A venti anni dalla scomparsa del grande cantautore, amici e lettori di Vorrei lo ricordano con aneddoti personali. Intervengono Valerio D'ippolito di Libera, il senatore Roberto Rampi e la critica d'arte Margherita Zanoletti
Valerio D'ippolito
Venti anni senza De André. Solo due flash tra Sud e Nord.
Primo flash al Sud. Non è vero che sono solo canzonette come cantava Edoardo Bennato. In età giovanile ci si identifica e ci si forma anche con i testi delle canzoni che si cantano. E io e ho cantato tante volte nelle sere d'estate, nei passeggi serali di un anonimo paesino ai piedi della Sila, le canzoni di Fabrizio De André. Sì perché per noi, il nostro paesino di Serra Pedace (CS) sostituiva il Sant'Ilario di Bocca di Rosa, e allora vedevamo lo svolgersi della storia nel nostro contesto e giocavamo anche ad immaginare altre conclusioni della storia. Così some era per noi davvero dissacrante sapere che persino un Re (Carlo Martello) tornato dalla guerra andava a puttane e lamentandosi dell'aumento dei prezzi (5.000 lire), quando "pria di partire eran tariffe inferiori alle 3.000 lire".
Secondo flash al Nord. Partito per la Lombardia, e approdato nella provincia di Milano, quando mi recai al Palalido a vedere un suo concerto. Di lui conoscevo quasi tutte le sue canzoni a memoria; nel viaggio mi chiedevo continuamente se era vero oppure stavo sognando. Mi commossi!
Roberto Rampi
La voce di Fabrizio De André risuona nella mia mente come un sapore dell’infanzia, la domenica mattina dal giradischi della sala con le chitarre della PFM. Sono piccolo e appena sveglio. Assopito come il pescatore che quella voce calda e profonda canta. Ed è rassicurante quella specie di sorriso, il calore di tanti momenti dell’infanzia. Chissà se è proprio questo che ancora oggi mi fa pensare che a chi dice ho sete ho fame si risponde versando il vino e spezzando il pane senza fare altre domande, senza ma e senza però, senza discutere su chi viene prima. E forse è per lo stesso motivo che visito le carceri e penso che sono in troppi lì dentro, che non dovrebbero starci e sono impegnato nel mondo per la moratoria alla pena di morte pensando a Michè e ai tanti che spingiamo a impiccarsi a un chiodo. E quando penso alla differenza tra la Legge e la Giustizia penso che ogni giudice è un uomo con le sue storie e i suoi limiti, che siano di statura o di altra natura. E quando ascolto chi vuol imporre la sua morale, spesso perché non può più dare il cattivo esempio, penso a Marinella, al professore della città vecchia, e a bocca di rosa, e ringrazio chi mi ha regalato le loro favole che al contrario di Esopo non vogliono insegnare alcuna morale, se non quella di guardare ad ogni vivente come una somma di storie da amare.
Alle scuole medie un laboratorio di italiano e musica mi ha fatto indossare i panni di Pasquale Cafiero. E il cappotto cammello di mio nonno è diventato quello di don Raffaè, ma quel che ancora oggi mi interroga da quel giorno è l'astio e il malcontento di chi è sottovento e non vuol sentir l'odore di questo motor che ci porta avanti quasi tutti quanti maschi , femmine e cantanti su un tappeto di contanti nel cielo blu...
Per questo la notte di capodanno del 2000 a Roma ho festeggiato cantando a squarciagola il bell’inganno dei giorni di finestre adornate e dei canti di stagione, delle anime salve in terra e in mare (e dei corpi non salvati), senza atti d'amore così spietatamente attuale quasi venti anni dopo. Ho cercato di ricordarmi ogni giorno quello che non ho, anche quando indosso la camicia bianca e distribuisco il mio indirizzo in tasca e provo a recitare tra me e me una smisurata preghiera e non il rosario di ambizioni meschine di millenarie paure di inesauribili astuzie, combattendo innanzitutto dentro di me l’orribile varietà delle proprie superbie. Sono cresciuto libertario anche per questo, spesso riconoscendomi più nello scemo che passa e non nel villaggio che ride, giudica, condanna... nei troppi convinti di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio...
Penso a quando con Roberto Vecchioni andammo al Carlo Felice e c'erano Ligabue, Bennato, Battiato, Finardi, Jovanotti e Vasco e tanti altri venuti a dire a loro modo grazie... e quando nello studio di Mauro Pagani rimasi incantato ad ascoltare i racconti e quell’aneddoto su cosa vuol dire mettere la cinture in auto per chi è stato rapito e legato per 120 giorni...
E ricordo come fosse ieri quella sera in cui guidavo e piangevo andando alla riunione di maggioranza prima del Consiglio Comunale e un amico che poi sarebbe stato sindaco mi chiese se era morto un mio parente e io ancora oggi penso di sì e a volte penso... molto di più...
Margherita Zanoletti
Sono cresciuta a pane e salame, olio di fegato di merluzzo e canzoni di De André. Tenevamo i vinili in sala, la stanza più bella della nostra grande casa, dove c’erano il pianoforte, il salotto chiaro di pelle, un grande specchio ottocentesco, quadri di gusto borghese, i piatti dipinti da mia madre, il pavimento in marmo coperto da tappeti classici e lo stereo familiare, quello con il giradischi, con le casse buone. Mi ci rifugiavo il pomeriggio dopo la scuola e ricordo che d’inverno faceva freddo, perché la casa era molto grande e da brava bergamasca le stanze non necessarie mia madre le lasciava chiuse e con i caloriferi spenti. io però mi mettevo un maglione in più e ci andavo lo stesso. ci andavo a sentire i dischi.
Nel 1990 ero una ragazzina delle medie. Quell’estate andai al mare con mio fratello grande e sua moglie, avevano già due bambini piccoli e io ero la giovane zia. Durante il viaggio in auto costeggiammo parte della liguria. Mia cognata è di origine genovese e piuttosto legata alla sua città di origine, in macchina ascoltammo cassette per tutto il viaggio, prima Creuza de ma, poi Le nuvole. In pochi ascolti imparai Ottocento a memoria, prima di imparare e di innamorarmi del Novecento in vinile di Paolo Conte, quello di Genova per noi. Ma questa è un’altra storia.
Faber morì otto anni dopo di cancro ai polmoni. Poi, nel 2008, dieci anni esatti dopo la sua scomparsa, il gruppo milanese di videoarte Studio Azzurro gli dedicò una mostra che toccò varie città, partendo da Genova e terminando alla Rotonda della Besana di Milano. Oggi, che mi occupo di arte contemporanea e che De André lo ascolto soprattutto in genovese (disse che le lingue diventano dialetti quando chi le parla perde le guerre), oltre al ricordo personale di casa dei miei e delle nuvole in macchina nell’estate dei mondiali, vorrei condividere il ricordo impersonale legato alla mostra.
Fu una mostra importante. 17 videoproiettori, 6 schermi holopro, 17 pc, 24 casse audio, 12 amplificatori, 3 tavoli con sistema RFID, 2 cornici touchscreen, 3 cavalletti con sistema RFID, 65 sagomatori per esplorare la vita, la musica, le esperienze e le passioni di de andrè attraverso un allestimento virtuale, multimediale e interattivo: sei ambienti tematici, fruibili senza ordine prestabilito.
Non semplice allestire una mostra che sintetizzasse le opere e lo spirito di un gigante. La mole di materiale da organizzare e, soprattutto, la complessità del personaggio da evocare e raccontare avrebbero potuto far perdere il filo. E infatti fu quello che successe.
Minimizzando narrazione lineare e oggetti simbolo e amplificando l’aspetto emotivo, la mostra affrontava i grandi temi della poetica di De André: la società del boom economico, anarchia ed etica, gli emarginati e gli sconfitti, l’amore sacro e l’amor profano, la ricerca musicale e quella filologico-linguistica, fatti di cronaca, episodi e luoghi di vita vissuta. Un totale di cinque ore di mostra curata da Vittorio Bo, Guido Harari, Pepi Morgia e Vincenzo Mollica.
Chi visitò la mostra si mise in ascolto di un racconto appeso ai muri, proiettato su schermi e pavimento, cantato. Alle pareti i dischi originali, le matrici dei primissimi incisi, gli spartiti. Nella quinta sala la proiezione non-stop di video sulla vita di De André. L'area intitolata tarocchi di faber invitava i visitatori a interagire contribuendo in modo partecipativo al campionario di personaggi e canzoni. Insomma, nella mostra si perdeva il filo e si ritrovava l'uomo, il bambino, il poeta, il sovversivo, il contadino. Il genovese, il sardo, l’universale.
Oggi casa dei miei è smembrata. Al posto della sala della musica c’è una porzione dell’appartamento di mio fratello. Da lui è miracolosamente rimasto il vecchio stereo, mentre tutti i vinili, mi riferisce, devono essere da qualche parte in cantina. Al posto del pianoforte, una tastiera digitale. Al posto del dialetto, l’italiano, il croato, qualcuno parla francese e russo, quasi tutti mastichiamo un po’ di inglese. Io ho ancora un debole per il De André in genovese, oggi come allora con la testa tra Creuza de ma e Le nuvole.
L'immagine di apertura e i video sono tratti dalla mostra di Studio Azzurro dedicata a Fabrizio De André nel 2008. La foto di Il nostro De André è del grande Guido Harari
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