Speciale 70° della Liberazione. «Tutti i grandi capi del fascismo seregnese se la caveranno: pagherà la manovalanza e a pretendere la benemerenza di cospiratore, resistente, partigiano, dal ventisei aprile, saranno in troppi. Seregno usciva dalla guerra, povera ma integra e nella libertà si preparava i suoi destini.»
Per gentile concessione del Circolo Culturale Seregn de la memoria che, nel 1996, ne ha curato la pubblicazione nel primo volume del libro: Seregno. Cinquant’anni tra cronaca e storia. 1945-1969.
Il 24 di aprile del ’45, verso sera, all’incrocio del Ballerini, tra via Verdi e via Stoppani, campeggiava una mitragliatrice. Il Cesare Mariani allungava ai passanti adulti un volantino del Partito Popolare e a noi ragazzi diceva : “Domani saremo liberi”.
Era la prima volta che sentivo la sua voce autorevole e robusta . L’avevo visto il Mariani, tempo addietro vicino al Consonno, diffondere la propaganda e bisbigliare ai più fidati, messaggi che non riuscivo a sentire. Ora la sua frase mi ronzava nella testa, e stentavo a capirne il senso: liberi? liberi come? e da che cosa?
Anche dopo l’otto settembre del ’43, qualche soldato lacero e carico di fame era tornato e le donne gridavano che il Duce era in galera, che c’era l’armistizio e sarebbe arrivata la libertà.
E invece altri due anni di stenti e di paure: le processioni notturne in campagna, ordinate dal lugubre suono della sirena. “E’ la terza”, gridava la Mariuccia del Rizìt, ed erano arrivati sopra di noi. Quel quindici agosto del ’43, erano più di 500 i corvi neri che fendevano la notte chiara e bellissima . La squadriglia guida, i Pathfinder, lanciava il suo carico di bengala e illuminava a giorno la zona di Milano da bombardare, poi spariva nella luce abbagliante e i quadrimotori vomitavano su una città atterrita fragori e boati di morte.
“Libera nos a malo”, implorava mia nonna, e di tutto il latinorum delle Divozioni e dei Pater, solo quella invocazione si scolpiva nella mia mente: domani saremo liberi, diceva il Paulin Balabi; “ Libera nos a malo” pregava mia nonna; chi avrebbe alleviato in noi il peso dei ricordi? Erano liberi i ragazzi del mio rione di togliersi pensieri duri come pietre? Mi soffocava il mugolare quasi umano del cane del cesarino, la notte davanti al suo padroncino che moriva straziato da una bomba a mano. Mi umiliava l’abbandono della scuola l’inverno prima, quando il direttore aveva detto agli scolari: legna e carbone non ci sono, sarà un inverno di gelo, forse torneranno i bombardamenti, chi vuole stia a casa.
Facevo il garzone imbianchino dal Gino Cumarina; quaranta lire la settimana, la mia famiglia era povera, quei soldi servivano ed io non ero libero di completare la scuola elementare.
La mattina del venticinque aprile i ragazzi erano alla cascina del Biroll: era nato un cavallino, magro, bagnato e tremante, ma si reggeva già in piedi su gambe esili come le canne di bambù che servivano a fare le tavole dei bachi da seta.
In Comune, una delegazione del comitato di liberazione aveva imposto al commissario Attilio Molteni il passaggio delle consegne.
Sangue doveva correne ancora per le strade di Seregno.
Dai tetti della G.I.L. (dove oggi sono i giardinetti del Largo degli Alpini) un cecchino fascista colpirà a morte Rodolfo Tagliabue che sarà vendicato dal fratello Carlo, Luigi Mazza sarà ferito verso il Ceredo e alle cinque della sera un giovane tedesco biondo sarà arrestato in Corso Littorio ad un posto di blocco. Terrorizzato, il ragazzo si toglieva la vita addentando una bomba a mano.
“Libera nos a malo”: la violenza era ancora tra noi. Tutti i grandi capi del fascismo seregnese se la caveranno: pagherà la manovalanza e a pretendere la benemerenza di cospiratore, resistente, partigiano, dal ventisei aprile, saranno in troppi. Seregno usciva dalla guerra, povera ma integra e nella libertà si preparava i suoi destini.
Le elezioni del due giugno 1946, per la prima volta in Italia chiamavano le donne al voto.
Il governo della nazione era unitario e il clima anche a Seregno era di competizione, non di scontro.
Io curiosavo ai seggi delle scuole Mercalli e le donne arrivavano impettite, con la permanente in ordine, ma sotto sotto temevano di sbagliare. La Rosa di Rizìt guardava sbigottita le due cabine, intimorita come davanti a un doppio confessionale; poi mi si accostò tremula: “ Pierino, ti ch’a ta s’èt inteligent, fàm sègn: qualé la gabina per vutà dimucrazia cristiana?”.
Il clima di scontro e di botte riemerse alle elezioni del 18 aprile del 1948.
Paolotti e comunisti se le davano di santa ragione e io volevo capire, avevo la politica nel sangue: chi aveva ragione? Il Cesare Mariani, della Democrazia Cristiana, diceva che era una scelta definitiva, o con Cristo o contro Cristo. Il Giuanin Barbè mentre mi rapava a zero, gridava : “Bisogna fare come in Russia”, “Chi non lavora non mangia” e i preti devono stare al loro posto, in sacrestia.
C’era un comizio del socialista Malagugini in Piazza del Monumento e la folla era strabocchevole: ero sulle spalle robuste di mio zio Felice a metà di via Leonardo da Vinci: non sentivo una parola ma assaporavo un entusiasmo senza freni per il Fronte Popolare. Mio zio Felice diceva: “Vince il popolo, vinciamo noi.”
Ma la DC e la forza cattolica erano enormi a Seregno.
Grande fu l’impatto emotivo della Madonna Pellegrina: processioni immense con folle oranti e plaudenti.
Vi era una mescolanza di paure vere e di timori irragionevoli nelle masse democristiane: era vero che i preti erano perseguitati in Russia ed era vero che i partigiani nascondevano le armi. Era propaganda falsa sostenere che i cosacchi si apprestavano a rifare la marcia su Roma e non era vero che i capi social- comunisti preparavano la rivoluzione.
Una sera, ancora sulle gloriose spalle di mio zio Felice, assistemmo al passaggio della Madonna Pellegrina: luminarie, candele e canti avvolgevano la strada verso Santa Valeria.
Devozione vera e paura si sovrapponevano. “E’ un’armata pacifica e invincibile”, disse mio zio Felice, “vinceranno loro”.
Così fu: il successo della Democrazia Cristiana fu straripante. Al balcone del Comune, il sindaco Giovanni Colombo salutava la folla plaudente: per altri 44 anni Seregno avrebbe avuto un sindaco democristiano.
L’autore, Pierino Romanò scomparso nel 2011, apparteneva a quella generazione di brianzoli che molto hanno realizzato per la collettività con l’impegno e la passione di una intera vita. Nato a Seregno nel 1934, in anni e in un ambiente in cui anche i ragazzi più dotati e amanti dello studio andavano a lavorare appena finita la scuola elementare, da autodidatta seppe diventare responsabile di reparto, sindacalista, e collaboratore del Centro Studi Riccardo Lombardi. Appassionato di memorie della sua città e della sua gente, le raccontava in pagine affettuose e ironiche, in una bella prosa fiorita di espressioni dialettali, che restituiva efficacemente il gusto di quella umanità autentica che era soprattutto la sua personale cifra.
Molti fra questi racconti vennero raccolti nel 1989 nella pubblicazione “Seregn de la memoria”: nello stesso anno, per sua iniziativa, in collaborazione con Paolo Leveni e Roberto Galliani, fonda il Circolo Culturale a cui quel libro dà il nome e che continua da allora la sua costante opera di custodia dei ricordi condivisi dalla collettività cittadina: immagini, eventi, storie, cultura prodotta e diffusa attraverso piccole e grandi pubblicazioni. Artisti, poeti, storici, fotografi con il dono delle loro opere, enti pubblici e privati con il loro contributo economico, i soci con la loro partecipazione e collaborazione attiva mantengono in vita un progetto che coniuga cultura e solidarietà devolvendo ogni anno i proventi delle vendite dei volumi pubblicati ad altre associazioni impegnate nel sociale. Una formula originale ed efficace, una delle migliori espressioni della “brianzolità”. L’ispirazione laica e antifascista è legata all’impronta ideale lasciata dai fondatori.