A margine della prima serata di Bruma 2015, alla Biblioteca Civica di Brugherio, abbiamo rivolto alcune domande all'autore di Roderick Duddle, fra i più bravi e importanti scrittori italiani viventi
Foto di Alberto Attanasio e Antonella Tremolada
La
pura emozione della letteratura. Martedì scorso, al primo incontro della rassegna Bruma, il pubblico ha potuto assaporarla grazie alle parole e ai racconti di Michele Mari, docente di Letteratura italiana all'Università degli Studi di Milano e autore di romanzi, racconti e poesie di grande valore. È superfluo dire che a Bruma non sono mai mancati gli scrittori di razza (come Starnone e Biondillo, per esempio); tuttavia, va detto che quest'anno il pubblico brianzolo ha goduto di un'occasione privilegiata per incontrare forse il più talentuoso scrittore italiano attuale.La cifra stilistica di Mari, superbo conoscitore della narrativa e dei suoi meccanismi per accendere la passione della lettura, consiste nella capacità di cogliere tale passione con un decoro classicistico: quanto più magmatico, personale e intimo è l'argomento del libro, tanto più va trattato con distacco e artificio. Il tema della rassegna, il passaggio dall'infanzia all'età adulta, è peraltro uno degli argomenti privilegiati da Mari nei suoi scritti: fra i suoi libri più amati dai lettori, si staglia infatti la raccolta di racconti Tu, sanguinosa infanzia (Mondadori 1997, ora Einaudi), fulgido esempio di quest'abilità nel trattare un tema molto caro e personale adoperando la profilassi, lo schermo del canone e della tradizione letteraria.
Nel corso del dialogo con Camilla Corsellini – giornalista e organizzatrice di Bruma – Mari ha raccontato molto di sé e della propria infanzia, oltre che della sua storia come romanziere: il rapporto con il padre Enzo, celebre designer, i primi passi nel mondo editoriale, le polemiche con altri scrittori (fra cui quella con Sandro Veronesi a metà degli anni Novanta sul diritto dei critici "anziani" di recensire gli scrittori più giovani)... a margine dell'incontro, lo scrittore ha risposto anche ad alcune domande di Vorrei.
Uno dei libri più interessanti degli ultimi anni è senz'altro il suo Rosso Floyd. Il suo amore per il gruppo, che dal libro si intuisce smisurato, viene da un'affezione comune a tanti appassionati, oppure ritiene che ci sia un'affinità fra il suo modo di scrivere e quello dei Pink Floyd di comporre musica?
Per i Pink Floyd provo affezione e ammirazione insieme. Non sono un fan storico: negli anni Settanta ero ignorantissimo in fatto di rock. Mai andato a un concerto, per intenderci. Ascoltavo la radio, non di più. Tanto meno ero un acquirente di dischi. Ci sono arrivato tardi, insomma, fuori tempo massimo. Ai Pink Floyd stessi mi sono appassionato postumamente, dopo la morte di Syd Barrett. Di loro, apprezzo il rigore e il classicismo, caratteristiche non attribuibili ad altri gruppi come Who o Rolling Stones, che per me sono triviali e rozzi, più legati all'aspetto folkloristico e "maledetto" del rock.
Come scrittore, di Roger Waters apprezzo la maniacalità, l'ossessività, il perfezionismo: tutti attributi che hanno portato a un capolavoro irripetibile del Novecento come The Wall.
Rosso Floyd è incentrato sulla figura di Syd Barrett, ma devo precisare che io non sono un barrettiano, anzi secondo me il gruppo ha dato il meglio senza di lui. Mi sento, appunto, più vicino a Waters; David Gilmour secondo me è volto a un'eccessiva facilità d'ascolto. Anche per questo, non sono tanto favorevole a un'ipotesi di reunion che tanti fan sognerebbero: per me aveva ragione Waters, i Pink Floyd sono morti davvero nel 1983 – anche se The division bell è un signor album...
Quindi, è Waters l'anima "classicista" dei Pink Floyd?
È un'anima onirica, che sonda l'inconscio. Certi loop ossessivi dei suoi brani... una canzone che non viene mai citata, ma che secondo me è un capolavoro assoluto del gruppo è Set the controls for the heart of the sun: ipnotica. La più bella, però, per me resta Comfortably numb, che a ogni ascolto mi attraversa, letteralmente. Per intenderci: Hey Jude dei Beatles, dopo cento volte che la sento potrebbe stufarmi; quella invece no, mai.
Il bello è che Waters è riuscito a essere Waters perché vicino aveva Gilmour. Waters da solo sarebbe stato un predicatore nel deserto. Aveva bisogno di una simbiosi con un tipo simile perché si creasse quell'alchimia magica.
Questo funziona in un gruppo, quando ci sono all'opera teste diverse. Uno scrittore, invece, che è solo con se stesso, come fa?
Non compensa, non può compensare. Va per la sua strada. Io sono sempre andato per la mia strada, fin dagli esordi (e ancora prima, anche da esordituro). Mai accettato un compromesso, il taglio di una virgola... Certo, rischiando molto, però mi è andata bene.
Tante litigate con i redattori editoriali, immagino.
Ma neanche litigate: ho messo subito in chiaro che non se ne parlava proprio. Poi, mi sono fatto la fama di autore dal prodotto finito. Io non riuscirei mai a far nascere un libro discutendone in casa editrice. Gli editori chiedono spesso "che cosa stai scrivendo? Tienici aggiornati, mi raccomando". Ecco, io deludo sempre: sparisco per mesi o un anno e ricompaio con il libro bell'e pronto. E quello è. Con il senno di poi, non mi pento di un simile atteggiamento.
Delle volte, addirittura, mi sento dire – come fosse un insulto, un rimprovero, ma invece per me è un grandissimo complimento – che io avrei "un'idea troppo autoriale della scrittura". Certo, rispondo io, sono un autore!
Detto questo, non penso che sarei in grado di lavorare in squadra con un altro scrittore. Salvo casi particolari, come nel mio ultimo libro, Asterusher (Corraini 2015), in cui collaboro con il fotografo Francesco Pernigo. In quel caso, però, gli ambiti sono ben definiti: io scrivo, mi occupo della parte testuale; lui fotografa, si occupa della parte iconica. Con un altro autore, potrei pensare di scrivere a quattro mani solo se la struttura dell'opera prevedesse un'autonomia totale per ciascuno dei due nella propria parte di libro.
Ha mai invidiato un altro scrittore, non classico?
Se parliamo di scrittori viventi e non dei miei miti, e se parliamo di invidia per aspetti letterari e non biecamente materiali... fra gli autori che potrei invidiare direi Stephen King. Per la sua vena, anche al netto di qualche passaggio infelice e dei rischi di ripetitività a cui si espone scrivendo tanti libri. Un altro che invidio è Cormac McCarthy, che scrive libri bellissimi, ha successo, vive di ciò che scrive e per di più in un ranch come in un film di John Ford.
Una domanda sulle sue Cento poesie d'amore a Ladyhawke. Nella rassegnazione cupa, ma al tempo stesso lieve, che permea i suoi versi, sembra emergere una visione dell'amore che è un amor de lonh insieme eroico e patetico (scegliendo due aggettivi che lei stesso adopera in uno dei testi): è davvero così?
Sì, è così. Il libro è paradossalmente il più autobiografico e diaristico dei miei. Uno pensa di solito alla poesia come al massimo di mediazione letteraria del dato esistenziale, e invece questa raccolta è quasi senza filtri. Molte di quelle poesie sono state davvero inviate alla destinataria, via mail, alcune volte con due righe introduttive, altre volte secche e nude: il testo delle mail erano i versi stessi.
Rispetto al dolore, alla cupezza, al senso di mancanza, sviluppato dai tempi del liceo e trascinatosi per anni: aver reincontrato la destinataria a distanza di trent'anni – cosa che per me era già un premio, una gratificazione – pur sapendo che sarebbe poi andato a finire nel nulla, in un nuovo lutto, mi ha permesso di rivivere tutto il passato in modo più ironico, grazie anche alla mediazione della letteratura.
Non si riferisce al valore terapeutico che spesso si attribuisce alla letteratura? So che la formula non la trova d'accordo.
Di solito, a tale questione rispondo così: se si intende che la letteratura possa essere terapeutica come la psicanalisi, direi proprio di no; se invece la si intende in senso performativo, allora direi di sì. Mentre scrivo sto bene perché sto scrivendo. Se un giorno scrivo per un'ora, in quell'ora sto meglio che nelle restanti ventitré. Mentre scrivevo Roderick Duddle, ho avuto questa fortuna di poter vivere nel libro. E per me vivere nei libri è molto meglio che vivere nella realtà.
Il potere della letteratura, più che salvare o curare, è di esorcizzare, esorcizzare qualcosa dicendolo. Senza la letteratura, resta solo il mutismo. Per fare un esempio: se io a diciotto anni, compagno di classe di Ladyhawke, avessi avuto la disinvoltura, la scioltezza dello scrittore e le avessi mandato quei testi sui banchi di scuola, magari sarei stato corrisposto. Se, al contrario, fossi stato respinto, avrei potuto farmene una ragione, subito. Non aver detto nulla, invece, ha blindato tutto. Una volta detta, infatti, la cosa è stata metabolizzata da entrambi e anzi ha avuto questa fioritura postuma che è il libro stesso. Una volta detta, insomma, ha avuto valore. È comunque necessario sedimentare, far passare il tempo, per poter trattare di certi argomenti, perché ne nascano delle cose belle, cioè i libri. È per questo stesso motivo che della mia infanzia ho parlato a distanza di decenni.