Coinvolto nel progetto Tre colori, Preisner trasportò insieme a Kieslowski e Piesiewicz il suo pianoforte su per le scale fino all’appartamento in cui avrebbe composto la musica, mentre al piano di sotto regista e sceneggiatore avrebbero trascorso il tempo fumando, bevendo, chiacchierando di Dio e automobili per poi gettare su pezzi di carta recuperati a stento qualche idea per il film.
Se invitato a firmare un autografo, Zbigniew Preisner trasforma la coda dell’ultima “r” nell’incipit di una semicroma, cui ne accosta altre per poi racchiuderle tutte dentro un pentagramma. Mentre era impegnato a registrare la colonna sonora di Film Blu con l’orchestra Sinfonia Varsovia, il compositore nato a Bielsko-Biała il 20 maggio 1955 ricevette svariate visite della protagonista del film, Juliette Binoche, che si immerse tanto nel proprio personaggio di presunta compositrice da consigliare al maestro la sostituzione di un oboe con un clarinetto. Consiglio che, accantonata qualche perplessità, Preisner seguì, e poco conta che oltre vent’anni anni dopo, durante la presentazione di un libro dedicato a Kieslowski e al suo rapporto con la musica, Preisner smentisca l’aneddoto riportato da Ermanno Comuzio su «Cineforum» (n. 353/1996): si nasconde una piacevole levità in questo creatore di musiche che hanno una poderosità intensa da XIX secolo, le cui ultime produzioni cinematografiche sono per nientemeno che The Tree of Life di Terrence Malick e La grande bellezza di Paolo Sorrentino.
Levità che caratterizzava Krzysztof Kieslowski, pure molto affezionato alla propria malinconia, al grigio temperamento dei suoi concittadini e al clima plumbeo della Polonia, pessimista per scelta – per «poter gioire nell’essere eventualmente smentito dai fatti del Caso» –il quale al contempo amava giocare con i suoi collaboratori e i suoi spettatori. Ad esempio intessendo rimandi minuti da un film all’altro; proponendo il progetto (mai realizzato) di distribuire 17 versioni di La doppia vita di Veronica in 17 sale, ciascuna con un dettaglio diverso che solo i più attenti e accaniti avrebbero potuto scorgere (dopo esserseli visti tutti e 17); accreditando nei titoli di coda alla vaga voce “musica” l’autore Van den Budenmayer (o anche Van de Budelmayer o Van de Budelmeyer), inventato di sana pianta insieme a Preisner per ragioni assai prosaiche.
«La cosa è nata per Decalogo 9: volevo utilizzare un lied di Mahler come brano eseguito dalla ragazza in cura dal medico protagonista (che poi ascolta il disco), ma i diritti di riproduzione costavano più di tutto il film messo insieme. Allora abbiamo pensato a un autore fittizio, che fosse però un Signor Autore. Ho cercato all’ambasciata olandese un nome antico. Budelmeyer suonava bene. Perché olandese? Perché passavo davanti all’ambasciata olandese». Lo scherzo piace tanto da ritornare in La doppia vita di Veronica, dove Weronika intona un suo lied, che Véronique insegna agli allievi; in Film Blu, dove gli viene attribuito il memento che Julie inserisce all’interno della musica che sta componendo; in Film Rosso, dove Valentine ascolta il suo CD in un negozio di dischi, vorrebbe acquistarlo, ma qualcuno (il giudice giovane) la precede e si accaparra l’ultimo esemplare disponibile. Lo scherzo riesce tanto che numerosi critici crederanno a una figura storicamente esistita: dopo essersi burlati di loro affidando a Van den Budenmayer uno stile musicale preciso (quello di Preisner) e persino una data di nascita e di morte (1752-1793), regista e compositore hanno dovuto poi faticare parecchio per convincere che si trattava di una fantasia («Il British Music Institute tuttora mi scrive perché non crede che Van de Budelmeyer sia un’invenzione» chiosò Kieslowski sogghignando).
Preisner e Kieslowski si incontrano nel 1982 tramite Antoni Krauze del gruppo TOR, la casa di produzione cui si appoggia il regista per realizzare i primi lungometraggi. Pochi anni dopo collaborano per Senza fine, Breve film sull’uccidere e Breve film sull’amore. Il lavoro è semplice: Kieslowski richiede melodie orecchiabili che lo spettatore possa ricordare facilmente.
Il rapporto tra i due artisti è da subito anche una sincera amicizia, profonda e feconda: Preisner comporrà 17 colonne sonore per altrettanti film di Kieslowski. Il compositore non fa mai la voce grossa, non elabora pagine sinfoniche ridondanti. Sa aderire alle singole situazioni filmiche, metterne in rilievo i significati tragici, drammatici, ironici, sarcastici senza ricorrere alle coloriture “facili”, ai contrappunti solenni, alla “grande linea” del discorso musicale, conscio che la musica per cinema ha una funzione sola: chiarire ciò che si vede sullo schermo.
Tali sono la stima per Preisner e l’umilità di Kieslowski, che questo col tempo modifica il suo approccio all’elemento musicale cinematografico. A partire da Decalogo comincia a commissionare musiche più complesse, che richiedano uno sforzo. Nel momento in cui diventa un elemento drammaturgico, la musica non può più essere solo “orecchiabile”.
È stata ampiamente analizzata e dibattuta la metamorfosi compiuta dal cinema di Kieslowski in seguito all’incontro con coloro che sarebbero diventati i suoi collaboratori più intimi: oltre a “Zbysek” Preisner, lo sceneggiatore Krzysztof Piesiewicz. Netto è il passaggio dalla fase polacca alla fase francese, evidente l’evoluzione da film come Il cineamatore a Film rosso. Tanto da farci ancora oggi rimpiangere la scomparsa a soli 55 anni del loro autore, che terminata la “trilogia dei colori” avrebbe voluto realizzare un secondo trittico ispirato alla Divina Commedia.
Coinvolto nel progetto Tre colori, Preisner trasportò insieme a Kieslowski e Piesiewicz il suo pianoforte su per le scale fino all’appartamento in cui avrebbe composto la musica, mentre al piano di sotto regista e sceneggiatore avrebbero trascorso il tempo fumando, bevendo, chiacchierando di Dio e automobili per poi gettare su pezzi di carta recuperati a stento qualche idea per il film.
A quel punto, il rapporto tra Kieslowski e il suo compositore era diventato tanto stretto, e il valore drammaturgico della musica così decisivo nella poetica del regista, che il primo avrebbe chiesto al secondo una colonna sonora in grado di farsi protagonista del film. Non nel senso di accompagnamento costante della (extra)diegesi, ma vero e proprio personaggio con caratteristiche precise, un puntuale rapporto con gli altri personaggi, la capacità di provocare scarti narrativi, una presenza fisica palpabile e visibile, oltre che udibile. Il risultato è quello, straordinario, del film Leone d’oro a Venezia nel 1993, in cui il regista di Varsavia trasforma il volto di Juliette Binoche in un paesaggio sentimentale da esplorare con il primo piano, e la musica in un correlativo oggettivo delle sensazioni della protagonista, Julie de Courcy: lampi di luce blu e movimenti di macchina in grado di assalirla, risvegliarla, respingerla dentro l’acqua livida di una piscina aperta di notte.
Nel primo capitolo della trilogia prodotta dal lungimirante Marin Karmitz – che accetta di lavorare con Kieslowski dopo un dialogo di tre ore su etica e religione, in cui il produttore parla in francese e il regista risponde in polacco, prima di salutare accennando al desiderio di realizzare tre film dedicati ai principi rivoluzionari liberté, égalité, fraternité – l’obiettivo è raccontare l’impossibilità dell’essere liberi, partendo dall’assunto che uomini e donne siano destinati/condannati alla dolce schiavitù dei sentimenti. Al punto che anche Julie, suo malgrado nella terribile e affascinante posizione di non avere nessun legame – figlia e marito sono morti, la madre è chiusa in un ospizio e non ha memoria – alla fine cede al richiamo dell’arte/vita e ripiomba nel gorgo delle relazioni (con un nuovo compagno, una nuova amica, la nuova vita portata in grembo dall’amante del defunto marito).
Kieslowski ha iniziato a intuire la valenza drammaturgica della musica all’epoca di Senza fine, che con Film Blu ha più di un’affinità: entrambi raccontano il percorso di una donna, moglie e madre, in seguito alla scomparsa del coniuge, figura prestigiosa e ingombrante. Su entrambi i mariti aleggia il dubbio che a renderli famosi e di talento fosse il contributo della compagna di vita. Entrambi scompaiono a inizio film, il quale diventa così anche il racconto dell’elaborazione del lutto. Senza fine però si conclude con il suicidio della donna, Film Blu invece con una riapertura, per quanto incerta (nella prima versione del finale il volto della Binoche restava serio, senza il lieve sorriso che vediamo oggi): è come se il secondo fosse la prosecuzione ideale del primo, pur nel segno di un modo di fare cinema più maturo, di un’autorialità divenuta indiscutibile, ermetica fino a farsi simbolica.
In La doppia vita di Veronica la musica è onnipresente: la protagonista è una cantante e un’insegnante di musica, la canta, la suona, la fa cantare, la ascolta. Ed è un elemento narrativo: condanna Weronika dal cuore debole a una morte repentina, determinando in Véronique la scelta di rinunciare alla musica e sopravvivere. Ma se nel film con protagonista Irène Jacob la pervasività della musica è dovuta anche al fatto che, ricordava il regista, «molte scene senza musica sono state eliminate», in Film Blu tale pervasività – che intride tanto il mondo della diegesi quanto quello a essa esterno (cioè della lavorazione tout court) – è il risultato di una scelta precisa, è voluta e ricercata perché su di essa si fonda l’intero edificio filmico.
Quando Kieslowski e Piesiewicz si sono seduti al tavolino pensando a cosa raccontare per parlare di libertà, hanno pensato alla storia di un uomo uscito di prigione. Poi hanno intravisto alla televisione un’intervista del compositore Penderecki, accompagnato dalla moglie: da qui l’idea di una compagna di musicista con un ruolo decisivo nella sua carriera. Da qui Julie de Courcy. Da qui la decisione di avere per protagonisti dei musicisti, che hanno in casa pianoforti a coda, conoscono timbri e toni dei diversi strumenti, si lasciano affascinare da un barbone suonatore di flauto, sanno scrivere sulla carta pentagrammata.
Di tutte le arti, la musica è paradossalmente la più fotogenica, perché da sempre integrata all’espressione cinematografica; ed è quella in grado di evocare sentimenti nel modo più potente, in quanto libera da referenti fisici concreti.
La libertà della musica fa della musica l’espediente narrativo per parlare di libertà.
Da qui Film Blu, con la melodia mesta per i funerali di Patrice e Anne (poi eseguita anche ai veri funerali di Kieslowski), o la versione preisneriana del Confutatis mozartiano che diventa espressione degli stati d’animo di Julie, modulata con gli strumenti del mezzo-cinema: dissolvenze al nero come vuoti di memoria o coscienza, panoramiche circolari come abbracci ecumenici, carrelli in avanti o sospensioni del movimento come agire circospetto di questa musica-compagna bizzosa, che culla e blandisce, oppure assale e stordisce. Personaggio Musica, in forma di spartiti finiti nel tritarifiuti, pennarelli blu che disegnano note e sporcano dita; che viene composto, cancellato, riscritto, copiato e nascosto; che irrompe a sprazzi, in quanto ricordo violento, sussulto dello spirito, incubo notturno o a occhi aperti; che Kieslowski fa comporre a Preisner in contemporanea con l’evoluzione della sceneggiatura, sulla quale sono riportati esattamente innesti e durate della colonna sonora, e fa risuonare sul set per favorire l’immedesimazione degli attori.
Prima di cominciare a girare il regista e il compositore sanno esattamente (cosa più che insolita al cinema) dove sarà collocato quale frammento musicale; la colonna sonora è pronta prima di iniziare le riprese e stimolerà in sede di montaggio soluzioni artistiche come i fondus noirs, non più segnalazioni di tempo trascorso, ma momentanei e interminabili assentarsi del personaggio in una stessa scena. Kieslowski con la sua macchina da presa inquadra Julie, intenta a scrivere sul pentagramma la musica che Preisner ha composto: in questa vertigine metalinguistica lo spartito è la sceneggiatura del film (entrambi tagliati, modificati, lavorati), Julie è l’alter ego di Preisner e di Kieslowski. Ella è una compositrice, per quanto occulta, e mostrandola all’opera, Kieslowski mette in scena non solo il lavoro del musicista (di Preisner), ma anche il suo lavoro, quello che ha portato al film (la scrittura, con tutti i suoi pentimenti e messe a punto) e che, abbandonato il set, è continuato alla tavola di moviola, dove il regista e il montatore Jacques Witta hanno creato pause e accelerazioni, leitmotiv e sospensioni, hanno tagliato intere scene, e dato vita a una struttura musicale. Infatti, Karmitz parla del film come di un concerto (mentre Film bianco sarebbe uno scherzo e Film rosso un canone).
Come il Concerto che Patrice stava componendo prima di morire e Julie porterà a compimento. Nell’arco della narrazione, piccoli frammenti musicali si sono associati a piccole scene ripetute, e sia frammenti, che scene sono variazioni del tema iniziale; film e Concerto si sono arricchiti progressivamente, diventando però concisi e densi; nel climax finale la musica trionfa e con lei trionfano Julie, apparentemente risanata, e Kieslowski, che ha condotto in porto la sua opera insieme ai collaboratori, Preisner in testa.
Film blu è un film sulla creazione artistica, di un compositore. Di un regista.