Studiare la complessità della natura significa cogliere la sovrapposizione di problematiche e fare spazio alla dimensione etica del vivere nella sua relazione costante con il prossimo. Anche fosse un solo albero.
Non facciamo che dire che i luoghi naturali hanno un’anima che noi non siamo più capaci di riconoscere. Che stiamo portando il pianeta al collasso e dobbiamo ribellarsi contro questo stato di cose. Gli imprenditori, calcolatrice alla mano, parlano di green economy mentre i poeti affermano che la natura parla con il linguaggio che le è proprio, che noi fatichiamo a intendere perché anestetizzati dal rumore del mondo o preoccupati dei frequenti incendi dolosi. Eppure quando la salvezza di un paesaggio comporta un limite al benessere umano o al banale diritto di scegliere dove vivere, allora il discorso si chiude in un giro di parole d’ambientalismo moderato che non si azzarda a mettere in discussione i diritti dell’uomo. Quando poi le nostre città, i nostri territori cambiano al punto da non riuscire più ad interpretarli sia a livello di processi percettivi, che di processi cognitivi ci vediamo vittime di una specie di frastuono psichico che pensiamo intorpidisca le nostre orecchie e diciamo che la cultura in cui viviamo è sempre più catastrofica per la geografia e per il nostro pianeta. Per quanto innegabile e condivisibili possano essere tutte queste affermazioni, mi chiedo se siamo coscienti della propensione degli uomini a considerare l’ambiente che hanno intorno solo come strumento o se ci rendiamo conto di pensare erroneamente, che possa essere “naturale” anche ciò che abbiamo costruito. In questo contesto, le soluzioni a portata di mano sono solo ridicole chimere. Antropologi, storici, artisti e filosofi si pongono in questi giorni interrogativi assai interessanti circa il connubio o la possibile antitesi tra uomo e natura e da questo contraddittorio mare, provo a tirar su qualche rete.
Arte e territorio ad esempio, costituiscono un binomio eccellente già in qualche modo categorizzato. Parole cariche di significato, messe insieme non solo per dare un nome alla disciplina che si occupa della dimensione estetica di un luogo. Dal punto di vista della teoria estetica contemporanea, queste due parole sono così pregnanti da andare oltre l’approccio storicistico della materia e varcare i limiti della Land Art. in quello spazio mentale nel quale si sta cercando di fare il minor danno possibile mentre ci si attiva per salvare il pianeta. Basterà ricordare ad esempio che, artisti concettuali come il tedesco Joseph Beuys o il russo Ilya Kabakov, negli anni ’70 e ‘80 si occuparono di piantare alberi e contemporaneamente di parlare di spirito del luogo e di magia dell’atmosfera di montagna da intendersi dicevano, come luoghi di responsabilità collettiva. Parole quanto mai inascoltate.
In quanto nome di una disciplina, oltre a studiare l’opera d’arte come prodotto della comunità, il binomio arte e territorio si presenta come una combinazione di elementi storicamente antica, portatrice di numerosi stimoli e dunque ancora ricca di suggestioni. Una relazione che continua a porre interrogativi e a pretendere attenzione, soprattutto perché si tratta di un’attrazione basata sulle specificità del patrimonio culturale dei luoghi nei quali viviamo, la cui storia è tutt’altro che risolta.
Nella lingua dell’arte, il termine più immediato con il quale identifichiamo la coesione col secondo termine è “paesaggio” e anche in questa veste sembra interessante notare che né questa né la parola “giardino” potranno mai essere fino in fondo l’oggetto di studio di storici dell’arte chiusi dentro biblioteche polverose. Il paesaggio è oggetto vivo, sempre in mutamento e tutt’altro che catalogabile. In quanto esercizio mentale dunque, il paesaggio è in grado di porre interrogativi e non smette di presentarsi all’artista come un groviglio di significati estremamente vulnerabili. Tanto per cominciare, è un genere in grado di raccontarsi agilmente con tutte le tecniche più conosciute: pittura, illustrazione, scultura, architettura, installazione, Land Art, multimediale e Concettuale e probabilmente è in ragione di ciò che nella mente degli artisti, ancora oggi è un genere complesso. Occuparsi di territorio significa muoversi a zig zag per deragliamenti e deviazioni continue. Soprattutto in questi due ultimi secoli, l’aspetto o gli elementi dell’ambiente naturale hanno sancito un legame importante tra artista e natura, costringendo gli storici dell’arte a riconfigurare i rispettivi significati di senso. Procedendo con ordine, nella scansione cronologica tradizionale, vediamo comparire il paesaggio per la prima volta negli esperimenti di Leonardo da Vinci prima che si affermi nel XVII secolo quando muta il suo ruolo all’interno della composizione: da sfondo del quadro a soggetto di primo piano.
Nel Settecento, quando diventa “vedutismo” e “capriccio” racconta l’incontro irrisolto tra il razionale pittoresco e l’inquietante sublime mentre nell’Ottocento rappresentando il sentimento del luogo rivolge la sua attenzione verso il sentire interiore dell’artista. Questa sua capacità ininterrotta di sollecitare l’immaginario fa sì che ancora oggi per suo tramite riflettiamo sull’uomo e sui suoi valori. Intanto, testimoniando come le classiche vedute di paesaggio, pur cercando una mimesi fedele con lo spazio, manifestino la propria incapacità. L’atto stesso di inquadrare una porzione del reale implica l’adozione di un punto di vista soggettivo, quello dell’autore, che non lascia spazio all’obiettività. Interi corsi online di fotografia e di pittura non fanno che sottolineare come il paesaggio appartenga agli strani grovigli del vedere e queste parole, di solito, si concludono con qualche citazione tratta dal neuroscienziato di turno. Un groviglio che potrebbe non manifestarsi con la natura morta o la ritrattistica, perché il paesaggio naturale offrendosi come spazio omnicomprensivo impone con più forza l’intervento dell’artista: interroga il suo approccio filosofico e la piena coscienza della relazione “io/mondo che mi circonda”. Inoltre è logica conseguenza del paesaggio, la comparsa delle reti di correlazione tra antropologia e politica e tra la semplice visione e l’etica dei nostri comportamenti rispetto alla vulnerabilità ambientale. In queste trame intellettualmente interessanti perché costituite da elementi che fanno propria la trasfigurazione di concetti complessi si innestano gli aspetti valoriali che hanno contraddistinto il XX secolo. Uno tra tutti quello relativo alla contrapposizione simbolica fra “paesaggio naturale” e “paesaggio costruito”, fra campagne e “paesaggio urbano”, fra “natura selvaggia” e “civiltà” e infine quello fra “natura” e “cultura” che ancora ci accompagna.
La questione dunque non può risolversi in una ricetta per ritornare ad uno stadio di vita primitiva da un lato o in una lode alla tecnica che ancora ci fa sognare di controllare ciò che ci circonda. La ricetta come dicevo, non può permettersi di essere semplice.
Cercando nel web si trova che attualmente, artisti molto noti del panorama internazionale istituiscono questi stessi binomi e ci mostrano quanto ne siano profondamente ammaliati. Nella sezione di Google art & cultures, ad esempio, la mostra dal titolo Voice of Nature βº1’ ci fa vedere come un antropologo (qui curatore della mostra) abbia invitato professionisti di varie discipline a lavorare intorno al tema dell’albero, collocandolo a metà strada tra consapevolezza ambientale e bioarte. In collaborazione con gli scienziati della Delft Technical University gli artisti hanno usato i dati in tempo reale provenienti dalla natura per parlare dell'urgenza dei cambiamenti climatici. In una delle opere più suggestive presenti in mostra, è possibile vedere il frutto della collaborazione tra Stefano Mancuso e l’artista olandese Thijs Biersteker. Si tratta di un albero che combina dati generati biologicamente con quelli generati dalle reazioni del pubblico in tempo reale, creando effetti tecnologicamente impegnativi ma intellettualmente accessibili e seduttivi. Il pubblico viene a sapere tramite un’aura gigantesca come uno schermo, come si sente l’albero in un momento preciso e scopre quanto il suo benessere dipenda dall’interazione con l’uomo. Sia nell’immediato che a livelli più ampi di qualità dell’aria e condizioni generali della terra. Certamente sono immagini (nel sito dell’artista è possibile vedere anche il video), ma anche in questa modalità virtuale si apprezza il senso di responsabilità dell’azione dell’uomo e dei suoi effetti sulla natura in genere. In questo suo dar voce al singolo albero e all’interazione col bambino o con il visitatore adulto, ci lascia la possibilità di universalizzarne il messaggio, senza incorrere nel pericolo dello stereotipo o della formula ad effetto.
Questo albero introduce concetti che si relazionano con la tensione suscitata dai quesiti di stretta derivazione romantica che fatichiamo a scrollarci di dosso. Quelli che da un lato opponevano il dominio della natura in nome del progresso e dall’altro idealizzava la prima in antitesi al secondo. È interessante notare come storici coraggiosi del calibro di George L. Mosse nel suo “Origini culturali del Terzo Reich”, parlino di paesaggio come di un elemento fortemente concettuale che ha una base di partenza esclusiva pericolosissima. Insomma, preso a grandi linee e alla ricerca di formule facili, il tardo romanticismo ha cominciato a dire che il paesaggio era l’ambiente peculiare e familiare per i membri di un ristretto gruppo di persone che si sentiva fuori luogo in città. Il paesaggio di fine Ottocento era diventato ovunque, ma in particolar modo in Germania il supporto linguistico necessario al temibile “noi” che presto avrà bisogno di una sua ideologia razzista suffragata dal fatto che in questa fase il noi era il pronome di persone che a loro dire avevano mantenuto un contatto continuo con lo spirito vitale e col cosmo trascendente. Adottato come risposta al disorientamento novecentesco è facile intuire dove porti l’idea di un paesaggio caricato di valori emozionali e di aspirazioni alla vita rurale, come esplicito rifiuto della società moderna, progredita e industrializzata.
Con l’ambiente insomma, non possiamo permetterci di fare astrazioni e facili generalizzazioni a meno di non minacciare anche paesaggi molto difficili da definire “natura”, come quello agrario, frutto invece di continue trasformazioni.
L’ambiente ha bisogno di parole totalmente estranee al concetto di identità nazionale. Sembra che ci chieda di intendere il paesaggio come idea, come concetto legato al tempo in cui viene espresso e come modalità per “raffigurare” il come viene vissuto e narrato collettivamente il pianeta. Peraltro solo in questo modo il paesaggio diventa un codice linguistico e dunque come tale - può essere interpretato con la consapevolezza dei sistemi valoriali che vi sottendono. L’albero di Google ci fa vedere come la moltiplicazione dei flussi di comunicazione e interconnessione amplifichino e deterritorializzino l’immaginazione paesaggistica da cartolina. Ciò si oppone ovviamente alle follie identitarie e ai discorsi esclusivisti e discriminatori. Quella di quest’albero è una critica sul modo col quale noi guardiamo il mondo, soprattutto quando lo facciamo con la categoria del possesso e dell’identificazione assoluta di un popolo o di una nazione. Studiare la complessità della natura significa invece cogliere la sovrapposizione di problematiche e fare spazio alla dimensione etica del vivere nella sua relazione costante con il prossimo. Anche fosse un solo albero.
Dall'alto:
Paesaggio con la Fuga in Egitto di Annibale Carracci
7000 querce di Beuys
Paesaggio con fiume di Leonardo da Vinci del Gabinetto dei disegni di Firenze
Voice of nature di Thijs Biersteker