta vanno male…/ frumento e granoturco/ e passerà l’annata senza pagare il padrone…// o signor padrone/ i bachi da seta vanno male…// o contadini/ fate degli scioperi…/ scioperi agitazioni/ e passerà l’annata/ senza pagare cinque centesimi.
[35] Non bisogna dimenticare come le istanze delle classi subalterne vennero fatte proprie dalle organizzazioni cattoliche. L’orizzonte della Chiesa era volto ad arginare l’avanzata delle idee socialiste e al preservare l’ordine sociale dai rivolgimenti introdotti nelle campagne dall’industrializzazione. Cfr. S. Ghezzi, Etnografia storica dell’imprenditorialità in Brianza, Milano, Franco Angeli, 2007; per la zona dell’Alto Milanese cfr. G. Galliani Cavenago, Quando il paesano rifiutò il pendìzio. Il ruolo della cooperazione nella trasformazione del contado di Cuggiono (1860-1915), Milano, Franco Angeli, 1999.
[36] Cfr. S. Ghezzi, Etnografia storica…, cit., p. 94.
[37] P. R. Corner, Contadini e industrializzazione. Società rurale e impresa in Italia dal 1840 al 1940, Bari, Laterza, 1993, pp. 151-152.
[38] A. De Battista (a cura), Contadini dell'alta Brianza, Oggiono-Lecco, Cattaneo Editore, 2000; e S. Ghezzi, Etnografia storica…, cit., p. 21.
[39] A. Uccello, Canti popolari di Cantù…, cit.
[40] Il mio moroso/ è un bel ragazzo/ ha il naso lungo/ ma a me piace/ e di mestiere/ fa il falegname/ fa le tapparelle/ alle belle ragazze.
[41] Tavola, il mio papà ha fatto una casa/ quanti chiodi ha adoperato?/ Otto/ Uno due tre…
[42] O mamma la mia mamma/ stasera non si cena/ non si mescola la polenta/ a teatro non si va.
[43] A casa mia faccio a modo mio/ alla mattina accendo il fuoco/ trappolina per prendere i topi/ e la serva per lavare i piatti.
[44] Ma anche con radicali innovazioni individuali, come nel caso dei canti di cantastorie, diretti al mercato. Sia nell’uno come nell’altro caso l’accoglimento comunitario sancisce l’approvazione della novità introdotta. Cfr. B. Pianta, Cultura orale: memoria, creazione e mercato, “La ricerca folklorica”, n. 15, 1987, pp. 11-15.
[45] Il canto venne registrato da Uccello a Seveso il 12 maggio 1961, l’informatore era Filippo Pagani di 74 anni. Non abbiamo trascritto il canto perché male eseguito.
[46] Cfr. L. M. Lombardi Satriani, Il villano tra idiotismo e arguzia, in S. Barillari (a cura), Motti arguzie e facezie… e altre forme semplici della cultura popolare, Roma, Meltemi, 2000, pp. 31-41.
[47] Cfr. I. Macchiarella, Dalla musica etnica ai generi d’intrattenimento, in Enciclopedia della musica diretta da J. J. Nattiez, vol. 1 Il Novecento, Torino, Einaudi, 2001, pp. 1166-1181.
[48] Sulle bettole, circoli vinicoli o società vinarie come luogo di aggregazione e di solidarietà tra operai legato proprio al diffondersi del sistema di fabbrica, cfr. F. Ramella, Terre e telai. Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese dell’Ottocento, Torino, Einaudi, 1984, pp. 174-182.
[49] Il brano venne registrato da Uccello a Vighizzolo di Cantù il 23 maggio 1961. Identico sia nella forma musicale sia nel testo verbale a quello eseguito dalla corale Giuseppe Verdi di Cantù abbiamo preferito trascrivere quest’ultimo in quanto meglio realizzato.
[50] Tale canto venne registrato il 13 maggio alla Cascina del Pero di Cantù. L’informatore era Giovanni Porro. Non abbiamo trascritto questa canzone perché venne male eseguita.
[51] Si veda il saggio di Giorgio Foti.
[52] Le notizie sulla corale “Giuseppe Verdi” sono ricavate da A. Uccello, Canti popolari di Cantù…, cit.
[53] A. Uccello, Canti popolari di Cantù…, cit.
[54] Fatta eccezione per i lavori già citati di Paolo Vinati con la famiglia Guerini e con i cantori di Brione: cfr. P. Vinati (a cura), Canti di tradizione familiare. Il repertorio della famiglia Guerini, Nota CD 2.23, 1995; P. Vinati, Sotto l'ombra di un bel fior. Canti di tradizione orale a Brione, Brescia, Grafo, 2004; M. Pirovano (a cura), Canti di tradizione familiare in Brianza. Le sorelle Panzeri, Nota CD 382, 2002; R. Valota (a cura), Val Gerola. La famiglia Morelli di Sacco, Nota CD 444, 2003.
[55] Si vedano i numerosi saggi contenuti in M. Pirovano (a cura), Le culture popolari, cit.
I brani nei 3 CD Audio
CD 1 Cantù, Seveso e Ceriano Laghetto
1. Gh’era una tus´a 1.21
2. Ciricicèlli 0.20
3. Lunga lunghéra 0.13
4. Pim pum d’òr 0.30
5. Spùs´a linùs´a 0.13
6. Lümaghìna 0.10
7. San Tiudòr 0.11
8. O papà végn a cà 0.14
9. Piöf piöf 0.11
10. Teresa burghés´a 0.13
11. Gril gril 0.12
12. El mè murùs 0.19
13. O mamma la mia mamma 0.33
14. Cara mè Péder 2.54
15. Giuvanìn l’è andà a Milàn 0.28
16. E qui de Còm 0.40
17. A cà mia fu mè möd 0.16
18. In sü la riva dèl mar 0.50
19. Leva sü oi bèlla che l’è dì 3.03
20. Giübiana ‘na quarta de lügàniga 0.30
21. Ò quèl üs´elìn del busch 2.54
22. La Mariettina 1.07
23. E lé la va in filanda 0.40
24. Ciàpa un sasso 0.54
25. Trapulìn 0.53
26. Mamma mia mi sun stüfa 0.44
27. Alla mattina bonóra 0.57
28. O giovinòtti 1.14
29. Pulirö 1.01
30. Andèm in giò 1.00
31. La bèlla Richettina 0.53
32. La bùgia peràda 0.33
33. El mè murùs l’è bèl dumà a la fèsta 0.29
34. Nava nel mio giardino 0.38
35. E la mia mamma 0.49
36. La scigàda 0.50
37. E picchia picchia 0.56
38. L’è ‘rivà ‘l trenìn 0.33
39. E canta la scigàda 0.37
40. Tus´àn de la Valassina 0.46
41. Lé l’andava e mi vegnéva 0.56
42. La pulenta quan l’è cotta 0.21
43. Duè te vét o Mariettina 0.35
44. Mi sun chi a fa ‘nà la cüna 0.41
45. L’è ‘rivà de Muntis´èl 0.22
46. Bionda bèla bionda 0.39
47. Gh’era una dòna 0.41
48. Dàghen un tài 0.23
49. Mamma la mia mamma 0.42
50. Finché avevo tólleri 0.42
51. Angelo bèll’angelo 1.11
52. Mangi un piatto di pastasüccia 0.40
53. Andarèm a Trìpuli 0.53
54. Mi sun quèla che impasta i gnòcchi 0.44
55. Quando avevo quindic’anni 1.11
56. Forse vurì o che canti 0.34
57. Tòni Tòni 0.28
58. Sant’Antòni dèl purcèl 0.26
59. Torna il marito dalla bottega 3.28
60. Mariètta strascètta 0.21
61. Ul mè pà l’à fà ‘na cà 0.11
62. San Giuàn 0.11
63. La vègia tuntùna 0.12
64. Aièmblèn 0.19
65. La Giübiana dèi muschì 0.17
66. Gh’era ‘na wölta ‘n òm e ‘n umèt 0.15
67. Gh’era ‘na wölta un òm 0.21
68. Ul tulìn 0.18
69. Giuanìn pipèta 0.15
70. Pim pam dòla 0.10
71. Io sono quèl bèl gobètto 0.50
72. ‘Na vòlta un muntagné 0.37
73. A la Casìna Növa 0.39
74. Fà ninìn popó de cüna 0.27
75. Vittori memori 0.17
76. Ninìn pupò de cüna 0.33
77. Un due trè 0.23
78. Pizzìga munìga 0.21
79. ‘Ndué se sta Martìn 1.04
80. A mez´anòt quan nas el Bambìn 0.26
81. Al venticinque di questo mese 0.28
82. Dona curóna 0.45
83. La vita ‘d zant’Aléssi 0.38
84. Sèn Giüsèp varginèl 0.15
85. El vapurìn de Còrsich 1.33
86. Aveva gli occhi neri neri neri 3.08
87. Guarda quella barchètta 1.06
88. Mè pàder l’era göp 0.40
89. Chi l’ha mangiato il becco dell’anitra 2.20
90. E la bella la va al fosso 3.45
91. Magnano 0.35
92. O dòn gh’è chi ‘l mulèta 0.55
93. Mè ricordi quan ‘navi a scöla 0.40
94. L’ho tocàta la si svegliava 3.49
durata totale: 77.23
CD 2 Cantù, Mariano Comense e Vighizzolo di Cantù
1. Tutti i giorni andavo alla posta 1.57
2. Quel cacciator va al bosco 2.20
3. In campagna non mi vado 0.53
4. Trentasei mesi che sono carcerato 1.29
5. La bella Isolina 1.18
6. Sì l’è ‘riva Pangràzi 0.36
7. Tìres in ment Ninètta 0.23
8. Oi mamma maridém 0.25
9. Domàn l’è fèsta non si lavora 1.30
10. E mi s’eri in stalla 0.33
11. Liga la vacca 0.42
12. E l’anima perduta 1.28
13. Lavùra pòver òm 0.32
14. Passégian per la sala 0.31
15. Gin gin 0.46
16. I tus´àn dal Belvedè 0.19
17. Fiòcca fiòcca la muntàgna 0.26
18. O Madòna santa Clara 0.36
19. Piscinìn piscinìn chi l’era 0.45
20. San Giüs´èp al ‘nava via 1.42
21. Fa ninìn pupò 0.24
22. Al vèn Natàl 1.00
23. Andarèm in guèra 0.22
24. Io son quèl tal gobètto 1.22
25. La mia mam la va al mercà 1.20
26. Che ha creato il mondo 1.46
27. In mès del mar 1.26
28. Lunedì poi 2.15
29. Ven chi Ninètta 0.22
30. Guarda la luna come la cammina 0.47
31. Picchia picchia la porticèlla 2.17
32. Mamma mia dammi cento lire 2.06
33. Guarda là quella barchètta 0.48
34. Lìrum lìrum Francia 0.25
35. Ul mé gal 0.13
36. La Madòna de la név 0.09
37. Lümaga 0.11
38. Z´èla z´èla 0.16
39. Trenta quaranta 0.58
40. Noi siamo ‘n quatro 1.32
41. O mamma la mia i mamma 0.36
42. O mamma il mio ben 0.50
43. Stamatina u ‘mparà 2.34
44. Ven chi Ninètta 0.58
45. Vorrei baciar Ros´ètta 1.17
46. Sciùr Giuanìn in sül canapè 2.08
47. La domenica andando alla messa 1.37
48. Eravamo in tre sorelle 1.04
49. E picchia picchia la porticèlla 1.54
50. O mamma maridém 0.34
51. Stamattina mi sono alzata 3.00
52. Dove sei che non ti vedo 1.27
53. Monti in carózza ói bèlla ‘rnestina 1.29
54. O cielo cielo sta pur sereno 1.38
55. O donne belle gh’è chi ‘l magnano 3.19
56. Mi sun bèl 1.42
57. Ö che bèl facìn che la gh’à 0.35
58. Te regòrdet Marianna 1.01
59. L’è ‘rivà de Muntis´èl 0.45
60. Sis´ìn de sìpria 0.48
61. Il ventinove luglio 2.29
62. El mè murùs se l’è de Barlassina 0.53
63. Se l’acqua mi fa male 0.53
64. Dai che te rut el véder 0.41
65. Metti giù quel cestolino 1.40
66. Pellegrin che vén de Ròma 2.28
67. A dai a dai che l’è dré catài 0.36
durata totale: 78.35
CD 3 Lurago d’Erba, Caslino d’Erba, Seregno, Figino Serenza, Rovagnate e Montevecchia
1. Lìrum lìrum catelèt 0.32
2. Mi sun chi in filanda 0.36
3. O la bionda di Vughéra 1.21
4. Richiami e incitamenti per il cavallo 0.16
5. Brus´é la cà del puiàn 0.16
6. Lümaga lümaga 0.12
7. Pütòst che tö la dòna 0.36
8. Mamma mia la spùs´a l’é chi 0.38
9. O donna donna donna lombarda 2.03
10. Il giorno di carnevale 1.33
11. Ul mé pà l’è ‘ndà al mercà 2.15
12. Per chiamare i pulcini e la chioccia 0.15
13. Per chiamare le galline 0.27
14. O Giuanìn càscia fö la cràpa 0.10
15. Vön dü tri quàtar cinch sés sèt la Madóna da Lurèt 0.15
16. O lümàga lümaghén 0.14
17. O donne donne gh’é chi ‘l magnano 1.36
18. Gh’é ché ‘l battèl che vén de Còm 1.04
19. Un giovin de muntagna 1.13
20. Se io fossi una regina 1.27
21. La figlia d’un fittavolo 1.44
22. La vita dè san Lèssi 3.55
23. Santa Lucia 4.16
24. Buonasera miei signori 0.52
25. Andiam andiam andiam noi tutti 1.36
26. Son qui sotto la tua finestra 1.23
27. Dammi la man biondina 1.24
28. Vanne vanne 2.36
29. O pais´àn 2.53
30. È la figlia di un fittavolo 2.28
31. Pin pin cavalìn 0.09
32. E ‘ndarèm in guèra 0.13
33. La Maddalena la va sui monti 2.40
34. E santa Caterina 2.34
35. La mama e la fiöla 1.45
36. Pian pian pian che la rump i véder 2.04
37. Passano le signorine 1.23
38. Evviva la spùs´a 0.53
39. O mamma maridém 0.53
40. Tövel no 1.20
41. Sun vegnü de la muntagna 1.15
42. O tus´àn sì béi sì béi 1.16
43. Conosco una ragazza di nome Valentina 0.50
44. Gh’eva ‘n fiö d’on conte 3.10
45. Sono le sètte 3.06
46. El brüs´a ginée 0.20
47. E da Verona 3.41
durata totale: 68.04
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