Intervista a Luigi Viva, autore del libro dedicato a “un artigiano che plasma, che lavora le parole con amore, con il senso della normalità, con l’attenzione al particolare. Lo possiamo paragonare a grandi come Pasolini, Sciascia, perché attraverso la musica ha mandato messaggi importanti, come hanno fatto i grandi della cultura italiana.”
A venti anni dalla scomparsa di Fabrizio De Andrè, un gruppo di associazioni, in collaborazione con la Feltrinelli Point, ha tenuto ad Altamura, in provincia di Bari, dieci giorni di eventi a lui dedicati. Tra concerti e dibattiti, Luigi Viva, scrittore e giornalista, ritenuto il biografo ufficiale di Fabrizio, ha presentato il libro “Falegname di parole. Le canzoni e la musica di Fabrizio De Andrè”, incontrando anche gli studenti dei licei della città.
Perché ha utilizzato il titolo “Falegname di parole”?
Il titolo non è farina del mio sacco. Anni fa quando stavamo correggendo insieme questo libro, che riguarda soprattutto la sua opera, Fabrizio, entrando in camera sua tirò fuori un libro e cominciò a declamare una sua poesia, nella quale si definiva “falegname di parole”.
Quindi un costruttore di parole?
Più che costruttore, è un artigiano che plasma, che lavora le parole con amore, con il senso della normalità, con l’attenzione al particolare: come fa l’ebanista che si dedica al legno, così faceva lui con la parola.
Fabrizio era molto rigoroso in quello che faceva?
Certo: era rigoroso quando lavorava, era attento, sia nella attività dal vivo che in studio e si muoveva solo quando aveva qualcosa di nuovo da dire. Quindi era molto professionale, molto scrupoloso, cercava sempre il meglio sia nei dischi, che nelle esibizioni dal vivo, nel rispetto del pubblico. Non tutti gli artisti hanno questo genere di approccio. Nel dopo concerto concedeva al pubblico un’ora e mezza, due ore, per gli autografi e per scambiare battute, si sentiva in dovere di soddisfare chi faceva dei sacrifici per acquistare il biglietto.
Com’era come uomo? Molto spesso viene descritto come uno scontroso.
Bisogna parlare dell’artista, dei messaggi e dell’opera che ci ha lasciato. Era una persona affettuosa ed intelligente, acuta, che ti metteva sempre a tuo agio. Quando parlavi con lui, non manifestava mai il suo sapere, a meno che non fossi tu a fargli delle domande.
Come l’ha conosciuto?
L’ho conosciuto nel 1975 ad un concerto a Piazza Navona a Roma. Mi venne presentato dal suo tastierista Giorgio Usai e da allora ci siamo frequentati, seppure saltuariamente. Ci siamo visti in Sardegna e ai concerti quando veniva a Roma. Temi ricorrenti delle nostre chiacchierate erano l’agricoltura, la filosofia, l’anarchia: di musica si parlava poco. Nel ’90, quando l’ho avvicinato per lavorare al libro, la frequentazione si è fatta più intensa, tant'è che ha supervisionato quasi completamente il libro, sia nella parte che riguardava la biografia, che in quella che è uscita adesso di commento alla sua opera. Infatti abbiamo ritrovato al centro studi di Siena, del cui comitato scientifico faccio parte, alcune bozze che Fabrizio aveva lasciato e che aveva corretto.
Lei viene definito il biografo di De Andrè: perché? Per via di questo rapporto o per via di questa “autorizzazione” a scrivere della sua opera?
Fabrizio era d’accordo su tutto e insieme abbiamo condiviso quanto scritto. Sulla sua biografia sono usciti tanti libri, e fra questi il mio, che è uno studio della vita dell’artista col titolo “Non per un dio ma nemmeno per gioco”, uscito nel 2000; in seguito è uscito “Falegname di parole.” La parola “autorizzato” riferita a De Andrè, che era un anarchico, non andrebbe usata. Era d’accordo, ha condiviso il piano dell’opera, ha corretto, mi ha aperto diverse porte, tanti suoi amici hanno parlato con me. Coglietene le deduzioni che volete. Anche la moglie Dori Ghezzi ha avuto in questi libri una parte importante.
Lei fa parte della “Fondazione Fabrizio De Andrè”: con quale ruolo? E qual è l’obiettivo della stessa?
Sono uno dei suoi fondatori. L’obiettivo è quello di diffondere e tutelare l’opera di Fabrizio. Dopo anni di lavoro sono venuti fuori tanti studi, appunti, sono stati catalogati materiali, la maggior parte dei quali sono stati digitalizzati dal centro studi dell’Università di Siena. Il prossimo obiettivo è quello di realizzare, finalmente, il progetto delle partiture, progetto che va avanti da anni e che sta andando a termine. Tutte le partiture integrali che si riferiscono alle canzoni con diversi strumenti saranno riportate sul pentagramma. È stato già fatto dagli allievi del conservatorio, ma bisogna fare una verifica, perché il lavoro non è ancora preciso. Tutto questo lavoro andrà stampato, con una stampa particolare, e depositato presso fondazioni e biblioteche, per permettere a tutti di visionarle.
Questo materiale verrà pubblicato on-line?
No, poi sarà una scelta della famiglia se pubblicarlo o meno. Per ora l’obiettivo è quello della divulgazione e della tutela dell’opera.
Dunque il progetto di “Falegname di parole” è iniziato quando Fabrizio era in vita?
È stato scritto nello stesso periodo della biografia. Nel ’92, quando ho iniziato a lavorare sulla biografia — della quale sono uscite 21 edizioni, alcune in economica — Fabrizio, un mese e mezzo prima di morire, mi aveva detto che la Feltrinelli era la casa editrice adatta per la pubblicazione, che doveva avere un ruolo divulgativo, soprattutto nei confronti dei giovani. È uscito tutto in quel periodo, la biografia e lo studio dell’opera, poi sull’editing, se mettere tutto insieme o dividere in due volumi, ha deciso l’editore. Un progetto nato da lontano, al quale sono stati fatti ritocchi lo scorso anno, quando l’ho riaperto. È un libro che cerca di rappresentare al meglio lo spirito dei dischi. È bello da vedere e da sfogliare, con il commento di Fabrizio e dei musicisti che hanno collaborato con lui: Fossati, Pagani, Milesi. È una guida all’ascolto e alla collocazione storica e musicale dei suoi dischi, evidenziando l’importanza che hanno avuto nell’ambito musicale italiano e anche nello sviluppo delle idee in Italia.
È una guida all’ascolto e alla collocazione storica e musicale dei suoi dischi, evidenziando l’importanza che hanno avuto nell’ambito musicale italiano e anche nello sviluppo delle idee in Italia.
C’è qualche disco della sua opera che ha lasciato più il segno?
I dischi di Fabrizio sono tutti belli. Nel fare l’editing, l’addetto ha riferito che “La domenica delle salme” è la canzone che ha occupato più spazio, ma penso sia un caso. Se dovessi scegliere, sceglierei “Anime Salve”, la sua ultima opera. È difficile scegliere, ogni disco ha un suo fascino e conserva una bellezza inalterata.
Cosa direbbe Fabrizio di questo clamore a 20 anni dalla morte?
Questo non lo posso dire. Diceva che “se uno ha poche cose da dire è meglio che stia zitto”. Mi sembra che tra le tante cose che sono state dette, alcune non siano all’altezza del messaggio che ci ha lasciato. Ognuno ha il diritto di fare e dire quello che vuole, l’unica preoccupazione è che non si dia un’immagine inadeguata di quello che è stato. La sua opera è stata una costante lotta contro il potere e a favore delle libertà delle minoranze. Non so se tutti i libri e le manifestazioni a lui dedicati sposano il concetto di attenzione che aveva Fabrizio.
Molti fan ritengono che amare De Andrè vuol dire essere di parte. Cosa ne pensa?
Era di parte nel senso che prestava attenzione verso gli ultimi, i diseredati, il sottoproletariato e come ha evidenziato in una bozza che ho trovato, la sua attenzione era rivolta agli ignorati e perseguitati dal potere, che è un concetto abbastanza alto.
In questo senso dicevo “di parte”, per le posizioni che prendeva. Un De Andrè che non può essere considerato o esaltato solo per la sua poesia o la sua spiritualità. In molti articoli e servizi non si parla del suo pensiero. Qual è la sua opinione?
La perdita di Fabrizio non è solo di tipo artistico, ma soprattutto intellettuale. Lo possiamo paragonare a grandi come Pasolini, Sciascia, perché attraverso la musica ha mandato messaggi importanti, come hanno fatto i grandi della cultura italiana.
Con Pasolini si era mai incontrato?
Non credo che si siano conosciuti, da quello che mi risulta erano due persone intelligenti , che si interrogavano sul ruolo del potere e su come il potere influenzasse la vita di tutti noi. Erano persone che facevano male al potere, perché pensavano, e chi pensa, nella storia del nostro paese, non viene guardato con ammirazione. La perdita più forte è riferita al suo impegno politico e civile.
Per le nuove generazioni qual è il messaggio che ha lasciato?
Il messaggio che io sottolineo nei miei scritti e nelle interviste, è l’attenzione per gli ignorati e perseguitati dal potere e dico a tutti di diffidare di chi parla di Fabrizio, compreso il sottoscritto, perché l’unico riferimento è la sua opera, i suoi scritti, le sue interviste: nel dubbio rivolgersi direttamente a lui ascoltando i suoi dischi.
Quale giudizio dà al film “Il principe libero?
È un lavoro interessante dal punto di vista divulgativo, ha fatto conoscere De Andrè a chi non lo conosceva. L’unica cosa che non evidenzia è la sua grandezza artistica, non vorrei entrare nel particolare. Secondo me cinque minuti dedicati alla grandezza artistica, si potevano trovare; poi, è stata una chiamata di attenzione importante.