L amore di Fabrizio De Andre per Dori Ghezzi era il piu bel gossip intellettuale dei 70 image ini 620x465 downonly

A venti anni dalla scomparsa del grande cantautore, amici e lettori di Vorrei lo ricordano con aneddoti personali. Intervengono Sergio Civati, il poeta Donato Laborante e la scrittrice Susanna Mattiangeli

 

Sergio Civati

Quando ho ricevuto la newsletter di Vorrei con l'annuncio di Il nostro De Andrè mi sono visivamente apparse tre immagini.

La prima. De Andrè con Battisti, erano la  colonna sonora degli anni 70. Nelle nostre vacanze estive in campeggio, nelle sere intorno ad un fuoco, cantando in compagnia canzoni di due autori così diversi (i sentimenti di Lucio e i profondi valori di Fabrizio) ma con una cosa in comune: la ritrosia ad apparire e la timidezza nell'esprimersi ma l'eguale capacità di rendere facili e cantabili le loro e le nostre colonne sonore. 

La seconda. Erano i tempi del forte "dissenso cattolico" che frequentavamo anche a Monza nelle comunità di base io e la mia futura moglie: con dentro la  rabbia verso la chiesa ufficiale e la passione per il forte richiamo del messaggio evangelico ed ecco che l'album a 33 giri (che ho ancora) la "Buona Novella" diede voce e musica  a quelle nostre convinzioni  e un brano (insieme a Dio è morto) lo cantammo nella chiesetta di Fontanelle di Padre Turoldo il giorno del nostro matrimonio.

La terza. De André non l'avevo mai sentito dal vivo così ebbi la fortuna, che ricordo ancora con nostalgia, di andare con due amici di "Spazio Giovani" a Treviglio per una delle sue ultime apparizioni sul palco centrato sull'album composto con Fossati. Emozioni davvero forti ma anche allegria e ballo, trascinati dalla sua voce (decisamente più potente e coinvolgente dal vivo che nei dischi) e da una band dove i figli Cristiano e Luvi si dimostravano ben degni di tale padre. 

Insomma impossibile rimuovere dal cuore Fabrizio e quello che ha rappresentato per me e per molti della mia generazione

 

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Donato Laborante

Nel 1971 avevo diciassette anni, Altamura odorava ancora di legna molte case ra coglievano le acque piovane e le rondini facevano il nido sulle porte delle case. Nella nostra comitiva ascoltavamo nel locale di tutto mentre quando facevamo le scampagnate a "pusillipe" a pasquetta nelle foresta Mercadante qualche ragazzo alla chitarra suonava e cantava accompagnato dai presenti "questa di Marinella è la storia vera" e tutti ci fermavamo incantati ad ascoltare l'ovattato silenzio ra chiuso nelle parole. Finita la canzone come nelle Hit Parade allora ascoltate sulla radio nazionale venivano richieste altre canzoni "c'è chi l'amore lo fa per noia chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa nè l'uno nè l'altro, Lei lo faceva per passione" e fu così che "imbarai" a "candare" "la chiamavano Bocca di rosa metteva l'amore, metteva l'amore la chiamavano Bocca di rosa metteva l'amore sopra ogni cosa"! Avevamo allora il mangiadischi e ascoltavamo musica "anghe" mentre camminavamo.

Eravamo una comitiva mista, quasi tutti lavoravamo ed avevamo la sarta, ci tenevamo a vestire alla moda. Pantaloni a zampa di elefante, camicie col collo largo e strette ai fianchi! Un giorno "Barbone", che conoscevo come presidente di una squadra di calcio, aprì un negozio di dischi in viale Martiri 1799 ed entrai a comprare fresco come la neve che scendeva l'ellepi "Non al denaro nè all'amore nè al cielo"... fu così che uscii con un pezzo di cielo tra le mani e andai di corsa nel locale ad ascoltarlo e a "sendire l'effetto che fà". Non sapevo che avrei trovato "dendro" tanti personaggi che già conoscevamo perchè dovete sapere che negli anni 60/70 Altamura come tutti i paesi erano pieni di spiccate personalità. Ogni tanto ne portavano qualcuno al manicomio di Bisceglie. Ma ammè mi sono "sembre" piaciuti per la loro follia. Mi innamorai della figura del Matto in cui mi rivedevo e da allora sposai la tesi di Edgar Lee Masters - che non conoscevo - per cui il poeta è lo scemo del villaggio che trasforma le energie delle persone stesse senza nulla fare Ma vivendo ai margini dei limiti dei bordi il confine.

"Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole e la luce del giorno si divide la piazza tra un villaggio che ride e te lo scemo che passa eppure la notte ti lascia da solo gli altri sognan se stessi e Tu sogni di loro"...

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Susanna Mattiangeli

Ho passato le estati della mia infanzia a Genova, in casa dei miei nonni materni nella periferia di collina. Che da quelle parti ci fossero mare, porto, vicoli antichi, l'ho scoperto tardi: per me la città era una lunga via in salita circondata da palazzine di cemento armato accanto al torrente Bisagno, sempre in secca. Mio nonno Vittorio era stato operaio ai cantieri navali e aveva l'asbestosi. Era alto e bello come un attore, anche se troppo magro ormai. Io passavo il tempo sdraiata accanto a lui per risolvere insieme i giochi della settimana enigmistica, ascoltare la radio oppure semplicemente per dargli fastidio. Lo baciavo nell'incavo delle guance. Non era genovese il nonno, era di vicino Copparo, e mi chiamava Sciuzàna, Sciuzànina. Mi sbudèli, 'tai bònina Sciuzànina. 
Nonna invece era bilingue. Con noi parlava toscano e con il resto della città si esprimeva in un genovese toscanizzato. Aveva le amiche, la nonna, che la chiamavano la Lisa o la Lisetta; era simpatica ai negozianti, agli impiegati; i medici la ricordavano sempre con affetto, anche dopo anni. Stava sempre in piedi, lei, trotterellava bassina e pienotta; cucinava, cuciva, riempiva, imbottiva, riparava. Oppure camminava rapida trascinandomi per la strada lunga in salita. Portava sempre gli occhiali neri perché aveva la faccia sfigurata da un incidente: allora credo che la cicatrice si notasse molto più di adesso che è circondata da rughe, ma io comunque non ci facevo nessun caso perché era la faccia della nonna.
Mi diceva vieni hara, si va a comprà 'mpò di prebuggiùn. Il prebuggiùn erano le erbe, indispensabili per ogni ripieno. La più importante di tutte era l'erba persa, la maggiorana. Non si potevano fare frittate, tortelli, impasti senza l'erba persa. Non si poteva fare la cima. Della cucina genovese la ricetta della cima, da pronunciare à simma, è rimasta in casa argomento di racconto. Un piatto difficile, per alcuni impossibile da preparare altrove che a Genova. Se potesse concepirsi l'idea di fare la cima senza un macellaio capace di tagliare la tasca a modo, senza l'aria giusta, senza il dialetto giusto intorno, era una discussione ricorrente che mi faceva sentire comoda, tra le cose di casa mia, dovunque ci incontrassimo. Quando nel 1990 è uscito Le nuvole io avevo 19 anni e da tanto tempo non passavo più a Genova le estati. Amavo tanto De André e scoprire che tra quei capolavori di canzoni c'era anche  cimma mi ha fatto tornare piccola, seduta al tavolo come Monsieur Hugo di Ratatouille, mi ha fatto fare una carrellata all'indietro fulminante verso quel sapore di pèrsa legia, per sempre la mia madeleine. E quindi quando sento questa canzone, chevvelodicoaffà, piango come na fontana.

 

La foto di Il nostro De André è del grande Guido Harari

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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