«Ai tempi di Cinico TV accusavano me e Ciprì di essere degli sfruttatori, dei sadici, e via dicendo. Poi con il passare del tempo coloro che hanno conosciuto davvero bene il nostro lavoro hanno capito che ci mettevamo sullo stesso piano, ci mettevamo in gioco, con una postura simile a quella degli esperimenti di Basaglia.»
Vedendo i suoi lavori, di Franco Maresco si conosce in prima istanza la voce, una voce che è immancabilmente fuori campo, proveniente cioè dal limitare della scena, da una posizione il cui confine è sempre difficile definire perché è essa stessa il confine di quel che si vede. Sfruttando questo suo essere al limite, al tempo stesso dentro e fuori da ciò che accade, si ha una visione privilegiata delle cose, che si mostrano per quello che sono. Abbiamo potuto incontrare Maresco e ascoltare la sua voce durante l’edizione 2015 di Registi fuori dagli sche(r)mi, dove ha presentato il suo Belluscone, ricognizione con cui cerca di capire l’Italia attraverso la Sicilia (ed è Maresco stesso a citare prima il Goethe del Viaggio in Italia, «non si può capire l’Italia senza capire la Sicilia» e poi Sciascia, quando diceva che «la linea della palma stava avanzando, ovvero che l’Italia si stava sicilianizzando»). «Fare cinema è un atto di fede» ci dice, «ma durante la lavorazione di Belluscone ho avuto diverse occasioni per perdere quella fede».
C’è un momento molto forte nel film, il commiato della tua voce, che è uno dei tratti caratterizzanti della tua cinematografia. Poi la tua voce ritorna, ma quella sensazione di commiato, quel senso di sconfitta, che è la sconfitta di un autore in quanto tale, rimane.
Il film ha un tema a me molto caro, quello del fallimento, ed è il compimento di una specie di trilogia che comincia con Il ritorno di Cagliostro, prosegue poi con un film non molto conosciuto, Io sono Tony Scott, dedicato a un grande jazzista siculo-americano, e si chiude idealmente con Belluscone.
Il film era cominciato con un altro intento, un intento commerciale, per quanto io possa immaginare un film commerciale, ed era l’idea di raccontare Berlusconi quando era ancora al governo, ma dal punto di vista di noi siciliani, e quindi di provare a raccontare la sicilianità di Berlusconi. Senza la Sicilia Berlusconi non avrebbe il potere che ha ottenuto, e la sentenza a carico di Dell’Utri sta lì a confermarlo. La mia idea era di fare qualcosa di simile a La trattativa, ovvero fare, con una componente satirica, se vogliamo comica, una sorta di inchiesta. E ad un certo punto mi sono reso conto che non mi piaceva, non mi riconoscevo, mi sembrava di fare qualcosa che altri facevano meglio, come Travaglio, Santoro... sentivo che c’era qualcosa che mancava.
La mia idea era di fare qualcosa di simile a La trattativa, ovvero fare, con una componente satirica, se vogliamo comica, una sorta di inchiesta.
Ho quindi incontrato di nuovo Ciccio Mira (l’impresario di cantanti neomelodici protagonista di Belluscone, ndr) e lì è venuta l’idea di non raccontare più Berlusconi bensì “Belluscone”. In questo scarto, che compiamo noi siciliani, attraverso il quale si perde la erre in luogo di una doppia elle, avviene qualcosa di simile a quel che accade nella musica, nel jazz, come quando Billie Holiday o Louis Armstrong giocano con il tempo, spostano o anticipano degli accenti, e cambia tutto. Allo stesso modo sostituendo una o due lettere in Berlusconi cambiano il senso, l’interpretazione e il racconto. Per questo penso, con Ciccio Mira, di aver trovato la chiave per raccontare non tanto Berlusconi quanto il berlusconismo e dispiegarne la genesi.
Hai detto di aver incontrato “di nuovo” Ciccio Mira. Come instauri i rapporti con i tuoi personaggi, e come continuano dopo il film?
Ai tempi di Cinico TV accusavano me e Ciprì di essere degli sfruttatori, dei sadici, e via dicendo. Poi con il passare del tempo coloro che hanno conosciuto davvero bene il nostro lavoro hanno capito che ci mettevamo sullo stesso piano, ci mettevamo in gioco, con una postura simile a quella degli esperimenti di Basaglia. Non dico le conseguenze che questo atteggiamento comportava nella vita privata, mi limito a dire che avevo un rapporto intenso con gli attori, era una specie di psicodramma. Non è un caso che i miei film durino tre anni, proprio perché in essi non vi è la creazione di una scena, di un set dove tutto finisce, ma c’è un rapporto che si consolida, fino a un’identificazione tra vita e arte.
Nel caso di Ciccio Mira, questo significa entrare in un mondo, viverci, ottenerne la fiducia, creare un rapporto che continua dopo il film, che diventa un prolungamento di quello che si vede sullo schermo. Ciccio è una specie di scheggia del passato, di un altro mondo, dove non ci sono guardie e ladri, eroi o antieroi. È già apparso ne Lo zio di Brooklyn, nei panni di se stesso, per qualche secondo in un momento centrale del film: c’è lui, suona la chitarra e canta Chella llà. Poi l’abbiamo incrociato in altre cose, in altre occasioni. Il bianco e nero che utilizzo nel film, che separa Ciccio Mira da tutto il resto, è un escamotage evidente per cercare di ritagliare uno spazio, una dimensione, ovviamente illusoria, in cui collocarlo. Qualcuno ha insinuato che non amo i personaggi di Belluscone ad eccezione di Ciccio Mira. Ed è vero: nel film mi sono divertito solo quando stavo con lui. Quindi per me è come apparentarlo, ricondurlo ad un mondo che era in bianco e nero in anni in cui io e Ciprì non volevamo riprendere col nastro magnetico a colori perché il colore in quegli anni era una cacata tremenda, di una bruttezza unica.
Adesso il colore fa veramente schifo perché il digitale ha ucciso completamente il cinema, a mio avviso.
Adesso il colore fa veramente schifo perché il digitale ha ucciso completamente il cinema, a mio avviso. Ciccio risulta essere un uomo vero, dentro una realtà invece a colori, nel colore della deriva, il colore dell’imbarbarimento definitivo. Credo che nessuna distopia, nessuno poteva prevedere e immaginare questo orrore. Mi sono ritrovato di fronte ad una realtà agghiacciante, ad una realtà che conoscevo, che naturalmente non si è materializzata adesso. Sapevo che cosa stava succedendo e in questo senso credo che Cinico TV sia l’antefatto, l’anticipazione, o se preferisci la profezia, di un’apocalisse che sarebbe arrivata. E in ogni commiato è sempre doloroso ritrovarsi a toccare con mano che un mondo è sparito per sempre.
Bressane, nell’altra intervista per Uzak, guarda anche lui con orrore al digitale. Lui faceva un discorso intorno alla luce: con la pellicola la luce attraversa la materia del film e si proietta sullo schermo, mentre col digitale c’è questa inversione del fascio luminoso, lo schermo è buio e ne vengono illuminate alcune parti, e in questa inversione vedeva una perversione della luce.
Aggiungerei che la pellicola, essendo fatta di chimica, fatta di materia, in qualche maniera pone una distanza rispetto all’immagine e rispetto a quello che c’è al di là dell’immagine. Il digitale ha definitivamente eliminato la distanza, a mio avviso necessaria, e questo ha privato il cinema, non dico di quella magia (potrei risultare banale), ma del suo mistero. Almeno per quelli della mia generazione, il rapporto con le immagini era molto diverso.
La pellicola, essendo fatta di chimica, fatta di materia, in qualche maniera pone una distanza rispetto all’immagine e rispetto a quello che c’è al di là dell’immagine.
Nei primi anni Ottanta a Palermo facevo parte di un cineclub fatto da ragazzi che erano contestatori del PCI e che si chiamava Nuovo Brancaccio, nato nel quartiere in cui scoppiò la seconda grande guerra di mafia, durante la quale il quotidiano «L’ora» titolava non più con parole, ma con numeri: 90, 100, a contare i morti ammazzati. Ricordo cosa significava allora portare lì dalle cineteche, come Tortolina, ormai sparite, una pellicola, tra l’altro non sempre completa, di Erich von Stroheim, o anche del nuovo cinema tedesco (per esempio ricordo un bel film di Wenders, Nick’s Movie, con Nicholas Ray morente...) Ecco, tu vedevi un film e facevi mitologia di un film. Ford, ad esempio: noi eravamo tutti fordiani, vedevamo i suoi film in televisione e sognavamo di poterli rivedere quando volevamo e dove volevamo... non sapevi che sarebbe arrivato quel che è arrivato. In questo senso il cinema era un mistero, era un desiderio.
A volte ho detto a Gianluca Farinelli, direttore della Cineteca di Bologna, «Voi avete ammazzato il cinema», perché questa mania di andare a tirare fuori i dietro le quinte, la filmografia completa di un tizio, restaurarla, vedere continuamente trenta, cinquanta film all’anno, tutto questo ha tolto quel desiderio. È come quando da ragazzini, noi che venivamo da dopo la guerra, avevamo il gelato, e solo se ci comportavamo bene...
Il digitale ha ucciso un’idea di cinema, non dico il cinema.
L’attesa creava desiderio. Credo che questo avere tutto, e averlo quando si vuole, abbia rotto il mistero. Il digitale ha ucciso un’idea di cinema, non dico il cinema. Qualche giorno fa ho visto Turner (non andavo al cinema da dodici anni, da quando c’è il DCP, il digitale) e ho visto la grande tradizione del cinema inglese, ho visto un grande attore, ho visto la capacità di ricostruire in maniera minuziosa un’epoca... ma non è la stessa cosa, ti accorgi che s’è persa la luce. Si possono fare tutti gli sforzi che vuoi, specie gli inglesi che sono straordinariamente bravi, ma ti rendi conto che c’è un effetto acquario, non c’è il mistero, non c’è la distanza.
Penso a Daniele Ciprì, che adesso ha fatto un film bruttissimo, e mi dispiace dirlo, La buca. Però lui dice che continua a fare film in pellicola, lui che è un grande direttore della fotografia. Il problema è che un film fatto in pellicola viene lavorato da coloro che ormai non hanno più l’arte, e che sanno lavorare solo col digitale. Il cinema era un fatto stregonesco, era chimica, alchimia, fisica, era qualcosa di elitario. Un tempo un operatore era un mago, uno stregone: Joseph August girava senza guardare nel mirino della macchina, ma riusciva comunque a mettere perfettamente a fuoco. In Belluscone c’è anche questo, il fallimento di un’idea di cinema, la perdita dello stupore che il cinema era capace di suscitare.
Il cinema era un fatto stregonesco, era chimica, alchimia, fisica, era qualcosa di elitario. Un tempo un operatore era un mago, uno stregone
Ad un certo punto si ha quasi la sensazione che “Belluscone” non esista, parafrasando una domanda che lei faceva a Tirone nel suo corto A Silvio (in Cinico TV), che “Belluscone” sia un fantasma, un’ossessione, un suono senza alcun significato. A questo punto il problema si sposta sulla rappresentazione e la domanda è: tutto è falso? O tutto è pura rappresentazione?
Il problema della prima versione del mio Belluscone era proprio questo, non vi era alcuna differenza tra le cose, tutto era indifferente. Dall’inchiesta Berlusconi risultava troppo concreto, era come il digitale, era più vero del vero. Non mi restava che fare come Tirone: in A Silvio, omaggio leopardiano, Tirone celebra Berlusconi prendendolo per il culo senza volerlo, facendone un mito. In questo senso avevo ripreso quel Berlusconi anche ne I migliori nani, un programma fatto con Ciprì, rappresentandolo su un piano di astrazione, di mito: solo così era possibile spiegare quel che era successo in Sicilia, roccaforte del berlusconismo, e di come siamo stati, noi siciliani, capaci di inventare questo mito.
In un mondo in cui la realtà è destituita di senso (penso a Emilio Fede, ai telegiornali, ai comici di professione, ai non-comici di professione che rubano il lavoro ai comici) rimane la comicità, che è una cosa molto seria. L’idea di comico prevalente in Italia è quella da villaggio turistico. Per me invece il comico è l’equivalente di un filosofo, è un poeta, capace di vedere il sentimento tragico della vita. Si è persa questa idea del comico come eroe sovversivo solo contro il mondo, apparentemente sconfitto, emarginato, in controtendenza. Questa idea di comico è stata bandita dal cinema contemporaneo. Ecco, Bellusconerappresenta l’ultima frontiera comica oltre la quale c’è il nulla, è difficile andare, perseverando in quell’atto di fede che è il fare cinema.