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Intervista al performer “Lello” Cassinotti. La voce, l'amore per Artaud, l'esperienza “Mombello” e DelleAli

La prossima settimana chiudi la rassegna “Intercultura in quartiere” curata da Nicola Frangione (venerdì 18 dicembre 2015, Centro Civico Quartiere San Rocco, Via Gabriele D'Annunzio, 35 a Monza). Cosa presenterai?
Riprendo dei testi scritti per un lavoro teatrale ma nati in una dimensione poetico-sonora. Un calendario astratto e molto personale, testi di un paio di cartelle ciascuno, tutti dedicati a santi martiri, la cui agiografia e tradizione popolare è posta, molto liberamente, in relazione con accadimenti di natura politica e storica. Un esempio: San Lorenzo e le stelle che cadono. Un pretesto per un gioco sonoro, di natura timbrica e verbale. Tutto abbastanza ironico. Lo spettacolo per cui erano stati scritti si intitolava “Sanctorum martirium. Breve delirio impressionista quotidiano”.

 

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Come è cominciato il tuo percorso artistico?
Un po’ più tardi del solito, dopo i vent’anni. Andavo già a teatro come spettatore e ho voluto capirne di più, avere una consapevolezza maggiore per cui mi sono iscritto ad un corso. Dopo solo un anno ho scritto il primo lavoro che ha avuto la fortuna di girare in Europa. Allora — era il 1990 circa — era possibile.

Come si chiamava?
“Tutto quello avreste voluto sapere sugli occhi storti e non avete mai osato chiedere”. Molto autobiografico, come quasi sempre per i miei lavori. Io ho un occhio strabico e leggenda vuole che la causa sia stata una indigestione di banane da piccolissimo.

 

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Cosa è accaduto poi?
Ho cominciato a collaborare con musicisti dell’area improvvisata e a conoscere performer che lavoravano sulla voce. Lì ho individuato il mio percorso di lavoro intorno alla vocalità. Nel frattempo sono arrivati gli incontri, i corsi e i laboratori con Cesar Brie e soprattutto Danio Manfredini, che considero il mio maestro.

Quali sono i temi a cui dedichi maggiore attenzione?
Con DelleAli affrontiamo tematiche che abbiano una valenza anche sociale, io personalmente invece sono un po’ più “leggero”,  mi piace moltissimo curare l’aspetto formale e lasciare che i contenuti escano da soli. Per esempio, il lavoro dedicato ai santi di cui parlavamo prima è dedicato alla figura dell’artista. Ho sempre pensato che l’artista fosse un santo mancato.

Ma un martire in pieno! (lo interrompo, ndr).
Un martire sociale, civile, sì. Ci sono i santi messi sul piedistallo nelle chiese e quelli che, pur dedicando la propria vita al prossimo, al bene comune, non trovano questo riconoscimento. Così per gli artisti, il cui piedistallo è nei musei o nei grandi teatri; ce ne sono tantissimi — e mi ci metto anche io — che sul piedistallo non ci vanno. Le mie scelte hanno fatto sì che non diventassi famoso. Se mi fossi dedicato alla narrazione con delle formule più facili, probabilmente avrei ottenuto maggiore riconoscimento dal pubblico.

E quali sono i tuoi riferimenti artistici?
Tanto Artaud e il teatro della crudeltà. L’ho frequentato e continuo a farlo. C’è sempre. I suoi testi poetici e i suoi saggi ma anche la forma. Anche in “Ohtuchemisuicidi”, il nuovo progetto a cui sto lavorando con il clarinettista Giancarlo Locatelli, una lettura-concerto del “Van Gogh suicidato dalla società”. Lo stiamo portando nelle case, negli spazi non teatrali che si prestano a una dimensione molto intima. Prevede 54 tappe, in ognuna il clarinettista estrae un semitono dal totale che può ottenere dal suo strumento. La prossima sarà nel carcere di Bollate.

 

 

Si è da poco conclusa l’esperienza di Case Matte, il tour in 8 ex ospedali psichiatrici prodotto da Teatro Periferico e Chille de la Balanza premiato da Rete critica. Tu hai partecipato ad uno dei suoi tasselli, lo spettacolo “Mombello. Voci da dentro il manicomio”.
Un lavoro nato come collaborazione DelleAli-Teatro Periferico due anni fa, per ricordare gli internati di Mombello a Limbiate, con la regia di Paola Manfredi. Il mio bilancio personale è meraviglioso: è un lavoro imponente, con 13 persone in scena più i tecnici, qualcosa molto difficile da vedere di questi tempi, con la crisi e la mancanza di fondi. “Case matte” poi — anche se io l’ho vissuta parzialmente — è un’esperienza molto importante, finanziata con il croudfunding, ha coinvolto non solo lo spettacolo ma anche le passeggiate, la presentazione dei libri di Ghersi, mostre e tanto altro. In luoghi evanescenti più che fatiscenti. Un tentativo di recuperare la memoria degli internati ma anche degli accadimenti, dei luoghi, delle architetture. Per restituirle alle comunità attraverso un progetto culturale.

Parlaci un po’ delle ultime vicende di DelleAli.
Nel 2008-2009 ci siamo insediati nel Teatro Oreno, con una residenza teatrale co-finanziata da Fondazione Cariplo. Per tre anni abbiamo potuto presentare una programmazione composita e di un livello, permettimelo, fin troppo alto: titoli poco popolari, quindi è stato difficile catturare subito un pubblico non abituato. Lasciata Oreno ci siamo insediati per due anni in Villa Sottocasa a Vimercate (dove ha sede anche il Must) continuando con la rassegna “Contaminazioni”. Nel 2014, grazie ad un altro bando di Fondazione Cariplo nell’ambito di “Coltivare cultura”, abbiamo cominciato “Fatto in casa”, una stagione di teatro domestico, ripresa da poco, con tappe anche in ristoranti sotto il nome di “Masticare cultura”. Infine da novembre scorso e fino a marzo c’è la stagione per i piccoli “Piccino picciò”.

Voi quindi non avete una sede. Quanto vi manca uno spazio vostro?
Tanto, per la programmazione ma soprattutto per le prove. Ogni volta che affrontiamo un lavoro dobbiamo inventarci dove e come farlo.

Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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