Nel percorso iniziato qualche anno fa tra i versi dell'autrice napoletana, ecco una panoramica su una poesia dai tratti civili e fortemente legata ai tempi
P
erché seguire un'autrice che con il nostro territorio ha poco o niente a che fare? La domanda potrebbe sorgere legittima nei nostri lettori. Ecco, se per la prima uscita di Carla De Falco su Vorrei l'interesse era più legato al fatto che un esponente della rivista fosse ospite di un evento letterario in quel di Napoli, mentre per il secondo articolo l'attenzione era rivolta a un libro di uscita recente; questa terza attestazione di interesse verte invece su quali e quanti dei temi affrontati dall'autrice possano riverberarsi nel quotidiano di ognuno di noi. A prescindere, come fa la vera poesia, da vincoli geografici o territoriali.
Nella sua poesia predomina da sempre l'aspetto cromatico: più accesi e vivi i colori nelle prime due sillogi, mentre in Il momento che separa la tonalità principale è il grigio, che prelude al buio. Simboleggia una maggiore cupezza esistenziale, rispetto alle prime prove?
Il colore ha una forza, poco studiata ma immensa, che può influenzare il corpo umano, come organismo fisico. [...] Il colore è un mezzo che consente di esercitare un influsso diretto sull'anima. Questo scriveva Kandinskij più di cento anni fa intravedendo un legame profondo tra colore e dimensione spirituale. Seguendo questa linea, la vena coloristica non è mai un capriccio nella mia scrittura, ma un vero e proprio punto di contatto con la parte più recondita dei testi. La cifra del colore, sotterranea eppure costante, è spesso presente in maniera caleidoscopica, anche se più evidenti possono apparire – di volta in volta – solo alcune note cromatiche. È indubbio comunque che, dopo la fase dei toni accesi e sanguigni de Il soffio delle radici, i miei lavori successivi risentano di altri stati d’animo che – in qualche modo – credo siano meglio rappresentati da altre note cromatiche. Il momento che separa è (al solito, sin dalla copertina e dall’incipit) il libro del grigio, inteso però non come accezione esclusivamente negativa, ma piuttosto come colore di passaggio tra il bianco ed il nero. Se Il momento che separa è un libro di poesia sulla crisi e se la crisi è interpretabile appunto come un punto di separazione tra una fase ed un’altra più incerta, non di necessità negativa, ma comunque diversa, mi sembrava questo il colore più adatto a entrare in sintonia con certo contemporaneo che si trova, a mio avviso, in una fase di passaggio epocale. Personalmente ho provato a tracciare una narrazione poetica di alcuni fotogrammi della crisi, interpretata non come uno stallo, o un lungo tunnel verso l’Apocalisse, non quindi come una dimensione che preluda al buio, ma come una sottilissima linea di confine tra le generazioni, le razze, le epoche e le religioni. Una linea grigria, una linea d’ombra quasi impalpabile che dal bianco conduce al nero attraversando la sfumatura, spesso inconsapevole, di un momento. “Solo” questo.
non è più questo il giorno / per sognare alcun sogno: sulla base di questi versi, sembra che dalla resistenza di La voce delle cose si sia passati a una resa rassegnata. È davvero così? La poesia deve abdicare? È questo il verdetto di questi anni Dieci?
La resa non è mai la mia o, tanto meno, quella della poesia che in realtà, e contrariamente a quanto pensano in molti, finirà col sopravviverci e mostrare nel tempo sempre forza e vigorìa, magari in forme rinnovate. La resa mi sembra (e di questo parlo nel testo a cui si riferisce) piuttosto quella di un’intera generazione venuta su col mito dell’iper-realismo qualunquista che, nei fatti, ci ha lasciati privi di idee e contenuti, orfani di slanci e, molto spesso, muti in tutte le funzioni tipicamente agite dai quarantenni delle generazioni che ci hanno preceduti. Come insegnanti, come genitori, come scrittori mi sembra che alla mia generazione (anche letteraria) sia mancato il respiro di una visione, il coraggio di guidare i più giovani verso un oltre ormai irrimediabilmente percepito e comunicato come cupo e peggiorativo. Fenomeno inedito, se ci pensa. E cionondimeno io non ho verdetti per questi nostri anni Dieci. In tempi di crisi la poesia che voglia definirsi tale credo sia chiamata ad una sola missione: non generalizzare, non rifugiarsi in apocalittici scenari da day after, ma fermarsi ad ascoltare, a ricostruire, a ricomporre ciò che l’esistenza, pur profondamente precarizzata, ha ancora da offrire all’ultimo, ovvero l’uomo di cui capovolge i destini. E il vero poeta lo dovrebbe fare sbarrando la strada ad espressioni superficiali ed accomodanti, anzi rivelandone impietoso la nudità e falsità. Perché se il poeta è un mendicante o accattone, uno sbagliato per antonomasia, per sua fortuna è anche un disadatto “molesto” con la vocazione giullaresca di misurarsi contro le cappe di piombo dorato, contro il pensiero unico, contro l’estrema difficoltà di dar voce all'altra parte.
Questo libro ci prova, cautamente, forse non riuscendoci del tutto, ma almeno raccontando storie vere, pescate nella baraonda dei rumori contemporanei di giornate qualsiasi, di tipi umani incontrati in giro per il mondo, di affetti scarnificati e nevrotici. E c’è spazio anche per i riscatti, piccoli esempi di resistenza individuale, generazionale e sistemica dei nostri anni Dieci.
La frontiera è sempre stata una sua cifra stilistica, sia in senso metaforico sia in senso reale: in quest'ultimo caso, nella recente silloge ci sono evidenti riferimenti alle migrazioni drammatiche di questi ultimi anni. C'è stato un evento in particolare che ha attivato la sua poesia, attirandola verso questo tema specifico?
Difficile sceglierne uno solo. Da tempo cerco di scrivere una poesia il più rigorosa possibile.
Non solo onesta come avrebbe detto Saba, o manzonianamente vera, ma vitale, vigorosa e seria. Rigorosa, appunto. Il che vuol dire che la mia è una scrittura consapevole del fatto si è chiuso (spero definitivamente) il tempo del poeta che si guarda l’ombelico e prova a descrivercelo nel modo più astruso, mellifluo e criptico possibile. Certo, la parola poetica deve essere sempre sfidante, deve aprire spazi di vaghezza semantica, deve coinvolgere i lettori (sempre più esigui) in uno sforzo intellettuale ed ecdotico, ma deve farlo aprendosi al mondo. Che credibilità può avere chi scrive escludendo il lettore, e magari lo fa centrandosi solo su conflitti interiori personali e non spende una riga per i morti ammazzati (perché di genocidio si tratta) nel nostro Mediterraneo? Il mio è solo un esempio, forse neppure (ahimè) tra i più significativi, ma di certo il poeta è cantore e poesia vuol dire “fare” qualcosa: non cronaca certo, ma denuncia, per esempio. E parlare ai più piccoli, ai più giovani, al domani. Non mi piacciono le etichette, non credo l’arte se ne giovi e dunque non parlerò di poesia “civile” o, peggio, “militante”. Personalmente, con esiti incerti, cerco di realizzare una poesia degna di questo nome. Ovvero che sia un giorno riconosciuta come prodotto letterario da tutti e non solo da adepti chiusi in nicchie accademico-salottiere. Una poesia parlante, perché la letteratura è voce del suo tempo, sempre.
Dopo questa premessa, che dire? Seguo con interesse le attività di molti gruppi di sperimentazione e associazionismo poetico e, tra essi, 100 Thousand Poets for Change Italia.
Spesso collaboro con i miei testi alle loro realizzazioni. Ci sono temi e soggetti sui quali ho sentito urgenza di scrivere e poi i miei testi hanno trovato generoso spazio nelle pagine di alcune antologie promosse da questi gruppi di “ricerca poetica”. Perché se scrivo ricerco. E penso. Penso ai bambini di Siria, ma anche al fenomeno del femminicidio in Italia, penso alla strage di Lampedusa, ma anche alla solitudine dei vecchi nelle nostre città. Penso, insomma. Almeno ogni tanto. Anche per questo Esuli, migranti, precari ed alienati, sezione d’apertura del libro, è dedicata ad episodi di denuncia, a storie al margine.
Nonostante sia convinta che il lavoro della scrittura letteraria sia immaginare un mondo sottratto al ricatto dell’attualità, ho provato a raccontare l’oggi, ma con uno sguardo distante, deformante e sarcastico a volte, allo scopo di ritrovare un senso all’esistente, senza schiacciarlo sotto catastrofismi da vate. Per questo ho preso le distanze da certe narrazioni (poetiche e non) segnate dai paradigmi distopici e apocalittici che più che offrire un possibile modo per raccontare la crisi del nostro tempo mi sembrano irrigidirla nell'ossessiva ripetizione del trauma.
L’alienazione dei nostri giorni l’ho rintracciata in vari aspetti, dalla disumanizzazione dei centri commerciali alla marginalizzazione degli onesti, lambendo le disperate storie di chi solca il nostro mediterraneo ridotto a gigantesca tomba su ambo le sue rive.
E ho raccontato lo sfruttamento di chi è “fortunato” e per non vivere il dramma della disoccupazione deve continuare a lavorare pagando ogni giorno il peggiore dei pizzi: la cessione di una porzione di quei diritti antichi che passate generazioni hanno conquistato, di cui altre hanno goduto, che qualcuno ha vilipeso e che oggi a noi è stato imposto di considerare obsoleti.
Ecco ora mi accorgo che non ho risposto sulla frontiera. Allora giusto due parole. Ho sempre pensato alla vita come ad un attraversamento. Non un arrivo e non semplicemente un transito, ma proprio una frontiera in cui – lentamente – intorno a noi cambiano lingue, tratti, gusti e prospettive. Attimo dopo attimo non sembra che si raggiunga alcun luogo, eppure tutto cambia.
Un altro tema sempre presente nelle sue poesie è quello della terra, anzi, meglio, delle radici, dell'attaccamento alla propria terra. Tema che in Italia – ma non solo – porta spesso a sterili esagerazioni, ma che nei suoi versi invece assume una consapevole dolcezza. Che cos'è, secondo lei, a dare identità a un territorio? Come si può coniugare l'orgoglio per le proprie radici con il rispetto di origini diverse dalle proprie?
L’idea dell’erranza informa di sé la mia poesia, insieme – sembrerà paradossale – a quella del radicamento. In parte, perché non andiamo proprio da nessuna parte se non sappiamo bene da dove veniamo, ed in parte perché solo quando apparteniamo a qualcosa o a qualcuno siamo liberi di disappartenere a tutto il resto e, dunque, pronti a partire.
Nei miei versi cerco di certificare l’urgenza dell’erranza e di riproporre un’interrogazione sempre nuova, ma mai definitiva sull’Uomo. Che non mi pare nella storia abbia mai conosciuto un inizio che non fosse anche un ri-cominciamento, nè alcuna fine che fosse mai porto d’arrivo. Nella vita, come in poesia, c’è il respiro di un durante che si presta ad essere continuamente ri-attraversato. L’erranza è pressoché continua ed è condizione necessaria anche per far germogliare il radicamento. Esserne consapevoli è il primo passo. Guardare con amore a ciò da cui veniamo è il secondo. Scoprire l’altro, il diverso, il nuovo è forse il terzo. Farlo proprio o almeno accoglierlo in sé con rispetto è l’ultimo. Da lì si può ripartire.
Nella poesia italiana attuale (ma non solo: si pensi a Saba, per fare il nome di un "pezzo da novanta"), pubblicare significa spesso che l'autore deve contribuire alle spese di pubblicazione della propria silloge: lei ha dovuto farlo? Qual è, in generale, la sua opinione al riguardo?
Adoro Saba e rispetto tutte le posizioni. Ciò detto, la mia è sempre la stessa, da anni. Liberi tutti di andare a comperarsi coppe e targhe da soli, ma per me esiste solo la letteratura pubblicata e finanziata dagli editori, per quanto in crisi siano. Non pago per pubblicare, non l’ho mai fatto, non lo consiglio. E trovo onanistico auto-pubblicarsi. Senza se e senza ma. Senza “la poesia non vende”, senza “piccolo contributo” e senza “obbligo di acquisto copie”. Se il lavoro vale troverà un editore, magari piccolissimo, magari folle, magari entrambi che lo pubblicherà. Un buon lavoro non deve risentire dell’urgenza di essere pubblicato ad ogni costo. E non deve avere costi per lo scrittore, se non quello esoso e terribile della sua stessa stesura.
vorrei
ingoio giorni precipitati
annuso parole consuete
come ombre
d’insopprimibile grigiore.
suono d’acqua, senso che affoga
in stie di miserie inaspettate.
metrica materica
voglia di tacere
severa come un albero
definitiva come una crepa.
sopravvivere al vuoto della festa
al nulla dello stare insieme a forza
alla sincerità soppressa
all’ammaraggio nei riti depressi.
vorrei aprire di colpo una finestra
ridere di gusto a bocca piena
respirare la lascivia della sera
lasciare andare qualche desiderio
libero di raggiungere il suo oceano
dimenticando anche solo per un attimo
il chiasso compresso della gabbia.