Errori e orrori delle convenzioni in uso nella comunicazione burocratica. Non c’è mai stato nessun motivo per promuovere alla maiuscola i nomi comuni. Sarebbe utile arrivare, un giorno, alla condivisione generale di un unico insieme di modalità di scrittura. Ma quel giorno è lontano: specialmente per noi italiani, spesso refrattari al rigore e alle sfumature.
Mi è stato chiesto di apportare due correzioni al testo di una locandina che annuncia un concerto. Sono stato pregato di scrivere le parole associazione e sindaco con le iniziali maiuscole. L’ho fatto senza batter ciglio, per non inoltrarmi in una farraginosa discussione di natura non solo grammaticale. In realtà non c’è mai stato nessun motivo per promuovere alla maiuscola i nomi comuni. Neanche patria, paese, stato, repubblica e presidente. Ma in Italia persiste una lunga tradizione, burocratica e persino giornalistica, incline a una certa retorica. La rivista Internazionale è una delle poche pubblicazioni, se non l’unica, a perseguire con impegno un programma di depurazione ortografica e linguistica. Non a caso ha una rubrica fissa che parla proprio di questo. Si intitola “Le correzioni” e se ne occupa la giornalista Giulia Zoli.
L’uso delle iniziali maiuscole per designare ruoli e organizzazioni istituzionali trova la sua radice non nella logica grammaticale, ma in un surplus di (presunto) rispetto dovuto ai beneficiari. Per la stessa ragione, c’è chi continua a scrivere Vostra o Lei (al posto di vostra o lei) nella corrispondenza commerciale. Si tratta di convenzioni, d’accordo; ma sono convenzioni fuori tempo massimo. Nel remoto 1962, appena assunto alla Mondadori per rispondere alle lettere degli abbonati, ricevetti dalla direzione del personale un manuale ironicamente intitolato Senza pregiata Vs. a riscontrare. Il compito del libro era mettermi in guardia dagli errori e dagli orrori delle convenzioni in uso nella comunicazione burocratica.
Gutenberg’s (42-line) Bible: Opening of Proverbs. Johann Gutenberg, Johann Fust and Peter Schoeffer. Mainz, 1455
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Da anni è in corso, su vari fronti editoriali, un processo di revisione di molte consuetudini dubbie ma comuni nella scrittura. Alcuni temi sono diventati un mantra, come la questione dell’accento sul pronome sé davanti all’aggettivo dimostrativo stesso. Ricordo di aver letto da giovane un libro del lessicologo Aldo Gabrielli, che già a quei tempi protestava per l’assurda perdita dell’accento nel caso considerato. Anche “La grammatica italiana” Treccani taglia la testa al toro: «[...] non c’è ragione per cui una medesima forma debba essere scritta in un caso con l’accento e in un altro senza; inoltre, il problema della confusione potrebbe sorgere al plurale (se stessi e se stesse sono sequenze nelle quali se può essere congiunzione, in frasi come: se stessi male, ti chiamerei; se stesse a casa, risponderebbe). È dunque consigliabile, perché più logica ed economica, la forma sé stesso.»
La logica e l’economia (intesa come riduzione delle ridondanze e delle eccezioni) sono le linee guida più utili per orientarsi nei labirinti della scrittura, un mondo che si evolve in continuazione e che suscita non pochi grattacapi in chi prende seriamente la correttezza e l’aggiornamento. L’economia nell’uso delle maiuscole non è motivata soltanto dalla ragione, ma anche dal rifiuto dell’enfasi, che oltre ad essere inutile è una cattiva consigliera. Un po’ di minimalismo ortografico fa bene anche dal punto di vista etico: costringe a spogliare il pensiero da orpelli superflui e a concentrarsi sull’oggettività e la trasparenza di ciò che si scrive, senza indulgere in genuflessioni e ossequi non richiesti.
Detto questo, faccio fatica anch’io ad adeguarmi in modo immediato e coerente alle nuove raccomandazioni ortografiche. Il principio di base è: economizzare le maiuscole; usarle solo quando si è costretti da ben precise norme grammaticali. Le maiuscole siano l’eccezione, non la regola. Questo principio investe persino i nomi di organizzazioni e di eventi storici, quando espressi in più d’una parola. Per cui dovremmo dare la maiuscola solo alla prima parola della sequenza: scrivendo, per esempio, Associazione nazionale partigiani d’Italia o la Grande guerra anziché Associazione Nazionale Partigiani d’Italia o la Grande Guerra. A volte ci riesco e a volte no: si tratta comunque di accrocchi assimilabili ai nomi propri, come L’Aquila e La Spezia che per me non potranno mai diventare, almeno finché campo, L’aquila e La spezia (al massimo accetterei l’Aquila e la Spezia). Ma ci sto lavorando; l’idea di leggere una pagina italiana senza troppe elevazioni non mi dispiace, perché tipograficamente più elegante di una pagina disseminata di picchi come l’elettrocardiogramma di uno che sta male.
Altre lingue europee hanno abitudini diverse dalle nostre: non le confuto perché non mi appartengono. Gli angloamericani abbondano di maiuscole nei titoli di libri, film e composizioni musicali: The Catcher in the Rye, Gone with the Wind, Let’s Fall in Love; ma sono talvolta indecisi sulle iniziali di articoli e particelle, per cui capita di leggere anche The Catcher In The Rye, Gone With The Wind, Let’s Fall In Love. Se citano titoli italiani si comportano allo stesso modo, provocandomi – senza volerlo – sussulti intestinali: Quer Pasticciaccio Brutto De Via Merulana, Rocco E I Suoi Fratelli, Non È Francesca. I francesi conferiscono l’onore della maiuscola alla prima parola del titolo, ma se la prima parola è un articolo l’onore viene esteso anche alla seconda: Le Vent se lève. Ammiro il tedesco, anche se usa le iniziali maiuscole per tutti i sostantivi, perché le sue sono regole da cui non si scappa; e non sono regole ideologicamente sospette ma grammaticali e basta, per cui der Präsident sta esattamente sullo stesso piano dell’Arbeiter (l’operaio) e della Putzfrau (la donna di servizio).
A proposito di lingue. Un altro rompicapo di non facile soluzione è dato dal plurale delle parole importate. Una convenzione semplificativa dice che, usate in italiano, devono restare nella forma singolare: gli sport e non gli sports, tanto per intenderci. Obbedisco, ma non sempre. Può capitare che mi sembri una forzatura, quando la parola in questione è d’importazione recente, o quando la mancata aggiunta di una desinenza rende poco eufonica o comprensibile la frase. Esempio: Ho aperto i file con Text Edit. Se scrivo files ho la sensazione di essere più chiaro. Per superare la contraddizione con me stesso ho deciso di regolarmi così: quando sento di non poter fare a meno del plurale straniero, lo utilizzo ma metto la parola in corsivo, come per dire: vedi, non sto usando un termine straniero italianizzato ma sto proprio citando un’altra lingua.
Ci vuole un intero trattato per esaminare in profondità tutte le convenzioni e tutti i dubbi che rendono così complicato l’editing di un testo (detto per inciso: non si tratta solo di correzione ortografica di bozze ma anche e soprattutto di controllo generale della fluidità del testo, del montaggio delle sue parti, dell’esattezza delle informazioni). Gli editori seri si attengono a un corpus di convenzioni proprie per prevenire difformità di trattamento ortografico e tipografico all’interno della loro produzione. Sarebbe utile arrivare, un giorno, alla condivisione generale di un unico insieme di modalità di scrittura. Ma quel giorno è lontano: specialmente per noi italiani, spesso refrattari al rigore e alle sfumature.
Tratto da Dixit Café