Il cinema come lo ha vissuto e realizzato Alberto Grifi, una specie di Socrate della settima arte. A lui, con lui e per lui, Stefania Rossi – artista, videomaker e documentarista – ha dedicato un libro
Sarebbe bello se la malattia profonda che ha colpito gli umani — “l’incapacità di pensare con il cuore” —, potesse guarire con l’arte. Magari con il cinema, non quello del capitalismo imperante, costruttore di realtà fittizie, bensì un cinema che guardi all’arte come maieutica, un cinema che aiuti a nascere.
Il cinema come lo ha vissuto e realizzato Alberto Grifi, una specie di Socrate della settima arte. A lui, con lui e per lui, Stefania Rossi – artista, videomaker e documentarista – ha dedicato un libro che, forse in onore al pedinamento zavattiniano, non viene mai meno alla volontà di non scindere la professione dalla vita. Ecco allora che il volume s’avvia con una lunga intervista a Grifi durante un incontro nel 2004 “Il cinema de còre”; seguita da “Biografia”, per quasi centocinquanta pagine nutrite di vita e film, scritti e detti del cineasta cui interessavano più le opere in corso del cinema, tante testimonianze e, infine, la filmografia. Un libro da divorare, letteralmente.
Sarà che incontrando il regista romano, mancato nel 2007 a sessantanove anni, studiando i suoi scritti, guardando i suoi film e parlando di lui con tanti amici e collaboratori, la quasi trentenne videomaker di Saronno, riesce a mutuarne l’interesse per chi crede che “si abbia necessità di una creatività collettiva”.
Libro corale, di tante voci intorno alla solista, la voce di Grifi: “Ci sono delle prigioni che stanno nella testa della gente, dalle quali è difficile uscire.” La pensava così Grifi, e raccontava dell’uccellino in gabbia che ci sbatteva contro mal sopportandola, e cantava ma non riusciva ad aprirla, la gabbia, fino “ad impazzire di dolore”: la libertà è una difficile conquista, sembrano dirci la vita e il fare – per Grifi è come se l’idea stessa di opera d’arte venga meno -, di quest’uomo generoso e vitale fino all’ultimo.
“A me interessa girare la vita nel momento in cui avviene”: insofferente alla sceneggiatura, il regista di “Anna” – quattro ore di film girato in sei mesi fra il ’72 e il ‘73 intorno a una creatura in miseria, piena di pidocchi, impaurita e poi incinta, salvata per divenire “cavia di un esperimento registico”- non aveva dubbi: la vita è più importante di ciò che la rappresenta. E quando Anna si ribella – Anna non vuole fingere, vuole essere, non vuole pietà vuole amore -, tutto cambia: l’abbandono di un barlume di sceneggiatura comporta l’abbandono della macchina da presa per filmare con il videotape. E’ presa diretta e da lì il film si sviluppa in un procedimento totalizzante, tutto ci entra, prima del ciak e dopo lo stop, in un crescendo di flashback e replay.
“Anna”, scrive l’autrice del libro, è uno degli esempi più significativi che la cultura underground ha prodotto e allo stesso tempo una delle tappe fondamentali nella storia del cinema.
Foto tratta da www.albertogrifi.com
Di quell’esperienza, Grifi salvava soprattutto il modo nuovo di “vivere e di pensare i rapporti interpersonali fuori dei luoghi gerarchici e di potere”: rapporti “fondati su valori rinnovati e su base creativa”. Anna, si legge nel libro, “è un film che ha fatto epoca perché ha fotografato il disagio del mondo che stava per arrivare”, un mondo patrigno che avrebbe fatto fuori un’intera generazione con l’eroina e quello sbattere contro la gabbia che è stato il terrorismo.
E sebbene né droga né lotta armata erano nel quotidiano di Grifi, il sistema trovò modo di spezzare la sua ricerca verso una “nuova grammatica dello sguardo”, e fra il ’68 e il ’70 lo incarcera con un’accusa montata ad hoc.
Fin lì, e anche dopo, un’invenzione continua: costruiva obiettivi speciali, prismi ottici, sistemi di specchi a superficie discontinua, modificava le macchine da presa e, su tutti, il vidigrafo, sistema per passare in pellicola il girato in video e, da ultimo, il lavanastri.
Strumenti e marchingegni che Grifi utilizzava per un cinema altro, non certo “l’istituzione marcia che è”, un cinema underground, polemico verso qualsiasi estetismo da film di cassetta. Un cinema dell’accadendo e non dell’accaduto, secondo la lezione di Cesare Zavattini la cui casa prese a frequentare nei primi anni ’60, anni in cui in Alberto maturò l’idea di fare cinema, arte che fino all’ultimo concepì “per strappare pezzi di vita autentica a quella falsa del capitale”.
Convinto che “la gente vera fa cose che ad un attore non gli basta una vita”, Alberto Grifi sarebbe riuscito con il suo fare a far cambiare idea persino a Simone Weil che riteneva il cinema la più esatta forma di un secolo barbaro come il Novecento, forma da “mito della caverna”.
Quanto alla supremazia dei giorni nostri della tecnica sull’arte, il regista ci ha lasciato parole illuminanti: “L’importante è sapere che tutte le tecnologie nascono per controllo militare, controlli polizieschi. Ma tu poi le devi rovesciare contro il nemico, contro chi le costruisce e diffonde. Sapendo che sono fatte contro di te.”
La foto di apertura è tratta da news.cinecitta.com
L’evoluzione biologica di una lacrima – Il cinema di Alberto Grifi
Il libro di Stefania Rossi
Timìa edizioni 2017 - pag 223