Emozione a mille, dalla grafica iniziale fino alla fine. Sound design da sballo. La composizione armonica ed enigmatica della prima inquadratura. Devo rivedere la top ten dei miei dieci film preferiti e decidere quale cacciare fuori per farci entrare questo.
Amo il cinema. A volte mi accontento di poco pur di passare due ore in santa pace o santa rabbia, a godermi un film e a studiare com’è fatto. Qualche volta mi emoziono sul serio. Può anche capitarmi di pisciare una lacrima, persino in caso di colpi bassi sferrati dal furbastro di turno. Di tanto in tanto, ma raramente, provo brividi intensi – di piacere, stupore, ammirazione, persino invidia per gli autori del lavoro, come se fossi un loro concorrente diretto, mentre non sono altro che un semplice spettatore.
Certi film cominciano a bruciarmi dentro fin dai titoli di testa, come se già la prima immagine, la prima scritta, il primo suono mi dicessero: rilassati e apri bene la mente, sta per succederti qualcosa di speciale, molto speciale. Ne cito qualcuno, a memoria e in ordine cronologico. Fellini: La dolce vita. Due signore bene, un po’ stronze, prendono il sole su una terrazza romana. Nel cielo sopra di loro, un elicottero con statua di Cristo appesa alla corda. Hitchcock: Psycho. Saul Bass spacca tutti i credits con linee orizzontali, musica inquietante di Bernard Herrman, zoom verso una persiana chiusa, anche quella ha le linee orizzontali. Chissà cosa sta succedendo lì dentro. Orson Welles: L’infernale Quinlan. Schizza un tema di Henry Mancini sul piano sequenza più spericolato e più ricco di colpi di scena che uno possa immaginare. Coppola: Apocalypse now. Non ricordo bene l’inizio: c’erano elicotteri anche lì? Robert Altman: America oggi. Ancora elicotteri, solo elicotteri, senza Cristi appesi e senza odore di napalm. Eppure la gente, me compreso, si mette ad applaudire preventivamente, in preda a una misteriosa febbre collettiva (OK, il clima è particolare, siamo alla mostra di Venezia).
Ed eccoci a Birdman. Emozione a mille, dalla grafica iniziale fino alla fine. Sound design da sballo. La composizione armonica ed enigmatica della prima inquadratura. Devo rivedere la top ten dei miei dieci film preferiti e decidere quale cacciare fuori per farci entrare questo.
Iñárritu, ti ho sempre apprezzato, ma non credevo che saresti arrivato fino a tanto. Non credevo che il cinema avesse ancora in serbo dei balzi come questo: pensavo che tutto fosse stato già sperimentato, già fatto, già detto. Bella sensazione: la promessa che lo schermo potrà ancora riservarmi sorprese.
Che film. E che regia. Tre quarti della vicenda nello spazio asfittico di un teatro – non la Scala, ma i camerini e gli striminziti corridoi di Broadway, che sono un vero cesso e non hanno nulla a che vedere con la sontuosità delle sale. Sei lì anche tu, compresso nella claustrofobia, ma la macchina da presa non dorme mai. Instancabile e precisa. Usa il poco spazio che c’è in funzione della nevrosi del protagonista, un incommensurabile Michael Keaton. Oggetti e suoni: tutto un allarme. I corridoi: effetto all’altezza di Shining, solo che quelli avevano i tappeti rossi e questi sono neutri e sciatti fino all’abominio.
Quando si esce dal teatro, boccata d’aria. Per lo spettatore, intendo. Ma è solo ossigeno. Tregua apparente. In realtà l’inquietudine si espande open air, come un gas velenoso. Intanto intravedi la fonte sonora di quelle percussioni che ti stanno ammaliando e turbando fin dall’inizio. Uno street drummer. Keaton che esce da un posto per infilarsi in un altro. Un bar. Keaton che rimane tagliato fuori dal teatro per un banale accidente con la “porta allarmata”, ed è costretto a fare il giro dell’isolato in mutande, passando per Times Square. Quel tipo di scene che Sadoul elencava nella sintesi dei capolavori di un tempo, per dire della loro novità, genialità ed efficacia.
Birdman è un fuoco pirotecnico di scoppi intelligenti, spettacolari, divertenti e amarissimi. Un grande sfogo sul teatro, sul cinema, sulla verità, sulla finzione e sulla condizione umana tout court. Un film d’arte che prende per il culo il cinema degli effetti speciali senza rinunciare a usarli, anzi sbandierandoli al momento giusto, con sublime ed esplosiva ironia. Che fa a pezzi i critici e i recensori (povero me). Che se la ride degli attori e dei loro vezzi più stravaganti, sfoggiando interpretazioni tutte in odore di Oscar.
Un grande show sull’io e contro l’io. Con metafore visive impareggiabili. Come quando Emma Stone mostra a suo padre (miserabile, dannatissimo Keaton) un intero rotolo di carta igienica dove ha disegnato milioni di trattini – la storia dell’universo – e ne strappa un rettangolino per dire che la storia dell’uomo è tutta lì.
Capolavoro di un cinema “di meditazione” e al tempo stesso visionario, Birdman è la storia di un attore insoddisfatto. Ha avuto successo con una serie di film da box office, impersonando un supereroe in tuta da fumetto e ali da uccellaccio. Ma s’imbarca, in età matura e non più volatile, in una impegnativa prova teatrale, per dimostrare al mondo e a sé stesso che ha talento da vendere. Tutto sembra cospirare contro di lui. A cominciare dai propri dubbi e dalla propria carenza di autostima.
Che fatica misurarsi con gli altri (Edward Norton, altra interpretazione superba), con sé stessi e le proprie magagne, con i fallimenti passati e presenti, con i legami sentimentali trascurati e andati a male. Iñárritu non butta in padella solo le paturnie di Hollywood, di Broadway e degli attori, ma quelle dell’intero genere umano. Siamo tutti un po’ Birdman. Tutti provvisti di ali e zavorra, e la vita non è altro che un continuo volare e precipitare, resistere e mollare.
Tratto da Dixit Café