Intervista ai Julie’s Haircut, un pezzo di storia del panorama musicale indipendente italiano.
Si sono formati a Sassuolo negli anni Novanta ed all’inizio erano in tre – Nicola Caleffi, chitarra e voce; Luca Giovanardi, batteria e voce; Laura Storchi, basso e voce –, oggi invece contano sei elementi.
Dieci dischi – di cui l’ultimo, "In The Silence Electric", pubblicato poco più di una settimana fa per Rocket Recordings – uno diverso dall’altro, date su date collezionate tra Italia ed estero ed una fortissima propensione all’improvvisazione, alla sperimentazione ed alla ricerca del suono, attitudine che negli anni ha portato la band ad un’evoluzione delle proprie sonorità originariamente legate garage-rock.
Per una chiacchierata sul loro fare musica e su cosa significhi essere una band abbiamo intercettato Luca, cofondatore della band che in questi giorni in cui festeggia il ventennale dall’uscita del disco d'esordio, è impegnata in un tour iniziato a fine settembre in Belgio, Francia ed Inghilterra, e che questa settimana li porterà prima di un breve stop a Torino il 18 allo Spazio 211 e sabato 19 a Monza in Arci Scuotivento per Tutto Il Nostro Sangue.
Sono passati vent’anni dall’uscita del vostro primo disco al quale ne sono seguiti altri nove. Qual è il brano al quale siete più legati? Ce n’è una che invece, col senno di poi, non avreste voluto pubblicare?
Scegliere un solo brano mi è davvero impossibile. Ce ne sono tanti che amo, altri che (fantozzianamente) stimo, altri ancora che trovo datati ma per i quali provo comunque molto affetto. Posso dire che non ce n’è nemmeno uno che non avrei mai voluto pubblicare. Ovvio che se si va indietro ai primi due/tre album ci trovo canzoni che oggi non scriverei nemmeno, ma quello che si deve capire, e che a volte è sfuggito nell’interpretarci, è la forte dose di autoironia che alcune canzoni degli esordi contenevano. Pezzi come Too much love, ad esempio, sentite oggi mi fanno sorridere. Ma poi penso che anche allora mi facevano sorridere, in realtà, non c’era minimamente machismo nello scrivere una canzone di rivalsa sessuale come quella: era un modo di dire: “guardate, siamo talmente sfigati che possiamo permetterci di scrivere la nostra Sex Machine e riderci sopra”.
Quest’anno per voi è stato un anno di doppia pubblicazione, la sonorizzazione del film di Josef Von Sternberg “Music from the Last Command” e il nuovo album di inediti “In The Silence Electric”.
Qual è stata la genesi dei due lavori? Come vi hanno diversamente impegnati?
La sonorizzazione di ‘The Last Command’ ci è stata commissionata dal Museo del Cinema e da Transiti nel 2017, mentre eravamo nel bel mezzo del tour di Invocation and Ritual Dance of my Demon Twin. È stata impegnativa, ma non potevamo lasciarci sfuggire l’opportunità e quindi l’abbiamo presa. Non volevamo buttare l’occasione facendo delle semplici improvvisazioni sulle immagini. Avremmo potuto farlo, sappiamo farlo, ma l’occasione di poter musicare un film muto era troppo ghiotta: abbiamo analizzato il film nei dettagli, abbiamo cercato i temi e i richiami interni alla sua struttura, abbiamo studiato come musica e immagini si influenzano vicendevolmente e abbiamo portato tutto questo nella scrittura dei temi musicali del film. Ci ha permesso anche di esplorare territori musicali inusuali per noi, sia dal punto di vista sonoro che da quello stilistico. Quando poi è stato il momento di registrare l’album, lo abbiamo fatto alla velocità della luce, anche perché al contrario di quello che ci capita normalmente, siamo entrati in studio quando già conoscevamo bene le musiche e le sapevamo eseguire. Quindi in soli due giorni di studio abbiamo registrato tutti i 17 pezzi del disco. Rispetto alla versione dal vivo, che dura un’ora e mezza, è più stringata ed essenziale, più mirata ad un ascolto senza immagini.
Per ‘In The Silence Electric’ invece io e Nicola abbiamo scritto alcuni pezzi in forma di demo a casa mia, poi abbiamo fatto come nostra abitudine un paio di giorni di improvvisazioni libere in studio insieme alla band e da tutto questo materiale, poi rielaborato e trasformato in studio, abbiamo ricavato le nove canzoni del disco.
Qual è il punto di partenza per i Julie’s nella composizione di un disco?
In parte mi sa che ti ho già risposto. Comunque negli ultimi 15 anni per lo più siamo partiti da improvvisazioni registrate e successivamente editate e completate con sovraincisioni. Per questo disco, come ti dicevo, abbiamo recuperato un minimo di scrittura “tradizionale” per qualche pezzo.
Lezione di musica for dummies: cosa si intende quando si parla di rock psichedelico?
Non mi interessa nemmeno saperlo. Per me il concetto di psichedelia applicato alla musica ha senso solo come modalità molto generica, non denota un genere musicale. Tutto ciò che ha una forte tendenza alla ripetizione, alla trance, al generare una sensazione di ipnosi e di espansione mentale per me è ascrivibile alla psichedelia. Ma io questo lo ritrovo tanto in ambito rock come in ambito elettronico, reggae, funk… Four Tet, James Brown, 13th Floor Elevators, certo jazz di Davis e altri.
Lavorate molto con l’estero, ci suonate tanto e l’ultimo disco è il secondo che pubblicate con un’etichetta straniera. Com’è andata, come siete riusciti, a differenza di tante altre band italiane che non ce l’hanno fatta, a varcare i nostri confini?
Non saprei proprio. Senza false modestie, mi viene da pensare che la qualità della proposta possa essere un fattore. Ma in realtà non siamo gli unici, ci sono altre band – o musicisti elettronici - che lavorano molto all’estero e poco in Italia. Magari noi, tra questi, siamo un po’ più in vista perché essendo in giro da più tempo abbiamo un giro di pubblico qui in casa nostra che altri venuti fuori dopo non hanno trovato, soffocati dall’egemonia dell’it-pop e della trap.
Su Spotify avete creato una playlist in cui inserite solo brani italiani. È anche la vostra playlist da furgone? Se no, quali sono i brani che vi accompagnano e nello specifico vi hanno accompagnato in quest’ultimo periodo in tour?
Ultimamente abbiamo cambiato furgone e quello nuovo ha solo un lettore CD, che legge anche mp3, ma che per qualche motivo ne ignora buona parte. Per cui la soluzione è stata imbottire un certo numero di CD con decine e decine di pezzi pescati dalle nostre librerie e mescolati a caso, poi il furgone sostanzialmente decide lui cosa farci sentire.
Qual è il segreto per fare durare un progetto musicale così a lungo? Come si fa a mandarlo avanti facendolo sopravvivere ai cambiamenti personali e dei propri interessi, al cambiamento di componenti della band, ed a tutte le variabili alle quali si è come essere umani esposti?
Anche qui devo fare appello alla mancanza di modestia e dirti che il fattore principale è l’intelligenza. E l’empatia: capire che appunto si cambia, la vita è fatta così e basta, e che il cambiamento è un’opportunità di ricchezza incredibile, non un problema. Se capisci questo sei già a metà strada. Ci vuole la sensibilità per capire che il prodotto di sei menti può essere migliore di quello della tua mente da sola. Che le differenze possono essere un grande stimolo invece di un dramma. E poi, ovviamente, bisogna stare bene insieme, divertirsi, conoscersi, sopportare con ironia anche i lati negativi di ognuno. A questo aggiungo che la mancanza di un successo commerciale vero aiuta: ancora oggi ci possiamo permettere di entrare in studio volendo tirare fuori un album che sorprenda noi per primi e ci stimoli, senza dover fare i conti con pregressi commerciali, aspettative, regole cui sottostare. E abbiamo la fortuna di avere un’etichetta che invece di imbrigliarci è costantemente preoccupata di spingerci oltre i nostri limiti.