20150521 briefing 

Un grande maestro della pubblicità spiega cos'è e come funziona il briefing, come arriva dall'azienda all'agenzia passando dal planner fino al creativo

 

Tratto da La comunicazione d’azienda a cura di Umberto Collesei e Vittorio Ravà, Isedi, Torino 2004.

 

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L’ambientalismo è uno dei temi ricorrenti nella pubblicità contemporanea. «La natura. Amala finché dura. Vai su www.diesel.com e iscriviti alla Società Diesel amanti della natura.» Agenzia Kesselskramer di Amsterdam.

 

I. Cos’è un briefing.

In inglese i termini brief (aggettivo e sostantivo), to brief (verbo) e briefing (sostantivo ricavato dal gerundio del verbo to brief) provengono tutti dal latino brevis (= breve) e hanno tutti a che fare con la brevità, la velocità e la sintesi. Alla voce brief, il Webster’s International Dictionary fa corrispondere, tra altre, le seguenti definizioni: «Lettera o mandato formale o ufficiale», «Breve documento scritto», «La versione abbreviata, la sinossi, il sommario (p. es. di un testo scolastico)», «Un canovaccio formale di temi logicamente intercorrelati, i cui principali contenuti sono supportati da dichiarazioni e prove». Alla voce verbale to brief, una delle definizioni è: «Fornire istruzioni precise, informative e definitive a qualcuno (prima che i partecipanti comincino una missione o un’azione)». Quanto a briefing, si tratta delle «istruzioni o informazioni fornite».

Basta dunque la parola a delimitare con chiarezza il campo descrittivo, la natura dei contenuti, lo stile della procedura e la funzione specifica di un briefing. Alla pratica del briefing si associano, come si è letto nel Webster’s, i concetti di brevità e sintesi, di ufficialità, di documento scritto, di temi logicamente intercorrelati, di dichiarazioni motivate, di istruzioni, di precisione, di informazione; e il tutto prelude a una “missione” o “azione”.

In un progetto di comunicazione commerciale, il creative briefing non è l’unica forma di briefing circolante fra il committente e il team incaricato della “missione”. È solo l’ultima in ordine di tempo, e precede immediatamente l’azione, cioè lo sviluppo creativo della comunicazione (qualunque essa sia: annuncio occasionale, campagna, progetto di corporate identity, promozione, remake di un imballaggio, materiali da esposizione, stand fieristico, operazione di direct marketing, progettazione di un website, ecc.)

Il creative briefing, idealmente elaborato da uno strategic planner a tempo pieno o da altre figure professionali in grado di esercitarne la funzione, è il documento che formalizza e sintetizza i risultati di una serie più o meno fitta di ricognizioni e scambi di informazioni e di idee. Se il briefing iniziale (quello trasferito dal committente all’agenzia o ad altri consulenti) consiste prevalentemente nell’indicazione degli obiettivi che si intendono raggiungere, ed è debitamente accompagnato da informazioni e documenti di natura e di mole assai variabile, il briefing finale deriva di solito da una elaborazione razionale e approfondita dei problemi e delle opportunità e contiene precise istruzioni strategiche.

 

II. Dal committente all’agenzia.

Fase uno di qualsiasi[1] programma di comunicazione: il committente incarica qualcuno (poniamo: un’agenzia di pubblicità) di elaborare un determinato progetto. Racconta o ricorda agli interlocutori (account e/o altri specialisti dell’agenzia) tutto ciò che è noto sul prodotto o il servizio da pubblicizzare. Commenta e fornisce, se ne è in possesso, dati, informazioni e documenti utili alla migliore conoscenza del problema, ivi compresi i risultati di eventuali ricerche di mercato, ricerche motivazionali, rilevazioni occasionali o periodiche, studi sul consumatore, analisi sulla concorrenza, precedenti esperienze di comunicazione eventualmente ignorate dall’agenzia, ecc. Se la marca è già attiva, ne dichiara, commenta e discute il posizionamento attuale e indica gli eventuali spostamenti desiderati. Tutto ciò in funzione del briefing vero e proprio: quali obiettivi raggiungere; con quale posizionamento (se si ha già un’idea chiara in proposito); con quali eventuali istruzioni secondarie ma al tempo stesso obbligatorie (i cosiddetti must o constraint o mandatories, a seconda della terminologia in uso nell’azienda e/o nell’agenzia).

Talvolta – specie nei casi di lunga collaborazione tra gli stessi individui, sulla medesima marca e il medesimo prodotto o servizio – le informazioni, le problematiche e le opinioni sono già talmente note e condivise che il briefing del cliente può già considerarsi semidefinitivo o addirittura definitivo. Più spesso, la materia – voluminosa e rapsodica – di questo primo passaggio prelude a indagini ed elaborazioni ulteriori a cura del workteam d’agenzia. Account e direttore creativo, meglio se affiancati da uno strategic planner, e con la partecipazione – ove sia opportuna in questa fase – di altre funzioni (p. es. il direttore media), analizzano e interpretano il briefing e i supporti ricevuti, si aggiornano sul mercato in questione e sulle azioni dei principali concorrenti della marca, formulano delle prime ipotesi strategiche; se necessario riconsultano il cliente per ulteriori scambi d’idee prima di presentargli e discutere con lui un’ipotesi di “strategia di comunicazione”. Strategia che, se approvata, costituisce il nucleo fondamentale del creative briefing.

 

III. Dal planner al team creativo.

Detto in modo banale, il creative briefing è la sintesi ideale di tutto ciò che il team creativo deve sapere per affrontare correttamente il lavoro. Al team creativo si possono e si devono dire, naturalmente, molte cose in più di quelle indicate nel briefing (sarebbe assurdo, per esempio, che non fossero preventivamente documentati sulle campagne dei concorrenti della marca, o su eventuali ricerche significative e disponibili); ma è ciò che è scritto in quel documento la traccia che deve orientarli nella propria “missione”. Evadere da quella traccia è sbagliato nel 99% dei casi, geniale nel rimanente 1%.

Il creative briefing dovrà rispondere, in forma sintetica (brief = brevis) ma rigorosamente precisa, alle seguenti domande:

  1. Qual è l’essential equity della marca e/o del prodotto?
  2. Cos’è essenziale sapere del mercato di riferimento e/o del brand?
  3. In futuro, cosa potrà influenzare lo scenario?
  4. Quali sono, oggi, i punti di forza e di debolezza del brand?
  5. Qual è il contesto competitivo?
  6. Con chi deve davvero competere la marca per raggiungere (o confermare) una forma di leadership?
  7. A chi parliamo?
  8. Qual è il messaggio-chiave della comunicazione?
  9. Perché dovrebbero crederci?
  10. Quale stile, quale tono di voce conviene adottare?

 

Alcuni di questi punti – specificamente quelli contrassegnati dai numeri 1, 7, 8, 9 e 10 – costituiscono la “strategia di comunicazione” vera e propria; gli altri sono importanti ma accessori, nel senso che servono solo a far comprendere meglio i motivi per cui si è arrivati a “quella” strategia e non ad altre.

Prima di analizzare nel dettaglio, e corredare con esempi, il senso delle dieci domande, tentiamo di cogliere il nocciolo della questione e di definire meglio cosa si intende comunemente per “strategia di comunicazione”.[2] Si tratta, in sintesi, di un programma di intenzioni e d’azione volto al raggiungimento di un obiettivo: far sì che il pubblico al quale ci rivolgiamo (target group) percepisca in modo corretto ciò che abbiamo ritenuto utile comunicargli (brand positioning, brand message, brand vision), colga un vantaggio (benefit) nell’aderire alla nostra offerta o proposta e risulti convinto non solo da adeguate motivazioni (reason why), ma anche dal tono di voce e dallo stile con cui abbiamo acceso il suo interesse (tone & manner).

È evidente che la costruzione di un simile programma, basato in parte su dati di fatto e in parte su congetture, serve a rendere competitiva la marca in un mondo che di marche è affollato. Una strategia logica, incisiva e brillante consente alla marca X di emergere con caratteristiche proprie (brand personality) e di occupare un preciso e specifico spazio (positioning) nell’immaginario di chi ne riceve il messaggio, rendendosi in tal modo unica ed esclusiva nonostante la proliferazione di prodotti e servizi aventi la stessa funzione.

Il processo di elaborazione di una strategia è tanto più complesso e faticoso quanto più il mercato di riferimento è affollato di marche. Più ampia è l’offerta di mercato, più è difficile la caratterizzazione di una singola marca che, per sopravvivere, deve competere con tutte le altre. A meno che – caso sempre più raro – la marca non si distingua vistosamente da tutte le altre per una funzione non solo esclusiva, ma anche rilevante: come nel caso della Polaroid, che per molti anni fu l’unica macchina fotografica capace di produrre foto immediate: dallo scatto alla stampa in soli 60 secondi, senza i soliti lunghi passaggi (doppia visita al laboratorio per consegnare il rullino e prelevare le stampe), senza attese snervanti, e con la magia di vedere affiorare sulla carta, nelle tue mani, l’immagine appena concepita. Quello della Polaroid, e di prodotti altrettanto unici ed esclusivi nella propria prestazione, era l’USP ideale teorizzato da Reeves.[3]

La sfida di Reeves a chi si occupi di elaborazione strategica è, sostanzialmente, quella di rintracciare un USP anche laddove non si vede. La caccia all’USP, cioè al vantaggio competitivo senza il quale una marca non ha prospettive di sviluppo, richiede nella maggior parte dei casi un lavoro di investigazione molto intenso, che necessita spesso – a sua volta – di ricerche, sondaggi, studi sulle dinamiche di mercato e sulla sociologia dei consumi.

Il vantaggio competitivo è talvolta reale (come nel caso Polaroid), più spesso sfuggente. La sua natura è variabile: concreta e fattuale (es.: “solo il nostro trapano fa buchi nel muro senza provocare incidenti nel caso si imbattesse in un cavo elettrico”), oppure emotiva (es.: “il nostro sapone protegge così bene la bellezza della pelle che lo hanno scelto nove dive del cinema su dieci”). Una buona elaborazione strategica sa tener conto di quella materia impalpabile di cui sono fatti i sentimenti e le emozioni, anche quando il vantaggio è concreto e fattuale. Nell’esempio del trapano, la razionalità dell’USP – buchi senza incidenti – funge da convincente corredo motivante (reason why) a una promessa di sicurezza, rispondendo così a un bisogno psicologico e non solo meramente meccanico. Persino nel caso Polaroid, sebbene l’USP fosse talmente evidente da potersi spiegare e rendere interessante con semplici comunicati d’informazione, era stato necessario insistere sugli aspetti più emotivi della prestazione: scatta e vedi dopo pochi secondi il sorriso del tuo bambino…

Fatte queste premesse, possiamo tornare alle domande di partenza.

 

IV. Qual è l’essential equity della marca e/o del prodotto?

Era la prima delle nostre domande, e la sua formulazione alquanto misteriosa ci dà l’opportunità di una piccola digressione sulla terminologia in uso nel marketing e nella comunicazione commerciale. Terminologia che, già di per sé, costituisce un problema. Il problema dipende dal fatto che tale terminologia non è univoca e costante, ma mutevole in funzione del luogo e dei tempi. Mentre buona parte del nostro vocabolario di riferimento rimane più o meno stabile ed è piuttosto semplice da decodificare (es.: consumer benefit = beneficio o vantaggio per il consumatore), altre espressioni verbali si inseriscono continuamente nel gergo, talvolta per enunciare nuovi concetti, più spesso per sostituirne altri ritenuti, a torto o a ragione, obsoleti. Il motivo di questa incessante fabbrica di linguaggi e di metafore risiede nel fatto che molte aziende e soprattutto molte agenzie, specie le internazionali, tendono a differenziare e a personalizzare il proprio lessico, con l’obiettivo di far apparire originali ed esclusivi i propri metodi professionali. L’invenzione verbale fa dunque parte, a sua volta, di una strategia di comunicazione atta a dimostrare l’unicità del metodo operativo di un’azienda o di un’agenzia. Il risultato – quello di diffondere l’idea di esclusività metodologica – è a volte raggiunto, ma non dura a lungo: presto molte delle nuove espressioni così introdotte circolano nell’ambiente, diventano di uso comune e nessuno ne ricorda più la provenienza.

L’inflazione di formule verbali nel gergo professionale genera il rischio di causare equivoci e incomprensioni tra interlocutori che non hanno un vocabolario comune. È opportuno quindi concentrarsi più sui significati che non sui significanti, sui concetti più che sulle formule che li esprimono. Qua e là, nel nostro capitolo, adotteremo anche noi qualche termine ambizioso o addirittura arrogante, al solo scopo di non crearvi imbarazzo quando lo ascolterete pronunciare in una situazione di lavoro.

Essential equity, per esempio, è un’acquisizione relativamente recente. Non ha nulla a che vedere con l’equitazione: piuttosto con il latino aequus e con il concetto di equità e giustizia. Ma anche questo non aiuta a capire il senso voluto nel nostro contesto. Equity (equità) è una parola che appartiene propriamente al campo della giurisprudenza innanzitutto, e per indiretta estensione al mondo finanziario, azionario e contrattualistico, attraverso una serie di elaborati passaggi che in questa sede vi risparmiamo ma che hanno a che fare con regole e discipline riportabili al concetto giuridico di “equità”.

Nel settore che ci interessa, quello del marketing e della comunicazione, equity è l’insieme dei principii che ispirano e connotano il temperamento e la corretta evoluzione di una marca. Alcuni preferiscono usare, invece di equity, frasi come brand personality (personalità della marca), altri brand vision (visione di marca) per esprimere una gamma di concetti analoghi. Al di là delle parole, è importante registrare il bisogno che le ha prodotte: quello di arricchire il concetto di positioning (posizionamento) di nuove e più profonde valenze, persino etiche e filosofiche.[4]

Facciamo un passetto indietro. Come già altrove accennato, stabilire il posizionamento di una marca equivale a “collocarla” nello spazio mentale del suo pubblico, a farla riconoscere come “la (unica) marca che fa quella cosa per me”. Risulta chiaro che individuare il giusto posizionamento di una marca equivale ad aver già fatto un gran bel lavoro. È come aver centrato il cuore della strategia, trovato il nucleo dal quale discenderanno a catena tutte le successive decisioni. Cosa c’è allora di superato nel concetto di “posizionamento”? Perché si sente il bisogno di ampliarne e approfondirne il senso, ricorrendo a formule ambiziose come l’equity o la brand vision?

La risposta è sempre la stessa: sfondare nel mercato, o mantenere le posizioni raggiunte, diventa di giorno in giorno più arduo. La competizione globale conta ogni giorno i suoi feriti e i suoi caduti, anche fra le imprese e i marchi più prestigiosi d’ogni tempo. Basta scorrere con media assiduità i titoli d’un giornale finanziario per accorgersi di quanto mutevole e precario sia diventato l’universo dell’industria e degli affari. Per le marche non esistono più né garanzie né facili certezze. Il pensiero che sorreggeva le politiche di marca nei periodi di crescita lineare, o nei momenti in cui era meno incerta la previsione dei fenomeni a venire, si rivela assai meno adeguato a fronteggiare crisi e recessioni di nuovo stampo, e un futuro che si preannuncia incerto nel migliore dei casi, o addirittura ostile.

Rispondere in modo intelligente alla domanda n. 1, “qual è la nostra equity essenziale?”, comporta un’analisi affilata del mercato e delle sue opportunità, una notevole sensibilità introspettiva (capire i mutamenti in atto nella società),  e se possibile – a certe condizioni – persino il coraggio di rovesciare luoghi comuni dati per inscalfibili.

Per meglio comprendere la differenza tra un semplice posizionamento e una più “filosofica” e completa visione di marca, facciamo un esempio pratico. Ho bisogno di arredare una stanza, ho pochi soldi e non ho alcuna intenzione di indebitarmi. La mente corre a una soluzione. “Cerco un posto dove vendano mobili decenti a buon mercato.” Mi viene in mente qualche nome, me ne faccio suggerire altri dagli amici. Mi metto al volante e batto tutti i negozi e le showroom della Brianza, se è quella l’area in cui risiedo. Oppure non ho tempo da perdere e decido di concentrarmi su non più di due destinazioni, ricordandomi di qualche spot sulla TV locale, o di qualche campagna radiofonica, o di un cartellone stradale. “Il posto dove si vendono mobili decenti al prezzo più basso” è probabilmente un buon posizionamento, se a esprimerlo è una marca sola e non una pletora di marche.

 

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IKEA risolve problemi di spazio e problemi estetici: «La bellezza sta dentro.» Agenzia Jung von Matt Alster, Amburgo. Direttori creativi Fabian Frese e Goetz Ulmer. Autori Till Monshausen, Paul Pfau, Jo Marie Farwick, Tobias Grimm. Fotografia: Wrongside Pictures. 2007.

 

Se appartengo al target group individuato dalla IKEA, non potrò fare a meno di fare un salto nel suo punto vendita più vicino, anche se “più vicino” può voler dire, per me, 20 o 30 km. Perché? Perché quello di IKEA è qualcosa di più che un semplice posizionamento. È una brand vision. IKEA è riuscita a convincere milioni di persone, in diversi paesi, che i suoi prodotti hanno il miglior rapporto qualità-prezzo in assoluto. Che sono soluzioni intelligenti per sfruttare al meglio, e nel modo più decoroso, anche gli spazi più angusti di un ambiente. Che buona parte del risparmio non deriva dalla povertà dei materiali o del design, ma dal fatto che te li puoi portare a casa e montare da solo; e subito.

Dicevamo che i concetti di equity e di vision implicano connotazioni assai più ricche, persino sul piano etico e filosofico (o, se vogliamo evitare paroloni, sul piano sociale), di quelle sufficienti a denotare un puro posizionamento inteso in senso tradizionale. Il caso IKEA (unico nel suo settore merceologico, ma si possono citare esempi analoghi – sebbene infrequenti – in altri settori) ha definitivamente fatto piazza pulita di un vecchio cliché secondo il quale i simboli di status debbano essere per forza costosi. IKEA, come Nike o Swatch, è alla portata di tutte le tasche ma attrae più la middle class che i ceti popolari: frequentare i suoi magazzini fa chic, tanto da impensierire un poco l’anima democratica e interclassista dell’azienda.

La promessa di value for money, nella visione di marca dell’IKEA, non si esaurisce nel suo significato più mercantile. Comprende un caleidoscopio di valenze più nobili e inconsuete, allusioni a stili di vita che non discriminano nessuno[5] e segnali etici raccolti con simpatia dal suo pubblico:

  • Economizzare con intelligenza è una forma di creatività;
  • Il fai-da-te (trasportare e montare personalmente i mobili acquistati) denota intraprendenza, apertura mentale e savoir faire;
  • Non siamo solo fornitori di arredi, ma solutori di problemi;
  • I nostri prodotti suggeriscono idee brillanti per sfruttare con decoro anche gli spazi più esigui;
  • Tanti sono capaci di tirare al ribasso, qualcuno magari affibbiandoti merce scadente; noi vogliamo invece renderti felice e orgoglioso della scelta;
  • Risparmiare in genere è una necessità tetra e malinconica; da noi è un divertimento;
  • Prezzi stracciati non vuol dire necessariamente cattivo gusto; i nostri mobili e i nostri accessori possono fare bella figura ovunque;
  • Veniamo da un paese spartano, libero e democratico, la Svezia, che se ne infischia di orpelli e apparenze e predilige la schiettezza, la solidità, la razionalità e l’efficienza.

 

V. Cos’è essenziale sapere del mercato di riferimento e/o del brand?

Rispondere a questa domanda è relativamente più facile che a quella precedente, specialmente se si dispone di ricerche effettuate di recente. Si tratta di selezionare le informazioni (i fatti) più utili al lavoro da compiere:

  • Di quale prodotto stiamo parlando?
  • Come è fatto?
  • Come si usa abitualmente?
  • Come altrimenti si potrebbe usare?
  • Cos’è che lo rende intrinsecamente differente?
  • Quali bisogni pensiamo che soddisfi?
  • Qual è la sua quota di mercato?
  • Le vendite sono in crescita o in calo? Perché?
  • Ha già un posizionamento? Esistono i presupposti per mantenerlo?

E via di seguito. Sebbene su una marca si possano formulare mille domande e ottenere mille risposte, è opportuno selezionare e limitare il loro numero nel creative briefing, per evitare di lanciare troppe esche e generare disorientamento e dispersione.

Il planner o chi per lui avrà cura di riportare nel creative briefing solo gli argomenti che giudica essenziali. È pessima idea rovesciare sul tavolo dei creativi interi dossier di dati Nielsen; isolarne uno o due, talmente significanti da poter orientare in modo meditato la strategia e la creatività, è di gran lunga più efficace.

 

VI. In futuro, cosa potrà influenzare lo scenario?

Ecco la classica domanda da un milione di dollari. Talmente importante, e talmente difficile, da intimidire – in certi settori – anche l’analista più avveduto. Si è letto sui giornali, all’inizio dell’autunno 2003, che la Playstation 2 ha avuto un successo così strabiliante da saturare il mercato: ha sbaragliato la concorrenza, è entrata in 50 milioni di case in tutto il mondo e ha ormai dato tutto quello che poteva dare.[6] I giochi elettronici costituiscono il 12,5% del business della Sony e sono stati, negli ultimi anni, la voce più redditizia fra le specialità della casa giapponese. Interrogarsi sugli scenari del futuro, anche del futuro più immediato, è dunque esercizio vitale per la salute e la sopravvivenza delle marche, considerando che persino il successo – seppure strepitoso – può diventare l’anticamera di un problema.[7]

All’interrogativo sugli scenari di domani si possono solo tentare risposte fiaccate dal virus dell’ipotesi e della congettura, partendo dagli indizi disponibili o procurandosene altri con l’aiuto di ricerche sui macrofenomeni, sul mercato, sull’andamento dei consumi, sugli spostamenti del comportamento individuale e sociale. Si cerca insomma di individuare, tra non poche incognite derivanti da situazioni nazionali o globali sempre più agitate, tendenze, sintomi e avvisaglie, e di ipotizzare il genere di ripercussioni che potrebbero avere sulla marca di cui ci stiamo occupando.

Si danno naturalmente anche casi meno misteriosi sul piano della previsione. Negli anni ottanta, per esempio, l’introduzione della legge che rendeva obbligatorio l’uso del casco anche sui ciclomotori e gli scooter di bassa cilindrata, essendo stata annunciata con un certo anticipo, apriva prospettive chiare, precise, inequivocabili – di buon auspicio per i produttori di caschi, allarmanti – almeno a breve termine – per l’industria dei ciclomotori e degli scooter. Le prime leggi antifumo, che misero al bando in molti paesi la pubblicità alle sigarette, non piovvero giù dal cielo all’improvviso; le aziende più previdenti ebbero tempo e modo di inventarsi strategie alternative.

Chi produce superalcolici sa che i consumi in Italia sono da anni in calo, talvolta vertiginoso, in quasi tutti i segmenti della categoria, a causa di un drastico rinnovamento degli stili di vita riferiti al benessere. Dal momento che non esistono, o che non sono al momento visibili, le condizioni per una imminente risalita di questi consumi, lo scenario per le imprese del settore continua ad essere – generalmente parlando – piuttosto scoraggiante. L’analisi tuttavia dei pochi segmenti di successo (p. es. la curiosa riscoperta e ascesa del cosiddetto “limoncello”), o di talune marche in controtendenza seppure appartenenti a comparti in difficoltà, può generare osservazioni utili alla diversificazione (il lancio di nuovi prodotti a minor tasso alcolico), al riposizionamento (spostando il prodotto su un target diverso da quello tradizionale, o indicando modalità di consumo innovative), o addirittura all’abbandono della pubblicità sui mass media e alla sua sostituzione con campagne di relazioni pubbliche (iniziative di interesse sociale o culturale che facciano un po’ “perdonare” gli aspetti problematici dell’alcool).

Ci sono scenari che influenzano molteplici settori merceologici, altri che incidono su un numero circoscritto di categorie. Abbiamo accennato al fumo e all’alcool in quanto consumi direttamente influenzati da una diversa coscienza (e da una diversa politica) della salute e del benessere diffusasi, in modo progressivo, solo negli ultimi vent’anni. La revisione del rapporto col proprio organismo è stato, ed è, un macrofenomeno sociale che ha interessato e continua a interessare non solo i settori sui quali si addensano le accuse più gravi (quelli, appunto come il fumo e l’alcool, legati a piaceri semiproibiti), ma l’intero comparto alimentare (favorendo l’ascesa di certi consumi e la discesa di altri: si pensi al revival della dieta mediterranea), quello delle bevande poco alcoliche o analcoliche (generalmente avvantaggiate dalla crisi dei superalcolici), il mercato della fitness (dall’abbigliamento sportivo alle palestre, dagli integratori alimentari agli attrezzi da ginnastica), i prodotti della bioagricoltura, l’agriturismo, la medicina alternativa, i preservativi, l’industria dei prodotti per la cura e l’igiene della persona, e insomma tutto ciò che abbia a che fare – anche indirettamente – con la salute, la forma fisica, l’ecologia, la difesa e la protezione del corpo.

La recessione economica è, per dimensioni e impatto, un fenomeno ancora più “macro” di quello appena ricordato. Qui l’equazione è facile: meno soldi in tasca = meno consumi. Il che non vuol dire, semplicisticamente, che tutti i comparti e tutte le marche si troveranno a disagio. Sopravvivono meglio le marche che, pur operanti in un mercato o segmento duramente colpito dalla crisi, riescono a farsi largo fra i concorrenti con efficaci politiche basate sul value for money. Né si può escludere che altre imprese, ancora più accorte e lungimiranti, riescano a escogitare strategie tali da spostare la spesa del consumatore da tutt’altro mercato al proprio – come dev’essere accaduto durante il periodo di maggior allarme per la mucca pazza, quando molti hanno abbandonato la bistecca per passare alle carni bianche, al pesce surgelato o inscatolato, ai legumi e a chissà quali e quante ulteriori fonti alternative di sostentamento.

Se spingiamo il naso più in là, ci avvediamo che il futuro è un gran punto interrogativo. Che impatto avrà l’aggravarsi della crisi del petrolio sull’industria dell’automobile e su tutti gli altri settori che dipendono da quella fonte d’energia? Come dovrà reagire l’industria della surgelazione se i blackout già sperimentati negli Stati Uniti e in Italia dovessero ripetersi con frequenza allarmante? Come dovranno muoversi le majors dell’establishment tecnologico aggredite da concorrenti più piccoli, ma agguerriti e dinamici? Che succederà alle global brands se il movimento che le contesta montasse a dismisura, fino a rendere indispensabile un drastico cambio di rotta nelle policy aziendali? Cosa dovrà inventarsi un McDonald’s per evitare nuovi sassi contro le sue vetrine?

Non esistono strategic planner in grado di rispondere a tutto questo. Ma esistono imprese più sensibili di altre ai cambiamenti, e più lungimiranti della media. Collaborando con imprese di questa specie, un’agenzia seria può fare – persino in un quadro per molti versi inquietante come l’attuale – ancora un buon lavoro.

 

VII. Quali sono, oggi, i punti di forza e di debolezza del brand?

Eccoci al momento diagnostico. Una fedele e onesta disamina delle virtù della marca, ma anche – se non soprattutto – dei suoi possibili malesseri, presenti o solo temuti, intrinseci o indotti dall’esterno, sarà di notevole aiuto a una comunicazione che voglia essere costruttiva e proficua.

Nella pratica, scopriremo di frequente che certi valori di marca possono rivelarsi ambigui, e quindi collocarsi sia nell’elenco dei “buoni” (i punti di forza) sia nell’elenco dei “cattivi” (i punti di debolezza). Supponiamo di avere tra le mani un prodotto di illustre e riconosciuta tradizione storica – un’enciclopedia della Treccani, un amaro del Risorgimento, una poltrona Vanity Fair, quello che volete. È ovvio che l’aura aristocratica e talvolta leggendaria che circonda una marca “storica” è da annoverare tra i suoi punti di forza; ma quanta fedeltà riserva ancora la società contemporanea al rispetto della memoria e del passato? Come la mettiamo con il culto, a volte motivato ma spesso provinciale e acritico, verso il “nuovo che avanza”? Quanto pesa, se pesa, il fascino del vintage nella scala valori d’un cittadino di oggi? In quali settori la tradizione rende, in quali altri è un ostacolo? Chi può dirsi “sempre giovane”, chi irrimediabilmente invecchiato? E cosa può fare la nostra comunicazione per correggere impressioni e pregiudizi?

Persino le assolute leadership di mercato possono ritorcersi contro la marca. Abbiamo menzionato altrove il caso della Playstation 2. Punto di forza: the best. Punto di debolezza: the best. In quale direzione dovrà incamminarsi la Sony per recuperare le paventate flessioni di vendite? La situazione dei grandi leader è spesso più attaccabile di quanto non sembri, specialmente se hanno raggiunto quote di mercato talmente elevate da non giustificare ragionevoli speranze di crescita ulteriore. In qualche caso basta persino una piccola marca me-too a erodere quello 0,1% di market share che darà filo da torcere al gigante, proprio perché è il gigante a detenere il parco più abbondante di adepti dal quale attingere. Nel remoto 1915 Theodore F. MacManus, fondatore dell’omonima agenzia, scrisse su questo argomento un memorabile annuncio per la Cadillac intitolato The Penalty of Leadership, «Il castigo della leadership». Vi si leggeva tra l’altro: «Chi è primo viene aggredito perché è primo, e lo sforzo di eguagliarlo è solo una prova in più di questo primato. Gli inseguitori cercano di deprezzare e distruggere ciò che non riescono a eguagliare o superare – ma non fanno che confermare la superiorità di colui che si sforzano di soppiantare. In questo non c’è nulla di nuovo. […] Colui che è abile o grande si fa riconoscere, non importa quanto sia forte il clamore delle negazioni. Colui che merita di vivere, vive.» Bene, MacManus era pagato per difendere la superiorità del leader e per questo tratta a pesci in faccia gli inseguitori, che non sono necessariamente né dei criminali né delle mezze calzette. Ma c’è molta verità ancora attuale sia nell’assunto (la leadership mostra sempre il fianco agli attacchi), sia nella proverbiale frase finale (“Colui che merita di vivere, vive”), un solenne riconoscimento al merito delle aziende che aprono nuove piste senza imitare pedissequamente nessuno, che si impegnano con intelligenza e creatività nel proprio ramo, e che sanno rivolgersi al prossimo con una comunicazione dignitosa, rilevante ed efficace.

 

VIII. Qual è il contesto competitivo?

Per rispondere con esattezza a questa domanda non basta elencare i diretti concorrenti della marca. Fin là ci può arrivare chiunque. Né è sufficiente passare in rassegna la pubblicità dei competitors per desumerne i rispettivi e reali posizionamenti sul mercato. Tutt’al più, quella pubblicità (o quella promozione) potrà svelarci il loro posizionamento desiderato; ma non prova che il tentativo compiuto abbia effettivamente modificato l’opinione o i sentimenti del target nei confronti di questa o quella marca.

Il vero contesto competitivo va desunto da nozioni più precise sulla dinamica delle marche operanti nel settore: p. es. “La marca X ha visto crescere negli ultimi due anni la propria quota dopo aver lanciato una nuova formulazione a base di miele e vitamine; le marche più penalizzate sono state Y e Z, l’una perché il target tende ad abbandonare i prodotti ritenuti troppo grassi e l’altra per aver ridotto gli investimenti in comunicazione al di sotto della media di settore. Noi ci siamo difesi con una promozione di successo, ma consideriamo rischioso proseguire in una politica di taglio-prezzo.”

Ma il contesto competitivo è sempre e soltanto l’area merceologica di appartenenza? Se ho puntato tutto sui piatti pronti, e se fra le mie sette ricette quella ampiamente preferita dagli italiani era l’involtino di manzo al ragù, come me la cavo con la crisi della mucca pazza e con il tonno Tonton, che ha creato quel maledetto battage con la campagna «Meglio un tonno intelligente che un involtino deficiente?» E, boutades a parte: dove sta scritto che il signor Rossi comprerà questa o quella fotocamera digitale con la tredicesima natalizia? E se invece decidesse di regalare a sua moglie una lavapiatti? O un gioiello? E se gli venisse in mente di acquistare due telefonini di nuova generazione, uno per la moglie e uno per l’amica, e spendere il resto in caviale e champagne?

D’accordo: non è consigliabile affrontare una tematica così oceanica e dispersiva in un creative briefing, altrimenti addio brevità. Ma chi si occupa di marketing farebbe bene a tenere gli occhi aperti non solo su quanto accade nel proprio orticello. Le dinamiche dei vari mercati sono diabolicamente interconnesse, e una moderna attitudine alla riflessione strategica dovrebbe scrutare tutto l’orizzonte anziché concentrarsi verso un solo punto cardinale. Le idee migliori nascono anche dall’osservazione di ciò che ci sembra, a prima vista, estraneo e distante. 

 

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La durata del prodotto come elemento integrante della sua immagine di culto. «Non ti abituerai mai all’idea di andare in pensione. Perché dovrebbero farlo i tuoi scarponi?» Agenzia Leagas Delaney, Londra. Direttore creativo Tim Delaney. Autori Chris Clarke e Matt Moreland.

 

 

IX. Con chi deve davvero competere la marca per raggiungere (o confermare) una forma di leadership?

Il gruppo D’Arcy, network di agenzie ora assorbito da terzi, ha elaborato anni fa uno studio piuttosto stimolante sulla costruzione dei primati di marca, partendo da una ridefinizione del concetto di “leadership”.  Leader, secondo quello studio, non è solo la marca che detiene la quota maggiore del suo mercato; ma anche la marca che riesce a collocarsi come top-of-mind in una determinata area di posizionamento. Rolex non è il leader del mercato degli orologi, ma è un top-of-mind nell’ambito della sua classe. Così la Ferrari, per citare un altro nome di culto. Ma si possono rintracciare esempi di leadership psicologica in tutte le categorie, comprese quelle del mass market. La Coca-Cola è il leader indiscusso nella categoria dei soft drink, ma in molti paesi la Pepsi è considerata alla stregua di un “leader dell’opposizione” – molto più che un semplice follower. Lo stesso dicasi, in Italia, per Infostrada, “leader dell’opposizione” rispetto a Telecom. Nike è il gigante che sappiamo, ma quando in Italia si pensa a una felpa si pensa a Champion, e se si vuole un certo tipo di tuta sportiva indossabile anche a scuola viene in mente Adidas con le sue tre strisce bianche su nero. Negli anni ottanta sono esplose cult brands come Timberland, sebbene in Italia non fossero ancora distribuite. Quanto alla Swatch, poi diventata effettivamente il n. 1 nel mercato degli orologi, è riuscita fin dagli esordi a promuoversi come marca di culto, scatenando una caccia senza precedenti ai modelli più introvabili.

 

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«Guardare l’orologio costa a Bill Gates 300 dollari al secondo. Quanto vale il tuo tempo?» Esercitazione studentesca alla Miami Ad School di San Francisco. Copywriter: Ian Going. Esempio di snob appeal applicato a una icon brand.

 

La teoria D’Arcy sulla leadership muove da queste o analoghe considerazioni per sostenere che ogni marca, di qualsiasi dimensione e settore merceologico, dovrebbe aspirare a una forma di leadership, cercando di conquistare il ruolo influente di marca-guida (e diventare così il primo nome che viene in mente) di una specifica categoria. I processi strategici e creativi dovrebbero mirare a questo scopo, anziché limitarsi all’ottenimento di un risultato soddisfacente ma non duraturo. Le marche-guida, piccole o grandi che siano, sono i trend setter dell’area che hanno saputo occupare.

Se si sposa questa premessa, e si vuole passare dall’astratto al concreto, occorre definire in modo più approfondito le possibili forme di primato di marca. L’osservazione di centinaia di casi ha portato i planner della D’Arcy a individuare quattro grandi tipologie di influenzatori: le power brands, le identity brands, le icon brands e le explorer brands.

Power brand sono le marche che si guadagnano la reputazione di “più brave a svolgere il proprio compito”. Trionfano nella funzione. Così, se penso a un detersivo che lavi più bianco, mi viene in mente Dash. Se penso a un trapano che trapana alla grande, mi viene in mente Black-&-Decker. Se penso ai tortellini industriali più buoni e dalla sfoglia più sottile, mi viene in mente Giovanni Rana. Se penso al ketchup più denso, penso a Heinz.

 

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Identificazione assoluta, anche se paradossale, fra Levi’s Jeans e chi li indossa, per il lancio di una linea (Reconstructed) che si ispira ai modelli originali della marca. Agenzia Bartle Bogle Hegarty di Singapore. Direttore creativo Todd Waldron. Autori Hoon Pin Kek e Douglas Hamilton. Fotografo Simon Harsent. Editor Dave Phung. 2007.

 

Se le power brand lavorano e comunicano soprattutto sulla funzione del prodotto, le identity brand si concentrano essenzialmente sul proprio target, promuovendosi come le marche più vicine al mondo reale delle persone. Nei prodotti e nella comunicazione della Levi’s, per esempio, si riconoscono legioni di teenager; le frange più ribelli si identificano, invece, più facilmente nei mondi spregiudicati e corrosivi proposti dalla Diesel. La già citata Pepsi è un modello di identity brand, avendo lavorato per anni sul concetto di Pepsi Generation e rappresentato con simpatia “i giovani che non amano seguire la corrente”.

Marlboro (“Come to Marlboro Country”) e Lux (“Il sapone di nove stelle su dieci”) sono invece delle tipiche icon brand. Propongono mondi in cui nessuno si riconosce, ma che fanno sognare. Anziché sul processo di identificazione, lavorano sul processo di proiezione: “Questo mondo non mi appartiene, ma vorrei esserci anch’io.” È questa un’area sovrabbondante di profumi, griffes, beni di lusso ma anche prodotti più abbordabili, accomunati dalla celebrazione simbolica e dall’esaltazione di stili di vita aspirazionali.

 

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Una interpretazione coreana di Just do it: «Allena i tuoi piedi.» Agenzia Diamond Ogilvy.

 

Quella delle explorer brand è una classe di recente generazione; la si può far risalire al lancio di Apple Macintosh (1984) ed è del tutto anomala rispetto ai modelli strategici tradizionali. Comprende le marche che coinvolgono il target in una specie di gioco interattivo, invitandolo a sperimentare (“esplorare”), in piena autonomia e libertà, spazi e opportunità senza restrizioni. I giochi elettronici come Playstation rispecchiano perfettamente questo modello di leadership; ma anche campagne come «Just do it» (Nike), «Where do you want to go today?» (Microsoft), «Think different» (Apple), «Time is what you make of it» (Swatch), i cui prodotti si mettono al servizio di un target a sua volta “creativo”.

 

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Connubio tra moda e telefonia per il Samsung Galaxy di Armani: «Parla per te.» Agenzia Y&R Brands, Milano. Direttore creativo Vicky Gitto. Autori Cristian Comand e Matteo Lazzarini. Fotografo Richard Burbridge. 2010.

 

I quattro modelli di brand leadership sommariamente descritti non costituiscono, di per sé, altrettanti posizionamenti; ma sono la base per costruirli. Taluni sono combinabili fra loro (p. es. una power brand può rappresentarsi attraverso tranches de vie in cui il pubblico possa identificarsi, e nulla esclude che una explorer brand si manifesti attraverso i segnali di una identity oppure di una icon brand. Vicendevolmente incompatibili sono invece le identity e le icon brand.

Con chi deve competere la marca per raggiungere o confermare il suo ambito di eccellenza? Un’analisi della concorrenza eseguita, oltre che con gli strumenti tradizionali, anche utilizzando la griglia dei brand leadership models, aiuta a identificare meglio i territori altrui e gli altrui punti di forza e debolezza. E a individuare eventuali territori non ancora presidiati, o occupati senza la necessaria autorevolezza.

 

X. A chi parliamo?

Siamo a una delle voci-chiave della strategia creativa: il cosiddetto target group. L’evoluzione delle indagini demoscopiche, delle analisi sui convincimenti valoriali e gli orientamenti comportamentali (famose e applicatissime le ricerche Psicografia e Sinottica dell’istituto Eurisko, le cui prime edizioni risalgono rispettivamente al 1976 e al 1986), le rilevazioni sulla sociologia dei consumi e quelle sui fruitori dei mezzi di comunicazione hanno contributo a radiografare con crescente e raffinata precisione le segmentazioni socioculturali della popolazione, assortendole in cluster il più possibile omogenei. Fino alla prima metà degli anni settanta le fasce di pubblico venivano individuate in modo più generico, meno accurato, sulla base di elementari indicatori anagrafici (sesso, età, grado d’istruzione, classe socioeconomica, residenza in grandi o piccoli centri).

Nella compilazione di un creative briefing è bene descrivere il target group – identificato attraverso i sofisticati strumenti disponibili – in modo sintetico ma “vivo”, come se si trattasse del ritratto di un vicino di casa: es. “Giovane, tra i 25 e i 34, diplomato, curioso, aperto al nuovo, fan dei Radiohead, della Golf e di internet”.

Buona norma è anche, in alcuni casi, specificare qual è il target effettivo e quale il target “di riferimento”. Gli spot della Coca-Cola mostrano teenager in continuazione, ma le mamme cinquantenni che comprano il prodotto formato-famiglia al supermercato sono una miriade. I ragazzi sono dunque il target di riferimento della pubblicità per mantenere sempre giovane l’immagine della marca, ma il target effettivo è di gran lunga più vasto.

Capita a volte di vedere annunci sui giornali apparentemente rivolti al consumatore, mentre invece il target reale (e occulto) è costituito dai canali di vendita. E certe campagne istituzionali che in apparenza si rivolgono a un pubblico indifferenziato mirano invece a influenzare la classe politica o gli investitori finanziari, magari in vista di una quotazione in borsa.

 

XIV. Qual è il messaggio-chiave della comunicazione?

Stiamo parlando del main benefit, ovvero della promessa principale della marca al proprio pubblico. Dopo lunghe e laboriose peregrinazioni mentali, il cuore della pubblicità è qui: nel promettere qualcosa a qualcuno. Qualcosa che abbia, per lui o per lei, un valore autentico, rilevante. Qualcosa che gli offra un beneficio, un vantaggio: alimentare o psicologico, funzionale o sentimentale, necessario o superfluo – ma che corrisponda a un reale bisogno, anche se talvolta latente: non a un bisogno inventato a tavolino dall’azienda o dall’agenzia.

 

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Un esempio di benefit: la sicurezza. «C’è una ragione per cui le auto vanno in discarica e le persone vanno in paradiso. Una vita umana vale più di mille automobili di lusso. O di qualsiasi altra cosa, se è per questo. Ecco il motivo per cui Volvo produce le macchine più sicure che possiate trovare in giro. Non perché ci stiano a cuore i dispositivi di sicurezza, o le auto di per sé. Ma perché ci stanno a cuore le persone.» Agenzia Euro RSCG, Chicago. Direttori creativi Steffan Postaer e Blake Ebel. Autori Simon Kao e Merrideth Kalil. Illustrazione di Giannini Imaging. Fotografia di Chris Katahara, Jupiter Images.

 

Il benefit può essere espresso in modo esplicito e verbale: «Scarpone che non fa male» (Rossignol Soft); «Dash lava più bianco che più bianco non si può.»

In modo verbale ma allusivo: «Chi Vespa mangia le mele», campagna Piaggio del ’68, agenzia Leader di Firenze, con una promessa che invita a farsi decodificare (libertà in generale? Primi approcci sessuali in campagna?)

Senza parole, ma con un’immagine attraente (alta moda, occhiali griffati, profumi, gioielli): promesse di seduzione, di eleganza, di bellezza, di promozione sociale, di successo.

Senza parole, ma con immagini che evocano da sole un racconto dal significato promettente: un nuovo modello di Mercedes parcheggiato in città, e sull’asfalto, alla sua sinistra, segni di molteplici e bruschissime frenate, lasciate da automobilisti evidentemente colti di sorpresa dal fascino irresistibile della sua linea; una sedia costosissima graffiata dal tappo a corona della Stella Artois, brutale sacrificio compiuto da chi aveva una voglia improcrastinabile della sua birra preferita ma non riusciva a trovare il cavatappi; una giacca a vento Moncler imprigionata in un lastrone di ghiaccio. 

Promesse articolate con immagini e parole: un vero foglio di carta vetrata incollata in una pagina di magazine, e il titolo: «Se è questo che prova la tua donna quando ti accarezza, prova il nuovo rasoio elettrico Sunbeam.»

 

XVI. Perché dovrebbero crederci?

La reason why – la ragion per cui – è l’informazione, o l’argomentazione, che completa la promessa per renderla (sperabilmente) credibile. Come accade per il benefit, anche questa parte del messaggio può manifestarsi in modo palese o allusivo. La si può cogliere in un titolo o in una body copy, in un’immagine o addirittura semplicemente in una firma riconosciuta e autorevole: Armani, Versace, Cartier…

 

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Reason why espressa con un paradosso visivo: «Ecco perché avete bisogno di fanali che svoltano dove svoltate voi. Škoda con fanali autoadattabili Bi-Xenon.» Agenzia Saatchi & Saatchi di Istanbul. Direttore creativo Tarkan Barlas. Autori Aytaç Ateş, Sedef Karakaş, Senem Demirayak, Emre Altundağ. Fotografo Nejat Talas. 

 

Talvolta basta la sola reason why a evocare anche la promessa. Un annuncio Volvo della Pirella Göttsche Lowe del 1995 mostra il ritratto di un bambino al mare con entrambe le braccia infilate nei cuscinetti salvagente. Titolo: «Solo la Volvo ha gli airbag laterali.» La promessa di sicurezza è lampante, anche se per eccesso di prudenza un sottotitolo precisa: «La protezione. Un’altra sicurezza Volvo.»

L’annuncio già citato e senza parole di Moncler, con il “piumino” incastrato in una morsa di ghiaccio, promette (in modo allusivo) protezione anche alle temperature più rigide; implica, senza dichiararlo, che si tratta di un capo di abbigliamento tecnico per sport d’alta montagna; e a mo’ di reason why esibisce solo il logo Moncler, marca che già gode di eccellente reputazione.

In molti casi, la reason why corrisponde o si accompagna a una supporting evidence; in altri, è sostituita o rafforzata da un endorsement. Si tratta di tre diversi tipi di “garanzia di verità”. La reason why risponde alle domande: Come? Perché? I due airbag laterali della Volvo sono il “come” e il “perché” la Volvo è più sicura. La supporting evidence sta, letteralmente, per “prova a supporto”: ti ho detto la verità e ora te lo dimostro. Gli spot della Procter & Gamble, e non solo quelli, sono normalmente interrotti a metà strada da una demo, una dimostrazione didattica, una prova scientifica, spesso nella forma di un disegno animato che, a seconda del prodotto, simula ingrandimenti di particelle, fibre tessili, molecole, pori, microrganismi, additivi speciali, ecc.: il dentifricio sbiancante AZ Ultrabrait non solo ti dà un sorriso di cui essere fiera, ma non ti graffia i denti perché contiene microparticelle sbiancanti perfettamente sferoidali, senza punte aguzze. Nella sequenza appena tracciata abbiamo una promessa comune a tutto il segmento degli sbiancanti (il sorriso bianchissimo e seducente), la promessa esclusiva e competitiva del prodotto pubblicizzato (bel sorriso sì, ma senza danneggiare i denti), la reason why (microparticelle arrotondate), la supporting evidence (ti dimostriamo che non solo è vera la promessa, ma è vera anche la reason why), il problem solving (prima di scoprire il prodotto la protagonista dello spot provava imbarazzo a sorridere in pubblico) e l’end result (ora sorride apertamente anche al potenziale corteggiatore appena conosciuto).

 

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Dimostrazione visiva (demo) delle capacità di assorbenza e resistenza di un foglio di carta asciugatutto Foxy. Agenzia Lowe Pirella, Milano. Direttore creativo Daniele Dionisi. Autori Ferdinando Galletti e Davide Pasquale. Generazione ed elaborazione dell’immagine: Carioca Studio. 2015.

 

La storia della pubblicità è piena di straordinarie campagne basate sulla demo. Un vecchio spot per l’attaccatutto Araldite mostrava in dettaglio le mani di un uomo che prima riparava con la colla il manico spezzato di un martello, poi ricomponeva un chiodo anch’esso spezzato in due, e infine conficcava il chiodo nella parete servendosi del martello.

L’endorsement è la dichiarazione, sottoscritta da un’autorità del settore, che comprova la veridicità dei contenuti di un annuncio. Con qualche licenza, si possono considerare forme di endorsement molte campagne testimonial, soprattutto quando il testimone ha effettivamente qualcosa a che fare con l’oggetto trattato.

 

XVII. Quale stile, quale tono di voce conviene adottare?

Il creative briefing vero e proprio si conclude[8] con l’indicazione del tone & manner, lo stile della comunicazione: giovanile o maturo, autorevole o scherzoso, fattuale o emozionale, ironico o serioso, etc.

Va da sé che il tono di voce deve essere adeguato alla circostanza, cioè al particolare tipo di brand vision, di target group, di promessa e di reason why che ci siamo dati. Lo stile di una comunicazione non può che essere la logica conseguenza di tutte le indicazioni precedenti.

 


 

[1] A meno che non si tratti di un’operazione suggerita proattivamente, e in via eccezionale, dall’agenzia al cliente.

[2] Il termine “strategia”, così come altri sostantivi che l’accompagnano (“obiettivo”, “target”), rimanda alla fraseologia militare: la “missione” o “azione” evocata dal Webster’s – sul campo di battaglia, così come nelle iniziative commerciali – si applica simbolicamente alla pubblicità per ricordarci che il suo scopo è sempre, direttamente o indirettamente, di natura competitiva.

[3] USP, Unique Selling Proposition: la “proposta esclusiva di vendita” auspicata da Rosser Reeves nel saggio Reality in Advertising (1961).

[4] Una definizione più precisa e aggiornata del concetto di brand equity è stata fornita nel 2014 da Bruno Schivinsky e Dariusz Dabrowski in The consumer-based brand equity inventory: scale construct and validation, Working Paper Series A, Gdansk University of Technology, Faculty of Management and Economics: «Il patrimonio di marca o valore del marchio (conosciuto anche con la locuzione inglese brand equity) è una risorsa immateriale d’impresa che si fonda sulla conoscenza di una marca da parte di un determinato mercato.» Esso può essere definito come lo stato, in un dato momento, della relazione instaurata tra una determinata offerta e una domanda. Esprime il valore della marca in condizioni di funzionamento sintetizzando la forza di una marca sul mercato di riferimento.

[5] In certi paesi IKEA è stata la prima azienda a rivolgersi esplicitamente, con la sua pubblicità, anche alle coppie omosessuali.

[6] V. articolo di Marco Panara su La Repubblica / Affari & Finanza del 3 novembre 2003.

[7] Non dimentichiamo che questo testo risale al 2004. I casi e i dati riportati si riferiscono all’epoca, e qui hanno un valore puramente funzionale all’analisi teorica dei temi di cui ci stiamo occupando (briefing, strategia di comunicazione, etc.)

[8] Se previsti, si indicano dopo il tone & manner i must o constraints o mandatories: elementi da inserire obbligatoriamente nella comunicazione, p. es. gli ingredienti di un format che non si ritenga opportuno modificare (base-line, musica, tipo di pack-shot, etc.), formule legali, inserimento di una demo, etc.

 

 Post scriptum

 

Lo scenario contemporaneo si è andato spostando sempre di più non solo verso la comunicazione one-to-one, ma anche verso nuove o rinnovate forme di intervento sull’ambiente circostante (guerrilla marketing, ambient advertising, street happening, etc.), a scapito della tradizionale pubblicità sui mezzi “classici”. In che modo, e con quali modificazioni o prospettive, il nuovo orizzonte influenza le modalità di costruzione e successo di un brand?

 

La prima risposta, a botta calda, è che l’ossatura metodologica delle strategie di comunicazione non cambia. Ciò che cambia è la quantità e la tipologia delle opzioni mediatiche, oggi decisamente più generosa che in passato e, soprattutto, più flessibile. Qualche riflessione, tuttavia, s’impone – se non altro per pesare le convinzioni di ieri sulle bilance di oggi.

Il testo precedente, quello di undici anni fa (tantissimi, ormai, se consideriamo la rapidità dei mutamenti indotti dal progresso tecnologico e dai fattori socioeconomici e geopolitici), si concludeva con l’irruzione di una nuova categoria, denominata “explorer”, tra i terreni di coltura dei possibili posizionamenti di marca. A differenza delle altre, che si concentravano sulle prestazioni di prodotto (power brands), le relazioni di prossimità col consumatore (identity brands) o con le sue aspirazioni (icon brands), questa tendeva – e tende – all’istituzione di un nuovo tipo di rapporto con il target, più aperto e democratico. La marca dal “posizionamento esplorativo” invita il suo pubblico alla partecipazione attiva: ti offre determinati strumenti (i suoi prodotti o servizi) e ti consente, ti sollecita o ti sfida a fare qualcosa. Un “fare” che non è necessariamente o soltanto “comprare”, ma “partecipare”, “stare al gioco”, “intervenire”, “piazzare un feedback personale”. Com’era auspicabile e prevedibile, il nuovo modello metodologico basato sulla comunicazione “aperta” e sulla libertà di reazione del target ha avuto ampio sviluppo in questi anni, e ne avrà sempre di più. Anche se continueranno ad esserci marche dal profilo power, identity e icon, esse si avvantaggeranno dalla commistione con le pratiche specifiche di una explorer brand.

La moltiplicazione delle opzioni e l’incremento delle opportunità creative possono costituire una tentazione irresistibile all’allestimento di azioni occasionali di formidabile impatto e al tradimento di posizionamenti concepiti per durare nel tempo. Lo stesso termine gergale di positioning fa pensare a qualcosa di statico e irremovibile, un ostacolo all’immaginazione più che trampolino di lancio della fantasia. Continuo a credere, invece, che la marca abbia tutto da guadagnare da un programma di coerenza strategica: specialmente se è molto nota, e ancora di più se opera sulla scena internazionale. Si può inventare tutto ciò che si vuole su Volvo o su Apple, a condizione di rispettarne i valori fin qui condivisi: la solidità e indistruttibilità della prima, la singolarità e innovatività dell’altra (Think different).

Fra le tante novità della web era, una delle più interessanti consiste nella revisione delle coordinate geografiche. La comunicazione virtuale se ne frega del territorio inteso come puro spazio fisico. Se da Campofelice di Roccella pubblico un video su YouTube o Vimeo posso suscitare reazioni a Seoul come a Detroit. Se piazzo una ciotola di cibo per cani sul pavimento di una piazza di Salerno, e riprendo con una telecamera il comportamento dei cani che le si avvicinano e lancio il video sul website di quella marca di pet foods, oltre che sul blog di un dog trainer e su Facebook, posso suscitare sorrisi, commenti e adesioni non solo a Salerno, ma anche in Islanda e nel Laos. Il web ha un potere di amplificazione che supera il vecchio dualismo tra local e global communication.

Le nuove strategie di marketing e comunicazione dispongono di canali e combinazioni inimmaginabili vent’anni fa. Questo fa sì che anche i concetti di advertising e public relations, una volta considerati come articolazioni autonome e separate della policy d’impresa, tendono a incrociarsi e sovrapporsi sempre di più; il che presenta, allo stesso tempo, nuove opportunità e nuovi rischi che conviene calcolare in anticipo. Soprattutto perché il pubblico, prima passivo o tutt’al più libero di scegliere fra comprare e non comprare, è diventato interlocutore e persino co-autore di chi promuove questa o quella marca. E, con i suoi commenti o addirittura con strumenti mediatici che controlla in modo diretto (blog, per esempio), può contribuire fattivamente al successo o alla demolizione degli sforzi altrui. “Target” è un’altra parola che ha perso di senso: voleva dire “bersaglio”, secondo una concezione militare e strafottente del marketing d’altri tempi; ma il target ha alzato la testa e la mira, ed è in grado di rispondere agli spari sparando a sua volta. Pensare al pubblico come a un target da colpire è diventato il più stupido dei boomerang. Il pubblico va coinvolto e invitato alle danze, non aggredito; e questa semplice verità non può che influire sulla scelta dei modi di comunicare, a partire dal tono di voce.

La comunicazione commerciale one-to-one ha aperto una serie di prospettive stimolanti allo strategic planner. Per esempio, e alla rinfusa:

  1. L’idea di rivolgersi a un gregge di “consumatori” è definitivamente obsoleta. Era già stantia nei tempi andati (nessuno vuole essere considerato “consumatore”; uno può anche “consumare”, e persino tantissimo, ma aspira ad essere riconosciuto in quanto “persona”, con un’identità che trascende gli atti di consumo). E oggi lo è ancora di più, perché il web gli dà il potere di interagire con i pastori del gregge e far sentire la propria voce.
  1. Quando si ragionava solo in funzione dei media tradizionali, e quindi dalla solitaria posizione su un pulpito, si ascriveva a questo o quel VIP il potere di influenzare le masse. Sicché si scomodavano, all’occorrenza, i cosiddetti opinion makers, che svolgevano un ruolo essenziale nelle campagne di P.R. Oggi siamo tutti opinion maker: basta darsi un po’ da fare su internet. L’opinione pubblica ha trovato il modo di formarsi e di esprimersi anche da sola, senza intermediari, senza la spinta di demiurghi. Il passaparola è diventato più spontaneo di quanto potesse esserlo prima. Naturalmente è un fiume in parte navigabile, e persino pescosissimo; ma per orientarne il percorso è necessario un surplus di avvedutezza e creatività.
  1. La nuova comunicazione commerciale non può prescindere da un’inclinazione all’entertainment. Séguéla teorizzò trent’anni fa la pubblicità-spettacolo immaginando le marche come dive da star system. Intuizione, la sua, sorprendente e provocatoria ma non del tutto realizzabile con gli strumenti e i canali allora disponibili, se non a costo di operazioni dispendiose e non sempre efficaci. L’entertainment di cui parliamo è un’altra cosa. È la capacità di inscenare spettacoli coinvolgenti – anche a costo abbordabile – in grado di mobilitare partecipazioni attive da parte dello spettatore-interlocutore.
  1. La comunicazione online consente esperimenti e, se occorre, correzioni di percorso quasi immediate. Puoi misurare minuto per minuto l’andamento dei likes e delle views, e agire di conseguenza. Somiglia, per certi aspetti, al direct marketing postale del secolo scorso, quando potevi modificare l’impostazione di una lettera di vendita sulla base della redemption o addirittura testare in simultanea due diversi approcci per vedere quale funzionasse meglio. La differenza sta nell’orologio. Adesso tutto si svolge a velocità da autodromo; azioni e reazioni impongono la massima prontezza di decisione e intervento. 
  1. Una moderna strategia di marketing e pianificazione deve tener conto di una nuova chance o necessità: quella di incrementare il numero e la varietà di occasioni di contatto con il pubblico, e di equilibrarne le tipologie. Se, per pura ipotesi, prendessi accordi con il Four Seasons di Milano e il giorno del mio compleanno invitassi i lettori di Dixit Café ad andarci per un breakfast a mie spese, potrei ricavare un po’ di simpatia anche da parte di qualche lettore di Guastalla o Ruvo di Puglia; ma ogni due mesi dovrei inventarmi una trappola affine, altrimenti avrei sprecato tempo e denaro 
  1. Istintivamente penso che le marche – anche le più adulte e consolidate, anche quelle che si rivolgono a un mercato di persone in età matura – saranno sempre più costrette a qualche forma di ringiovanimento. La capacità di parlare alle fasce più giovani della popolazione, anche nei casi in cui ciò può sembrare improprio o dispersivo, a lungo andare le premierà. Il passaparola degli adolescenti gira anche in famiglia, e ciò che circola in rete o sulle app dello smartphone può aspirare, volendo, a una diffusione trasversale e persino transgenerazionale. Ma l’opportunità maggiore sta nel preparare i giovani a familiarizzare e simpatizzare con le marche degli oggetti e dei servizi con cui avranno a che fare domani. L’habitat digitale è giovane di default, così come è giovane il suo utente più assiduo. Di più: la giovinezza mentale è destinata a protrarsi a lungo, almeno per quanto riguarda le emozioni e i comportamenti superficiali. Non è più conveniente, per nessuna marca, trincerarsi in un mondo troppo “adulto” o convenzionale.
  1. Notizia buona: internet è un forte acceleratore di consensi. Notizia cattiva: internet è un forte acceleratore di dissensi. Le società, specialmente le multinazionali, sono costantemente nel mirino. Da loro ci si aspetta una sensibilità etica che sia al di sopra di ogni sospetto. Puoi fare la migliore merendina del mondo, ma se spacci l’invenduto nel Burundi sei fottuto. E giustamente. Il 70% dei consumatori non acquista un prodotto se non apprezza l’operato dell’azienda che lo produce, secondo una ricerca di Weber Shandwick in collaborazione con Krc Research. Dallo studio condotto in USA, UK, Brasile e Cina nel 2011 su un campione di 1.375 consumatori e 575 senior executive di società con revenue annuale di oltre $500 milioni, emergono 6 punti: a) Il corporate brand è altrettanto importante del/dei brand di prodotto. b) La reputazione corporate è garanzia della qualità di un prodotto. c) Qualsiasi discrepanza tra la reputazione di un’azienda e quella del suo prodotto scatena una chiara reazione tra i consumatori. d) I prodotti e la loro reputazione fanno discutere. e) La percezione dei consumatori può cambiare in un clic. f) La reputazione corporate contribuisce al valore di mercato di un’azienda.
  1. Da quanto emerge al punto precedente, dobbiamo desumere – almeno nei limiti d’indagine che ci siamo posti, riguardanti metodi e pratiche del planning di comunicazione – che la questione dell’advertising e delle relazioni pubbliche non è più soltanto materia per dirigenti di marketing e d’agenzia, ma investe in pieno le politiche aziendali e determina la necessità di una coesione più solida fra le varie scrivanie decisionali. Basta con i segreti e, soprattutto, basta con tutto ciò che puzza di immorale. La migliore strategia d’impresa del mondo è sempre la stessa: quella di non dare adito, con i propri comportamenti, alla critica e all’ostilità.
  1. Nessuna azienda, nell’epoca dei social network, può più permettersi il lusso di essere indifferente al “sociale”. Di un magnate come Bill Gates si può dire tutto, tranne che accusarlo di essere socialmente insensibile: la sua fondazione è oggi considerata la più grande del mondo, ed è attiva nella ricerca medica, nella lotta all’AIDS e alla malaria, nel miglioramento delle condizioni di vita nel terzo mondo e nell’educazione.

 

Per essere un post scriptum, ho divagato fin troppo. E, comunque, non mi occupo più di queste cose. Lascio ai colleghi più giovani, e più informati e appassionati di me, il compito di rendere più organiche e utili le teorie professionali adeguate al loro tempo.

 

Tratto da

Dixit Café

 

Gli autori di Vorrei
Pasquale Barbella
Pasquale Barbella