La città, anche quella europea, è sempre più un’ipercittà, restìa alle definizioni e lontana dalla classificazione. Quartieri complicati frutto di vecchie pianificazioni urbanistiche, grandi infrastrutture, o città senza forma, a forma di nebulosa o di sciame…
L'escluso delle fotografie di Soham Gupta (nato nel 1988 in India, vive e lavora a Calcutta) è colui che segna i confini di chi detiene il potere. Nel suo caso, le persone ritratte vivono in strada, ma non hanno occhi languidi o pose tragiche: loro sono i trascurati che si trovano nella condizione di dover essere nomadi, in giro per strada, e per di più di notte. Questo tipo di escluso allora è indicatore di confini. La città metropoli in cui abita è d’altro canto flusso brulicante di integrazioni complesse. La città priva di spazi vuoti, non tanto perché non ce ne siano ma perché chiamati scarti, ha spazi di nessuno spesso annichiliti dal degrado. La città anche quella europea, è sempre più un’ipercittà, restìa alle definizioni e lontana dalla classificazione. Quartieri complicati frutto di vecchie pianificazioni urbanistiche, grandi infrastrutture, o città senza forma, a forma di nebulosa o di sciame… La città che ospita questa umanità diventa allora l'espressione di modernità multiple. Anzi, si può dire che in queste metropoli e soprattutto nelle megalopoli si verifica una vera e propria forma di compresenza di modernità a vario livello di civilizzazione. Credo che la stretta correlazione e condivisione di spazi e di situazioni (che farebbero parte invece di epoche e zone lontane tra loro), permetta ora di sperimentare questa sincronica modalità di convivere. Una coesistenza caotica che rivela un dinamismo basato sulla confusione, sulla mescolanza e sull’opposizione. In queste città si vanifica ogni tentativo di disegnare la modernizzazione come qualcosa di definito e definibile, in qualche caso si contraddicono i poteri dominanti, mentre si rifiuta la sottomissione alle volontà di globalizzazione. Gli esclusi ritratti in queste foto dunque, si aprono spazi di appropriazione, spazi validi per se stessi dove è possibile assistere a processi di autocostruzione come individui sociali (processi antropopoietici direbbe l’antropologo), nei quali avviene una sorta di co-creazione di cultura atta a dare nuovi significati all’esistenza. Avviene un processo in grado di immaginare cioè scenari inediti coi quali respingere ad esempio, i disegni di localizzazione imposti dall’alto.
Sempre più spesso, studiosi che provengono dalle più diverse discipline pubblicano resoconti e analisi relative a questo modo di vivere, ai valori sottesi e a ciò a cui assegniamo una dimensione qualitativa. Economisti alla Jeremy Rifkin ad esempio, o la coppia di studiosi Negri-Hardt nei loro scritti rilevano la necessità di porre attenzione alla diversa comprensione dello spazio che caratterizza le culture, anche in ragione delle intersezioni sempre più strette tra ambiente e lavoro.
Anche l'architetto e antropologo Franco La Cecla, parla di "culture dell'abitare", e per le civiltà più primitive, ci racconta di quanto si aderisse ad una concezione relativistica (einsteiniana) e non newtoniana dello spazio. Una capacità di recepire il mondo (olistica si direbbe), senz’altro più organicistica di quella della società moderna e occidentale. Che sia il futuro delle megalopoli? In esse il macrocosmo e il microcosmo sono inevitabilmente identici e dunque parlare di antropologia significa in sostanza fare riferimento alla cosmologia dell'abitare.
Lo stesso insediarsi in un luogo era già una cosmografia oltre che un modello statico. Il villaggio era un cosmo e in quanto tale pretendeva il suo stesso rigore, la sua medesima logica. Ciò perché la comprensione dello spazio – ci insegna da anni l’antropologia - non vuole e non può essere asettica. Anzi, si tende alla dimensione propria, personale, interrelazionale di un rapporto uomo-ambiente che forse abbiamo perso. Eppure ancora oggi, la moderna psicologia parla di una percezione di sé che si definisce in rapporto al proprio ambiente. Se non altro perché la mente è in grado di creare un profondo senso di appartenenza ad esso e al contempo una profonda conoscenza di ogni suo aspetto. Non a caso, delle megalopoli messicane, cinesi o americane conosciamo l’antropologia dei modi coi quali sempre più spesso si rifiuta la cittadinanza limitata all’inclusione.
È interessante notare come nella storia dell’architettura si parli di una "mente locale" per la quale abitare uno spazio significava non solo trovarsi in esso, ma farlo proprio cedendo il patrimonio di modelli già sperimentati. Negli anni Ottanta e Novanta, l’architetto e performer Vito Acconci si chiedeva quante volte ci accorgiamo che lo spazio è fatto da ciò che vogliamo e decidiamo di guardare. Insomma, quante volte siamo disposti a vedere che soggetto e luogo si co-originano? Nei programmi dell’architettura più moderna, ma anche nelle dichiarazioni di artisti che a partire dalla nascita del sentimento di paesaggio (ricordo che i primi paesaggi italiani sono stati dipinti nel XVI secolo) gli artisti si accorgono della portata rivoluzionaria di questo modo di relazionarsi con ciò che è fuori da sé. È per questo che fondamentale presso le popolazioni più antiche (basti pensare agli Etruschi), è il porsi in ascolto della sapienza dei luoghi.
Abitare crea habitudo. Ci si abitua al luogo. Si presta attenzione alla sua specificità. Ci si comporta e si aderisce ad uno stile di vita come ad un abito. Ciò favorisce la nostra comprensione del mondo abitato. La conoscenza del proprio ambiente però si forma anche attraverso il contributo di generazioni di abitanti precedenti. Al deposito delle loro abitudini, all’insieme delle conoscenze. Si capisce da qui come la scelta del luogo dove abitare sia un atto estremamente importante, che ha a che fare con la propria identità. Significa creare un ordine. Combattere il caos. Suscitare il sacro a partire dal profano, direbbe oggi il pittore ecologista Friedensreich Hundertwasser. Riti e cerimonie di sacerdoti o sciamani, codificate in scienze sacre gelosamente tramandate, ci convincono del fatto che si tratti di una vera e propria disciplina che forse ben presto diventerà “geografia”.
Casa, villaggio, città non sono oggetti statici, come ci ostiamo a credere prima di ogni terremoto. Possono nascere e sopravvivere solo grazie alla costante comunicazione interno/esterno. Essere fuori casa oppure dentro. Vivere il pericolo o l’abitudine. Queste sono le dimensioni alle quali il geografo Franco Farinelli risponde al fatto che nel futuro gli uomini saranno chiamati a mettere da parte i modelli di natura cartografica e vedere la Terra come un luogo da reinventare o comunque da rileggere.
Lo spazio del XX e XXI secolo vive infatti un regime di indifferenza territoriale, di estraniamento tra gli abitanti ed il loro territorio, di una distrazione permanente rispetto al luogo. Percorsi da diversi mondi culturali e da una molteplicità di posizionamenti, queste città non hanno più esterni o interni: sono attraversate e dilatano i confini. Non si configurano più secondo gli schemi dualistici propri del dentro/fuori. Si inseriscono nella stratificazione della molteplicità. A volte riannodano i fili di una storia interrotta di schiavitù, di urbanizzazione e di modernizzazione selvaggia. Fondano la sfera dei diritti sull’interconnessione fra aspetti materiali, economici e culturali e costruiscono il proprio statuto sul superamento dei meccanismi dell’esclusione e disuguaglianza
In passato invece, al desiderio di controllo e pianificazione, rispose l’istituzione, lo Stato nazione con la sua razionalizzazione a fini economici ed amministrativi di tutto ciò che comprende l’abitare. Divenne evidente quando l'Europa mise mano sin dal XVII secolo, ai sistemi di divisione oggettiva dello spazio cittadino. Il catasto nella Toscana del XVIII secolo svincolò concettualmente i luoghi dal riferimento alle località.
Lo spazio perde la sua unicità e viene trasformato da occasione per abitare a vuoto da riempire. Negli anni Settanta l’artista americano Gordon Matta Clarck ha costruito la propria poetica sul ruolo di questi vuoti come apparati per definire e indurre comportamenti. I buchi decostruiti dal suo martello pneumatico cercavano di contrastare il funzionalismo dell'edilizia moderna. L’artista cercava di dire al cittadino che le leggi del mercato lo stavano costringendo a non dover perder tempo con lo stabilire una relazione troppo complessa con il suo ambiente. Questa però non era e non è libertà. Una casa non è buona solo perché in essa tutto funziona dal punto di vista igienico ed economico. L'abitare non è il verbo da affiancare alla parola 'residenza'. Le fotografie di Gabriele Basilico – primo grande fotografo di costruzioni – ci testimoniano invece che i timori di Matta Clarck sono diventati realtà e che la casa è sempre più un domicilio regolarizzato e disciplinato. I casermoni che campeggiano nei suoi scatti sono la prova tangibile di una serie di trasformazioni sociali, economiche e dunque mentali ed emotive del mondo industrializzato. Ci dicono cosa siamo diventati.
Agli inizi degli anni Settanta, i lavori degli artisti europei coevi a Matta Clark creano delle vere e proprie Situazioni per andare contro ad una società ridotta a grande mercato. Nella logica sessantottina cercano di dire no alla massa di acquirenti. Abbiamo bisogno di uomini che si rendano conto di essere stati privati della loro autonomia. Che sono stati resi sempre più dipendenti, in tutto ciò che è indispensabile alla loro esistenza. Che la loro vita si misura dall'acquisto di merci. Questi artisti denunciano che ogni bisogno e ogni facoltà umana siano trasformati in occasione di consumo. Gli esperimenti di psicogeografia dei Situazionisti andavano a creare confusione nel mondo dei compratori ignari che il bene che considerano scarso è invece alla sua origine abbondante e già a loro disposizione.
Il risultato che si vuole a tutti i costi è il contrasto alla desolazione, all'omologazione e all'anonimato tipiche delle città moderne prive di centro e di confini. Già Jean Baudrillard parlava del senso di smarrimento che si impossessa dei cittadini trasformati in “utenti” il cui unico spazio personalizzabile è oramai solo la disposizione dei mobili nella propria casa. Nel mondo dell’arte visiva, artisti come Jean Dubuffet rimproveravano una società mutilata della capacità di fare esperienza dell'alterità, di relazionarsi al diverso, esperienza impossibile a chi non possiede più nemmeno una propria identità. Lo stesso Joseph Beuys si chiedeva – anche in ragione di una sua personale battaglia politica - quale potesse essere il ruolo e la capacità dei movimenti ecologisti nel riattivare la facoltà umana dell'abitare. Oggi, sono i filosofi alla Micheal Sandel a suggerirci di opporsi alla furia delocalizzante delle multinazionali economiche, nell’ambito di un movimento culturale che non smette di affascinarmi come il Comunitarismo, nato alla fine del XX secolo allo scopo di mettere in discussione individuo e comunità.
Attualmente, il dibattito che mi sembra più interessante è quello di chi cerca di opporsi alle strategie di neutralizzazione dei soggetti in ragione del desiderio di opporsi a quel neocolonialismo ecologista dell'Occidente che pretende di esportare modelli assoluti di protezione ambientale e che ordina di insegnare alle popolazioni native del 'Terzo Mondo' come fare la loro rivoluzione ecologica. Forse bisognerebbe rileggere il romanzo dal titolo Libertà di Jonathan Franzen per smettere di avere la pretesa di insegnare loro come prendersi cura del loro ambiente. Smettere di illudersi di poter salvare la natura a prescindere dagli indigeni o dalle popolazioni locali. E soprattutto accettare che le culture locali abbiano le proprie soluzioni o che non siano in attesa di ottenere il nostro permesso.
Si prospetta il superamento della sovranità statale compromessa dall’inefficacia del consenso su cui poggiava il patto sociale e le promesse del welfare o della stabilità dello stato nazione unitario. Eppure per quanto complessa, questa situazione invita a pensare alla ricerca di modi di abitare come nuove configurazioni di culture.