In un momento di grande spaesamento si può cercare riparo nella sua disciplina della percezione per ricostruire il senso dell’arte e quello del mondo.
Pierre Restany svolge un ruolo di primo piano nell’arte europea della seconda metà del Novecento. Ricordarne la portata significa riconoscere la sua eredità e accettare che l’arte si misuri con la coscienza e proponga alternative non dogmatiche al nostro sistema valoriale. In un momento di grande spaesamento si può cercare riparo nella sua disciplina della percezione per ricostruire il senso dell’arte e quello del mondo. Ricordare questo fine intellettuale serve quindi a interrogarsi criticamente sull’arte, su ciò che la costituisce e soprattutto a imparare come leggerne il fattore sociale prima che estetico.
L’arte sta nel pensiero. Parola di Pierre Restany
Ho conosciuto Pierre Restany all’università, quando negli anni Novanta ormai canuto, ma non stanco, venne a parlarci delle novità francesi. Si trattava di artisti che collegavano Parigi alle capitali dell’est europeo all’interno di “azioni ed happening” che lo convincevano totalmente. Le opere che era venuto a raccontarci erano contesti sicuramente concettuali ma estremamente ludici, diversi dagli esiti degli anni ’70. Le parole del fondatore del Nouveau Réalisme ci presentavano i nuovi interessi di questo critico d’arte, grande provocatore intellettuale oltre che lucido e divertito osservatore. Noi lo conoscevamo come il fondatore di un modo specifico di attribuire all'oggetto un valore fondativo dell’arte. Niente più descrizioni o interpretazioni metafisiche, l’arte aveva il compito di misurarsi con la realtà. Era arrivato cioè il tempo di tagliare una fetta di marciapiede e appenderlo alla parete di una galleria alla ricerca di un temporaneo cambiamento del mondo sensibile. Un cambiamento destabilizzante certo, ma capace di rimettere in discussione il valore rappresentativo della realtà oggettiva. Con il suo Nouveau Réalisme Restany cercava nuovi approcci percettivi al reale.
Niente più descrizioni o interpretazioni metafisiche, l’arte aveva il compito di misurarsi con la realtà.
Amico e fine interprete di Ives Klein, Restany sa che la realtà è necessaria all’artista come lo è per tutti gli esseri umani. Questo dato però non significa che la sua lettura e interpretazione debba somigliare nelle forme a quella del classicismo europeo. Abbiamo bisogno di una sua rappresentazione più aderente al nostro tempo che ci abitui a vivere il reale come fenomeno dipendente dal soggetto che la concepisce. Un’immagine del mondo che ci faccia vedere ogni elemento che lo compone, dalla plastica alla spazzatura e dall’industria all’artificiale dei cibi che consumiamo con una acuta critica di fondo verso la società che ha saputo concepire questo modo di vivere. Abbiamo bisogno di artisti che come i dadaisti siano in grado di instillare il senso del dubbio, della precarietà di ciò che ci sembra permanente. Nasce così nel 1960 un movimento mai realmente concluso, che in tutto quello che ci faceva vedere ora, scoprivamo essere ancora attuale. Sapevamo che Restany, amava sottolineare che realismo significava ritorno a una visione concreta del mondo. Che questa concretezza era da intendere proprio come presenza fisica e totale adesione dell’artista al mondo che lo circonda. Che l’intersoggettività, la relazionalità e il coinvolgimento del pubblico (non più spettatore ma artefice dell’opera), e quell’esistenza “produttiva dello spettatore” erano le questioni aperte dal Dadaismo sulle quali bisognava ancora lavorare. Tornava quel Dada dei primi anni del Novecento che non riconosce nessuna teoria, che reputa la bellezza un obiettivo non più perseguibile. Un Dada come richiesta di maggior impegno rivolta verso le generazioni future e dunque come monito più che come movimento artistico. In quel 1994 dunque, data del nostro incontro, Restany non ebbe bisogno di parlarci della famosa serie di azioni-spettacolo realizzate nei primi anni Sessanta a Milano, nelle quali un giovane Christo, aveva pensato al suo primo impacchettamento del monumento a Vittorio-Emanuele II. Nei suoi saggi aveva spiegato che impacchettare significa confermare che noi sappiamo che la realtà esiste solo quando i nostri occhi la vedono. Sapevamo che la distribuzione di mini accumulazioni di “immondizie” imballate da Arman a livello urbano era il tentativo di metterci di fronte alle modalità del consumo che interferiscono nella lettura delle nostre città. Così come facevano i manifesti strappati di Rotella, i monumenti effimeri auto distruttibili di Tinguely o le proiezioni luminose di Martial Raysse. Artisti che lavoravano con un’altra tipologia di strumenti e di pennelli, non per questo meno reali. Anzi: Nouveau Réaliste.
Restany con Mimmo Rotella a Milano nel 1987 - Fonte: Domus
Trent’anni dopo dunque, Restany ci parlava di ricerche fresche, dinamiche e colte che lo entusiasmavano per motivi che mi sembrarono del tutto analoghi. Innanzitutto ci parlò di come queste nuove opere si presentassero al pubblico più come “fatto” che come “cosa” e di quanto questo fatto che si realizza nel tempo e nello spazio senza una forma precisa ed elaborata, si prefiggesse obiettivi analoghi al Dada. Ciò che lo convinceva era che esattamente come in una qualsiasi serata dadaista, avevamo a che fare con una modalità diversa di concepire l’artista e la sua opera. Lo convinceva cioè il fatto che avvertiva un cambiamento di paradigma che portava dalla logica dell’oggetto esposto a quella della creazione di una situazione. Situazione che inglobando lo spazio si concedeva all’osservatore cercando di mettere in discussione meccanismi sociali standardizzati. In che modo ci si confida con un estraneo? Cosa cerco di preservare nel chiuso della mia sfera intima? Perché non cercare di purificare tutte le forme di scambio fino ad oggi assoggettate alle convenzioni?
Vuole che l’opera crei un dialogo e imbastisca discussioni, in una sorta di negoziazione tra uomini, che insieme andranno a comporre un significato.
Parlandoci del giovane artista Philippe Parreno, ciò che ci stava mostrando era l’imperativo di un giovane che come nel suo movimento e prima ancora nel Dadaismo, vuole che l’opera crei un dialogo e imbastisca discussioni, in una sorta di negoziazione tra uomini, che insieme andranno a comporre un significato. Ne parlava con viva partecipazione e noi apprezzavamo la sua capacità di entusiasmarsi per quelle manifestazioni di piazza in chiave parodistica che ci presentava come, “necessarie”, oltre che interessanti dal punto di vista artistico.
Il critico d’arte che non ha mai smesso d’essere militante
Nato nel 1930 e venuto a mancare nel 2003, Pierre Restany resta nella storia dell’arte come il più effervescente e prolifico critico d’arte di stanza a Milano. Frequentatore partecipe dell’attività culturale milanese sin dalla fine dei ’50, Restany aveva un eloquio debordante e una vibrante pronuncia della erre che lo portava ad essere sempre un po’ più avanti a sé stesso.
Negli anni di formazione studia storia dell’arte in Italia e in Irlanda e per vivere scrive a Parigi per alcune riviste che gli commissionano novelle, racconti e saggi letterari. Testi che fanno di lui un sottile analista, un teorico informato e un raffinato intellettuale dal gusto e dallo stile maturo. Un filosofo che presta lo sguardo all’interesse per la critica d’arte militante. Stringe amicizia e rapporti di collaborazione con gli artisti dell’Informel con l’attenzione rivolta verso la pittura gestuale dell’area informale più lirica. Nel frattempo, lavora per gallerie italiane aperte al nuovo – come la Apollinaire di Milano. È qui che porta avanti la sua attività di curatore di mostre d’arte per tutto il corso degli anni Cinquanta realizzando il suo incontro decisivo. La rivelazione di Ives Klein, con quel suo monocromo coraggioso e ardente, permise finalmente a Restany di ordire un discorso critico lontano dal lirismo dell’astrazione. Si poteva finalmente parlare di mondi astratti, dimenticando i risvolti più patetici, aprendosi alla cultura industriale.
César, untitled ‘action-happening’ 1968. Tate Gallery, 5 March 1968 - Fonte: tate.org.uk
Padre del Nouveau Réalisme con un manifesto su sfondo d’oro
A questo punto tutto è pronto. Il 27 ottobre 1960, nel chiuso della casa parigina di Yves Klein, Restany fonda il gruppo e agli artisti di Milano, si aggiungono Spoerri e Raysse. César e Mimmo Rotella, parteciperanno alle manifestazioni successive del gruppo, con Niki de Saint-Phalle, Christo e Gérard Deschamps. La dichiarazione costitutiva del gruppo, scritta di pugno da Restany su sfondi preparati da Klein, è firmata in nove esemplari, uno per ciascun componente del gruppo, sette su monocromo blu, uno su monocromo rosa e uno su monocromo oro. Da questo momento e fino al 1963 Restany s’impegnerà in ogni fronte per promuovere questo nuovissimo raggruppamento artistico. Aprirà gallerie d’arte, s’impegnerà in prima persona organizzando festival e mostre con questo nome; scriverà manifesti per dare modo al gruppo di costituirsi in un blocco unitario, artisticamente coeso pur con tutte le differenze stilistiche del caso.
L’intellettuale che parla di “Naturalismo Integrale” come forma di resistenza alla cultura post industriale
I ’60 sono per Restany anni di grandi viaggi in giro per il mondo (Australia, Israele, Giappone e Argentina tanto per dire alcune delle sue mete), mentre i ‘70 lo vedono occupato con la Body Art e l’Art Sociologique. Nel 1978 però, a seguito del suo viaggio in Amazzonia si realizza in lui un bisogno forse più intenso. Un momento di rinnovata militanza che torna a convincerlo come era già successo in passato. Nasce in lui l’esigenza politica e artistica di mettere in discussione le attese e i disvalori della società consumistica che depreda la natura e scrive il Manifesto del Naturalismo Integrale. Parole infuocate dove esalta (anticipando i tempi, come al solito), la rigenerazione della percezione e della sensibilità attraverso una riscoperta della Natura. Fa il suo affondo sollecitando il bisogno di un naturalismo essenzialista e fondamentale che apra la nostra coscienza e si protegga dai giochi di potere. Un naturalismo che chieda all’arte di dubitare della sua giustificazione materiale. Che le dica che arte è concetto e tale può restare in nome di una dematerializzazione che vada alla ricerca del senso nascosto delle cose. Un naturalismo che cerchi di combattere l’inquinamento dei sensi e del cervello più che quello ambientale. Ancora una volta, troviamo Restany a capo di una rivista che si occupa di temi relativi al binomio Natura/Cultura con dibattiti e conferenze organizzate ovunque.
Gli ‘80 sono ancora anni di profonde riflessioni teoriche: l’epoca di numerose pubblicazioni a metà strada tra l'arte e la cultura post-industriale, mentre verso la fine degli anni '90 teorizza il cosiddetto "shock tecnologico". Una poetica che Restany vuole sviluppare nell'universo spirituale e immaginario, intesa come una specie di altra dimensione pregnante di vibrazioni e di energia cosmica. Uno spazio che diventa vuoto immateriale ancora una volta tutto da indagare.
In quel 1994 lo vediamo un’altra volta entusiasta di qualcosa che tornava ad essere antidogmatico, aperto alla ricerca internazionale, diffuso tramite strumenti non ufficiali, nutrito da rapporti personali e consonanze ma soprattutto ho avuto l’occasione di vederlo nella sua tipica veste di ‘maestro accordatore’ di esigenze pressanti di vita e di speranza.
Foto di apertura tratta da Domus