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Il primo anno di attività della Villa Reale di Monza. La nuova mostra sull'alta moda e l'ennesimo tentativo di mettere sullo stesso piano arte e altro. È come mettere insieme medicina e make up.

 

A me la moda non interessa proprio. Una follia per cui ogni sei mesi ci vogliono “raccontare” di aver inventato qualcosa di “nuovo” ma che fra altri sei mesi sarà vecchio, questo paradosso del qualcosa da far indossare a quanta più gente possibile ma per farla sentire “esclusiva”. La trovo noiosa come un comunicato stampa e i resoconti sulle cene in bianco: il vuoto riempito di nulla.

 

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Intendiamoci, non sono gli abiti in sé a non essere interessanti. Ricordo ancora lo stupore per le meraviglie realizzate da Piero Tosi per la Medea di Pasolini del 1969 viste a Palazzo delle Esposizioni di Roma una vita fa (e sì, non era moda); non sono indifferente all’eleganza (pur conscio di essere seduto ai suoi antipodi). Quello che proprio mi sfugge è il senso di tutto questo disperato “storytelling” a caccia di legittimazione della moda e in particolare questo voler a tutti i costi confonderla con l’arte.

 

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Ora, che nella Villa Reale di Monza ci sia una mostra sull’alta moda italiana del dopoguerra non vedo proprio nulla di strano. È, il complesso di Piermarini, un nuovo contenitore espositivo alla ricerca di una identità, dal cui primo anno di attività non si può dedurre una linea “editoriale” meno che vaga. Si è passati dal fotografo strafamoso McCurry (abbondante fin dall’allestimento)  alla anonima mostra sul fascino e mito dell’Italia, in cui si è tentato di coprire un arco temporale talmente ampio (dal Cinquecento al contemporaneo) e sotto un tema talmente impalpabile che ovviamente l’effetto depliant era inevitabile: un po’ di tutto e niente di abbastanza. Quindi che ora si passi all’esposizione del lavoro dei sarti non dovrebbe sorprendere nessuno, proprio perché nulla sembra essere escluso. Neppure la musica da centro commerciale dei Digital days di Mtv (a proposito, ma da quanti anni chi li ha accolti non dà un’occhiata al palinsesto di quel canale? Sanno cos'è Geordie shore per esempio?).

 

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Quello che, personalmente, trovo insopportabile di certe operazioni è il mettere insieme moda e arte con l’intento o quanto meno lo scellerato rischio di appiattirle sullo stesso piano “culturale”. Come se fra il soddisfare le smanie delle sciure che belle voglion apparire e le disperazioni di un pittore maudit non ci fosse differenza alcuna: «viva la bellezza».

Sull’altare della retorica della bellezza si sacrifica la capacità di distinguere e, peggio, si fa credere che un cappotto abbia la stessa valenza culturale di un Fontana.

Non è questione di cultura alta e cultura bassa, è questione di sostanza, natura, significato, senso diverso. È come mettere insieme medicina e make up. Poi ognuno può dedicarsi a quello che gli pare, ma buttarla in confusione non aiuta nessuno. Forse solo i fatturati delle griffe.

La bellezza non significa più nulla da almeno 100 anni in arte, allora perché continuare a tirarla in ballo per mettere furbescamente insieme design, arte, moda e bpm?

Già è più onesto parlare di creatività: un concetto giustamente ampio che non implica ipocrisie. Evitare poi — come si fa in uno dei saggi del catalogo — di mettere insieme il neorealismo di De Sica con l’alta moda sarebbe altro gesto apprezzabile. Voi che trovate “bello” un oggetto come quello vantato dallo sponsor Bulgari (vedi foto in basso) fateci una cortesia: noi rispettiamo i vostri gusti, voi rispettate la nostra intelligenza.

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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