“L’albero degli zoccoli” lo vidi grazie alla scuola. Era il 1978 e avevo nove anni e il fatto di andare al cinema la mattina, in modo istituzionale in un certo senso, ricordo che aggiunse all’impresa un senso di solennità. Tre ore di film a quell’età non sono cosa da poco, di un film così poi.
“L’albero degli zoccoli” lo vidi grazie alla scuola. Era il 1978 e avevo nove anni e il fatto di andare al cinema la mattina, in modo istituzionale in un certo senso, ricordo che aggiunse all’impresa un senso di solennità. Tre ore di film a quell’età non sono cosa da poco, di un film così poi. Non compresi tutto, anzi sono certa che non compresi molto, anche se tanto di quel mondo lo conoscevo da vicino, avendo trascorso molti dei miei piccoli giorni in campagna proprio in mezzo e insieme agli eredi di quei volti che apparivano nei quadri che, così grandi sopra di me, Olmi aveva scelto per comporre la sua opera d’arte.
Anche i racconti che avevo sentito erano gli stessi, ma per voce emiliana. Riconobbi invece i gesti, la reverenza dei gesti, il chinarsi alla terra, l’imprecazione sollevata dal suo tradimento e dalla sua richiesta indefessa di devota fatica, sempre rivolto al cielo lo sguardo, al cielo nel bene e nel male. Sulla terra, mi hanno insegnato e mia madre è ancora strenua portatrice di quella tradizione, c’è una misura dell’uomo particolare: non c’è nessuno sopra e sotto, né davanti né dietro. È una dimensione estesa, longitudinale come un abbraccio, che permette solo il stare di fianco. Sarà, mi chiedo ancora, l’aver conosciuto così da vicino l’ombra dei padroni e l’indomabile essere della natura che ha reso consapevoli quegli uomini e quelle donne di una fragilità che va protetta reciprocamente? Di questo grande film, si potrebbe dire tanto.
C’è però un suo frammento che ho scelto e che uso nel corso delle mie lezioni dedicate alla Traduzione della vita, in particolare al Mistero. Qui la mano in “trasparenza” di Olmi, quella “trasparenza” che Susan Sontag riconosceva come il valore più elevato e liberatorio dell’arte, il saper cogliere la luminosità insita nelle cose mostrate nella loro autentica essenzialità, dice tutto della visione della sua regia. In un frame inquadra il gesto passato tra il nonno e la nipotina, una forma di riscatto dalla rassegnazione e insieme di rigenerazione, il mettere a dimora le piantine dei famosi pomodori di Anselmo divenuti cifra poetica e di vita, tra le parole del dialetto bergamasco e la musica di Johann Sebastian Bach. E lì, per quanto noi ci prodighiamo e diciamo, lì per quanto ne so io finora, in quel frammento, è racchiuso il senso del sacro di chi da sempre lavora la terra in comunione con la terra, che è una forma di innocenza, di stupore e terrore, di silenzio e di rispetto che dona la consapevolezza quotidiana del farne integralmente parte e dell’integralmente dipenderne. Anche per questo credo che “L’albero degli zoccoli” sia l'eredità che ci ha lasciato questo grande regista, il suo sguardo capace di scorgere l’oltre e di chiederci di pensarlo e farlo con lui, quel salto dal vedere e sentire ordinario. Oppure è solo un film, quello che ci ha lasciato, uno dei più belli mai girati, che dice ancora oggi molto di noi, e anche solo questo sarebbe immenso come lascito.
«[…] già mentre scrivevo la sceneggiatura mi resi conto che la scelta delle musiche per questo film sarebbe stato un momento delicato: non avevo idee precise e anche le poche soluzioni che mi venivano in mente non mi piacevano e le scartavo quasi subito. Durante le riprese mi tornava ogni tanto il pensiero di "quale musica" ma ogni volta rinviavo ad un altro momento aspettando che quasi fosse la musica a trovare me invece del contrario. E si può dire che è avvenuto proprio così. Per avere un'idea del ritmo di montaggio di certe sequenze di solito provo accostare alle immagini brani di musica qualsiasi e la cosa più o meno funziona sempre.. Questa volta, stranamente, il film rifiutava qualsiasi tipo di musica, come se le atmosfere della campagna e le vicende dei contadini appartenessero ad un mondo diverso (a una cultura diversa). Alla fine quasi per rassegnazione, provai con una Sonata per organo di Bach, e subito mi resi conto che avevo finalmente trovato la musica per il mio film. Qualcuno ha detto che Bach è forse un tocco eccessivamente aristocratico per un film sui contadini. Non sono d'accordo. Credo che la grandezza di Bach, come la poesia, non sia né aristocratica né popolaresca ma semplice ed essenziale come la verità. Perciò sono convinto che il mondo contadino e la musica di Bach si conoscessero e andassero d'accordo ancora prima che si incontrassero nella colonna sonora dell'Albero degli Zoccoli.» (Ermanno Olmi, Bergamo, 24 luglio 1931 – Asiago, 7 maggio 2018)