IL NOSTRO DE ANDRé a

A vent'anni dalla scomparsa del grande cantautore, amici e lettori di Vorrei lo ricordano con aneddoti legati alle sue canzoni, ai suoi dischi, ai suoi concerti. Il primo è un racconto d'epoca, arrivato dagli anni Ottanta e dalle calli di Venezia. Scritto dal direttore

Sono già vent'anni che Fabrizio De André non c'è più. Però ci sono le sue canzoni, c'è la sua voce, ci sono i film che lo ricordano. Che è quello che vogliamo fare anche qui su Vorrei in queste settimane. Chiedendo ad amici e lettori di raccontare degli aneddoti della loro vita legati a De André, alle sue canzoni, ai suoi dischi, ai suoi concerti. In tanti hanno accolto con entusiasmo l'invito e presto potrete leggerli. Intanto, per cominciare, spetta ad un mio vecchio, imperfettissimo (imbarazzante) racconto. Prendetelo per quello che è, un ricordo. Dove Hotel supramonte riecheggia per le calli di Venezia, fra i teleri di Tintoretto e gli ostelli pieni di lingue diverse. Se non altro, è servito a farmi capire che la letteratura non sarebbe stato il mio mestiere. Per vostra fortuna.

P.s. la foto che abbiamo scelto per questa serie di testimonianze è di Guido Harari, autore di tanti magnifici scatti con De André protagonista. 

 

 

Santa Fosca

(racconto in 4 movimenti)


Santa Fosca. Arrivarci è stato semplice. Lo stretto cunicolo dalla fermata di Cà d’Oro, un paio di ponti, la chiesetta sulla destra e poi un altro ponte. Il bar d’angolo, un’aranciata lasciata nel bicchiere e via, in fondo.

Cielo grigio, scuro. È pomeriggio, poca gente che viene incontro, di fretta e parlando velocemente. Bestemmie, l’ostello è chiuso. Funziona solo d’estate. Avrei dato via un occhio per tornare in quella stanza a controllare che la tapparella venisse giù di lato, che la porta non avesse chiave, che la cucina brulicasse di mille lingue, pasta scotta e sughi impossibili.

È chiuso e si chiude lo stomaco. Si chiude la voglia di tornare al vaporetto e quella di resistere in piedi. Mi accascio e si chiudono anche gli occhi. Sono cinque mesi che gli occhi sono chiusi, per conservare le ultime immagini sopravvissute al rogo dei negativi e delle foto. Poggio la testa al muro, non arriverà nessuna mano ad accarezzarla.

Il freddo, mi richiudo nella sciarpa e accendo il walkman. Il volume è basso, sento anche l’acqua che porta le barche contro i tronchi conficcati nel fondo. Il vento sposta i capelli lunghi, le mani nascoste sotto le gambe secche e annodate. De André gratta da dentro, sparge sale su tagli che non si chiudono, in testa canto con lui, riparato dagli occhiali appannati dal respiro, tranquillo e lontano.

Devo trovare una sistemazione. Mi rialzo e torno sui miei passi, il barista è dietro la vetrina con un amico di fianco; mi vede. Non può avermi riconosciuto eppure ho la sensazione di essere stato scoperto, in frantumi.

Alla fermata arriva la pioggia.

Scalo a Santa Zaccaria e il vento si è fatto più forte, le persone più curve e accartocciate, i pensieri si prendono una pausa e trovano il tempo per far cadere i miei occhi sulla donna anziana seduta di fronte. Le leggo le rughe accanto agli occhi trasparenti e le mani bellissime strette su un quotidiano. E sono alla Giudecca.

Sei biondi svaccati sulle panchine. L’ostello è aperto, non è la stesso ma per stasera va bene, deve andare bene.

I biondi sono piccoli, quattro ragazze e quattro baffetti. Aprono il loro cerchio, mi salutano. Fanno posto sulla panca e chiedono qualcosa in inglese. Scusate non ho voglia e ancora meno forza di capirvi. A che ora apre?

Manca più di un’ora. Il cielo ha degli squarci fra le nuvole nere, la cuffia torna sulle orecchie, i biondi richiudono il cerchio. De André stavolta si fa nero su bianco, il libro di Sandro si è sgualcito nella borsa ed è più bello che mai, con i foglietti che spuntano di lato e il gonfiore della matita, in mezzo. Le parole sono della stessa canzone interrotta sul treno, alla stazione di Rimini. Dove saluto Mariella che torna al suo lavoro la vigilia di Natale e impreca con accento foggiano. Mi ha regalato un sorriso di complicità, un’amicizia lunga quattrocento chilometri, fitta di domande. Che libri leggi? cosa ascolti? vai a cinema? come ci vivi da quelle parti? sei felice? Mariella carina che saluta, con il bacio sulla guancia, “se passi di qua…”

È buio, i biondi si scaldano con la birra e si alzano in piedi, la porta dell’ostello si apre, il legno dei tavolini si scrolla di dosso un po’ di solitudine. “Sono italiano e mi fermo non so quanto” anticipo e l’uomo della ricezione non apre bocca. Allunga il foglio da firmare, si tiene la carta d’identità e dice che non c’è da mangiare, la cucina non l’aprono. Mi sistemo al secondo piano, vicino al radiatore, scivolo sulla branda e dò un’occhiata alla mappa. Uno dei biondi cerca il bagno.

Scendo a prendere qualcosa al bar vicino alla fermata del vaporetto. Due delle ragazze tedesche fanno incetta di biscotti, recupero qualcosa e si torna insieme. Parliamo poco e male. Studiano arte a Berlino. I miei occhi si fermano su quelli di Andrea, la silenziosa delle due, grandi e con gli occhiali piccoli e rettangolari. Vorrebbero visitare la scuola di San Marco e Palazzo Grassi. Arrivano gli altri, le guide spuntano dagli zaini, il loro cerchio si chiude per il terzo tempo.

San Rocco va bene anche a loro, domattina sarà nostra, rimpiango un attimo l’intimità, ma con sei biondi sconosciuti intorno sarà poco diverso. C’è la serata da risolvere, sono stanco ma mi lascio  trascinare sul vaporetto e poi si gira intirizziti dal vento gelido che ha preso il posto della pioggia.

Per le calli passano figure infagottate, cariche di pacchi scintillanti barcollano poggiandosi spesso al muro e qualche volta rimbalzando fra loro. L’età media in questa città è da ospizio. Lo sguardo quando non cade sugli occhi di Andrea la silenziosa, rimbalza sui miei passi. Gli occhi degli altri sono sempre sgranati, annotano percorsi, spigoli, ponti e chiese.

Siamo in sette, davanti ai giardini reali, vicino la piazza. Il cancello aperto invita a visitare questa macchia verde della città in ammollo. Gli occhi sgranati stavolta sono miei. Punto dritto alle panchine a destra. I miei fantasmi tornano a ballare. Andrea si siede di fronte. Vorrei chiederle qualcosa, vorrei chiederle scusa, vorrei chiamarla con un altro nome. Metto la testa fra le ginocchia e mi lascio coprire dal calore di un sole di fine luglio.

L’ultimo vaporetto riparte da San Zaccaria e le luci cominciano ad essere riflessi irrequieti sull’acqua. Andrea è seduta di fianco, chiede del libro che spunta dalla borsa. Dove trovo le parole per raccontare De André? Ci provo e finisce che i biondi chiedono che canti loro qualcosa del libro. Vorrei sprofondare. Fino alla Giudecca è resistenza, poi penso tanto non mi conosce nessuno e questi dopodomani saranno già dimenticati. Faccio il pagliaccio, mi riesce bene. Sfoglio il libro e miro Hotel Supramonte, la voce si fa cupa, l’aria ridicola ma chi se ne fotte. I mangiapatate ascoltano, pigliano per culo applaudendo e fischiando. Una abbraccia e finge d’essere commossa poi sbotta in un sorriso con denti da tre centimetri. Andrea chiede se è una canzone d’amore.

L’oste s’è sbracato e giù al piano terra i biondi si attrezzano con un gruppo di Praga. Via i tavolini, volume alto e si comincia a ballare. In un angolo il più bello dei presepi, fatto di panini e tovaglioli di carta. Il Bimbo arriverà. Il mangiacassette crepita, chiedono una delle mie ma di ballarci sopra non se ne parla e allora ascoltano la radio. Ci sono, ballo pure io, ma dura poco. Seduto in terra, fuori, davanti al canale fisso nel vuoto e riavvolgo la sciarpa. Piano, arriva la musica da dentro e ancora più piano un’altra arriva da lontano. Poi si fa forte, all’improvviso, per pochi istanti. Andrea si siede affianco e morbida dice “Buon Natale”. Come non ci fosse, penso che stanotte sono lontano da casa, dagli amici. Ci abbracciamo, le poggio la testa sulla spalla senza schiodare gli occhi dal vuoto. Stringesse di più sarei anche capace di dirle qualcosa, ma non lo fa, neppure lei lo fa. Mi scosto, le carezzo i capelli. “Scusa” e scappo da quella notte. E da me. Sulla branda riprendo a leggere, ma arriva il sonno a ogliere l’imbarazzo di dover pensare, capire, spiegare.

I sogni sono dolci. Sogni di giornate di sole, di sorrisi in più e di molte domande in meno. Il mattino è morbido e il sole c’è davvero. Fa freddo uguale, ma quell’azzurro scalda più dei gradi.

San Marco, San Tomà e a Campo dei Frari arriva il portone di San Rocco. Non ho pensato che potrebbe essere chiuso a Natale, ma non lo è. I saloni ci accolgono e tutti lì a testa in su, giro distratto e lontano dalle pareti, su e giù per la scalinata, e infine trincerato in un angolo assisto alla Crocifissione di Tintoretto. Ignoro Cristo, chi sono quegli attori, chi è che tira la corda, chi indica la croce e chi sono quegli spettatori volgarissimi poggiati come a teatro. Quale sarà delle donne la Maddalena?

Corro fuori. Pare non sappia fare altro di questi tempi. Mi pianto al sole che adesso arriva caldo sul viso, mi stacca dai programmi per il pomeriggio, dai motivi che mi hanno portato su quella strada. Fingo di non aver voglia di niente.

È di nuovo grigio scuro. Abbiamo girato come formiche, passato decine di volte dagli stessi campi. Ho usato la loro macchina fotografica e posato con loro. La gola è secca e quelle tre parole che ogni tanto tocca dire vengono fuori armate d’unghie. Una galleria ha dentro delle tele di Clemente, propongo la visita alla comitiva. Si defilano invece. Ci si rivedrà in serata.

Di nuovo la gente in giro è poca e chi mi incontra deve ripararsi dal mio sguardo puntato. La galleria è vuota e solo dopo un po’ si affaccia un commesso ad accertarsi che non abbia idea di dar fuoco alle tele. La scena è breve, ho poca intenzione di fermarmi in un posto.

Per strada, l’inquietudine. Giro a vuoto. Il buio nasconde il poco che conosco. Non trovo il fiato per chiedere a qualcuno da che parte andare e allora inseguo i cartelli gialli. Mi allontano dalle strade più affollate, tutto è ancora più scuro, poi finalmente una freccia per Rialto e qualcosa che ho già visto. La calma non torna, vorrei essere all’ostello, vorrei ci fosse qualcuno accanto. Alla fermata c’è la calca, mi infastidisce, trovo un posto in fondo al vaporetto. Appoggio la testa al vetro che si appanna in un attimo. Accendo il walkman e tiro fuori il libro. Cade un foglio, lo apro. È sempre con me, come una cicatrice. Sopra c’è una data e le parole di una canzone dei Doors. Parla di una carovana e di una preghiera: “Carovana spagnola rapiscimi, so che hai braccia abbastanza grandi per farlo”.

Finisco di nuovo a Santa Fosca, all’ostello chiuso. Che invece è aperto ma le suore dicono che non posso entrare. Invento una foto persa mesi prima, sarà l’aria di Natale ma quelle mi lasciano entrare. Corro sopra, cerco la stanza, l’apro. Chiudo gli occhi. È più forte di me. È più forte di me. È più forte di me. Parte il film che vorrei vedere. Che dura poco perché gli occhi li riapro su due letti vuoti. Che film di merda.

Da un’ora sono sveglio nella branda. Niente sogni stavolta. Mal di stomaco e sonno che non arriva. Il sole invece sì, dritto agli occhi. Da basso le voci dei tipi di Praga che alzano le tende. Vengono a salutarmi, allora non sono trasparente. Anche Andrea fa capolino sulla porta. Più di un ciao non trovo. Lascio la città.

Le case, le persone, le barche e le finestre al ritorno non hanno colori, non hanno facce, non hanno presenza. Sei uno di loro e per questo non li guardi nemmeno. In stazione il treno è deserto, mi accampo nello scompartimento e allungo i piedi sui sedili difronte. Tornerà De André a cancellare una distanza che ho cercato di misurare in chilometri, in giorni, in parole e in ricordi. Dal libro spunta un altro foglio scritto in blu: “A volte ti dò ragione e mi accorgo di quanto siano inutili i miliardi di parole che potremmo usare”.

Da qualche parte negli anni Ottanta

 

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Gli autori di Vorrei
Antonio Cornacchia
Antonio CornacchiaWebsite: www.antoniocornacchia.com

Sono grafico e art director, curo campagne pubblicitarie e politiche, progetti grafici ed editoriali. Siti web per testate, istituzioni, aziende, enti non profit e professionisti.
Scrivo soprattutto di arti e cultura.

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