“La figlia del ferro”: nel nuovo romanzo di Paola Cereda, una donna resiste alla crudeltà della guerra opponendole la voglia tenace della sopravvivenza e la forza della solidarietà
Piedi.
Un magazzino di piedi.
Decine e decine di piedi.
Piedi nudi o coperti, alcuni scompagnati, quasi che le bombe li avessero privati della consolazione di restare sempre in coppia. Uno aveva perso la scarpa, l'altro portava una calza rammendata sul calcagno, un altro ancora era senza dita e ciò che restava era nero di sangue. Stavano così, quei piedi, attaccati per caso a caviglie sbagliate, buttati dentro un mucchio indifferenziato... Piedi come pezzi, come storie troncate....La luce della candela illumina soltanto le cose che avvicina: piedi anonimi e, più su, la divisa di un soldato. Una casacca da barbiere. La borsa di un mendicante. La giacca del postino arrivato due anni prima dal Meridione, un mazzo di chiavi appeso alla gonna della sagrestana, il coltello di un pescatore. La luce della candela entra nelle pieghe dei vestiti e rischiara il profilo di un uomo, quello di un vecchio, di una donna e di un'altra e un'altra ancora.
Illumina Pino Lupi, operaio degli altiforni.
Licia Traditi, ricamatrice.
Marta Anselmi, contadina.
Alessandro Soldani, minatore.
Luigia Belloni, venditrice di corredi.
E Ida Cioni, Teresa Imparata, Pietro Vanni, Ines Bellini, Evaristo Mibelli, Paolo Pacini e mestieri e famiglie e vite, e poi un dito, il collo, una treccia, la treccia di una bambina di cinque anni appena, con il vestito sporco di guerra.
Sbarco all'Isola d'Elba
Così, nel romanzo di Paola Cereda, La figlia del ferro (Giulio Perrone editore, 2022), la luce che esplora il mucchio di cadaveri accatastati nel magazzino della Misericordia restituisce ai corpi ridotti in pezzi dai bombardamenti l'identità di persone.
Pezzi, Stücke, così i nazisti chiamavano i prigionieri dei lager: è la riduzione dei corpi ad elementi anonimi a consentire la crudeltà della guerra e ogni altra atrocità ad essa connessa. Il compito che si assume la letteratura è al contrario quello di ridare alle donne e agli uomini travolti dalla Storia un'identità, un corpo unico e riconoscibile, un corpo che vuole vivere e sorridere e amare, pensieri e desideri, una famiglia, una storia.
è la riduzione dei corpi ad elementi anonimi a consentire la crudeltà della guerra e ogni altra atrocità ad essa connessa
Perché, come dice Paola Cereda, autrice di questo bellissimo libro che sa come parlare di guerra, le parole con l'iniziale minuscola hanno un senso che viene tradito quando le si scrive con la maiuscola: il Corpo, l'Arma, nel linguaggio della guerra sono ben altra, tirannica, cosa rispetto al corpo o all'arma nella realtà delle singole vite; e così la Storia con la maiuscola ignora le piccole storie delle persone vere. Che tuttavia sono le uniche dalle quali qualcosa si può imparare, se qualcuno sa trovare le parole giuste per raccontarle, riempiendo con la comprensione, con l'immaginazione empatica, oltre che con l'esplorazione dei luoghi e dei documenti, i vuoti provocati dalle ferite della memoria.
È una storia, questa, che, come le altre raccontate nei romanzi di Paola Cereda ( vedi qui "Scrivere per immaginare un altro presente"), ha al centro un paesaggio, ovvero un luogo circoscritto nel cui contesto si svolgono le storie delle persone che lo abitano e lo caratterizzano: in questo caso, tra l'Elba, l'isola del ferro, e Pianosa, l'isola del penitenziario dove la natura trionfa.
Portoferraio vista dal Forte Falcone - Foto di Nicola Nurra
la Storia con la maiuscola ignora le piccole storie delle persone vere
Gente semplice che vive di lavori semplici: minatori, faristi, vignaioli, carrettieri; e lavandaie, materassaie, nonché anche le immancabili prostitute del regolare bordello locale. Storie di donne, soprattutto: di madri e di figlie, di sorelle con diversi caratteri e destini, e di una donna in particolare.
È una storia vera, questa, accaduta nel contesto della seconda guerra mondiale: storia che gli isolani ricordano, ma che è difficile da raccontare; storia ascoltata da testimoni ancora in vita, e poi pazientemente ricostruita e documentata attraverso la ricerca d'archivio e il confronto con diversi storici. Ma nella rappresentazione che ne fa Paola Cereda la vicenda biografica di Olimpia Mibelli si stacca dalla cronaca per assumere caratteri universali ed emblematici: Olimpia diviene Iole, una ragazza indipendente e piena di vita, figlia di un anarchico che le aveva insegnato a distinguere tra le disgrazie e le ingiustizie, che le aveva mostrato come vivere secondo i desideri e come trovare il coraggio di opporsi, l'ostinazione di pensare con la propria testa; figlia del ferro, perciò, capace di un gesto inaudito per salvare col proprio corpo altri corpi, altre vite, nei giorni dominati dal ferro delle armi, delle bombe, della guerra.
Difficile è la memoria di quei giorni convulsi, in cui accadono fatti che la gente del luogo non dimentica, ma che la Storia ufficiale ha trascurato: l'affondamento di un piroscafo civile cui non era stata tolta la livrea militare di cui era stato rivestito allo scoppio della guerra, solo quattro sopravvissuti dei più di trecento passeggeri a bordo; o la strage, ad opera dei nazisti, dei prigionieri del carcere di Pianosa, costretti a scavare la propria fossa sulla spiaggia più bella dell'isola.
Si tratta dei giorni successivi all'armistizio del settembre del '43: per l'isola, i giorni dello sbarco degli Alleati, in primo luogo dei Francesi, decisi ad assumersi un ruolo attivo nella vittoria sui Tedeschi proprio grazie alla “liberazione” dell'Elba. Ma la parola con cui gli isolani ricorderanno quei giorni non sarà quella festosa con cui in altre parti d'Italia si celebrava l'arrivo degli Alleati: quelli, per gli Elbani, saranno i giorni dello “sbarco”, nell'accezione peggiore di una parola che suona per loro come invasione, assalto, occupazione. Le spiagge dell'isola sono minate, ma i “liberatori” hanno corpi speciali da mandare allo sbaraglio su quel ferro: saranno le truppe coloniali a sbarcare, i tanti che salteranno in pezzi sulle mine, fra quei giovani africani arruolati dalla Francia con tante promesse, apriranno la strada ai sopravvissuti, che riverseranno sugli abitanti dell'isola la ferocia della sorte subita dai loro compagni.
Del modo in cui anche i corpi delle donne subiscono la violenza della guerra si è già raccontato, nel cinema e nella letteratura, oltre che nella storia e nella cronaca, anche recente. Paola Cereda però ha il coraggio di guardare da vicino anche l'altra faccia di questa realtà, di dare un nome, un volto, una storia anche al soldato dell'esercito coloniale francese che si è reso colpevole di quelle violenze.
E' nella bellissima chiusa del romanzo che emerge la domanda fondamentale che all'atrocità della guerra si oppone: “Qui es tu?”. La guerra è il non riconoscere umanità al nemico, è non guardarlo negli occhi, non chiedersi chi sia: questo mi pare emerga da un racconto che parla di carne e di ferro, che non risparmia nulla della crudeltà della Storia, ma che ad essa oppone “la naturale resistenza di un essere umano che prova a sopravvivere”.
Perché la guerra non è una disgrazia, ma la peggiore delle ingiustizie: è il tentativo di travolgere, di negare e distruggere il fervore, la gioia, la bellezza che Iole difende con tenacia, col suo sorriso ostinato, insegnandoci a non cederle.
Paola Cereda