È giusto ribellarsi a una norma ingiusta? Oggi è un discorso che suona vecchio, e in parte lo è, ma nel 1965 le cose andavano diversamente e l’obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare esisteva, e praticarla comportava dei rischi. Il libro di Don Lorenzo Milani
Molte persone preferiscono leggere romanzi un po’ datati nella convinzione che questi abbiano superato la “prova del tempo” che sarebbe in grado di filtrare, tra le migliaia di romanzi brutti o inconsistenti – e cioè la maggior parte di quelli che vengono pubblicati ogni anno – solo i romanzi migliori. Anche se forse non è il migliore dei criteri, tuttavia è un criterio fondato poiché effettivamente, senza aspettare decenni, in tre quattro anni il peggio esce miseramente di scena lasciando darwinianamente sugli scaffali il meno peggio.
Nella saggistica questo però non può essere un criterio accettabile perché, se lo si seguisse, si rischierebbe di perdere il passo con le ultime uscite editoriali: situazione insostenibile nel mondo del dibattito intellettuale dove non ci si può permettere il lusso snobistico di aspettare anni perché qualche idea si consolidi prima di prendere contatto con essa, ma dove ci si deve inevitabilmente sporcare le mani anche con testi che non dureranno lo spazio di un mattino pur di mantenersi aggiornati.
Tuttavia è vero anche che se un saggio resiste nei cataloghi e sugli scaffali per anni, e talvolta per decenni, un motivo ci deve essere.
Come si fa una tesi di laurea è un celebre saggio di Umberto Eco che spiega, tra le altre cose, come fare una ricerca in un archivio cartaceo e come battere a macchina la propria tesi. Non è certamente un libro attuale in senso stretto, ma continua a vendere. L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud non ha basi biologiche, eppure è sempre lì sugli scaffali. Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani critica una scuola che non esiste più, eppure il suo messaggio ancora affascina.
Forse ciò è dovuto al fatto che inconsciamente crediamo che un saggio sia rappresentabile da un’idea, mentre in realtà un saggio è un insieme di idee organizzato – quando è fatto bene – attorno a un’idea forte. L’idea centrale può anche esser invecchiata, ma a rimanere interessanti possono essere ancora le idee che la attorniavano. Non si fanno più le tesi di laurea come si facevano ai tempi in cui Eco scrisse Come si fa una tesi di laurea, ma certe sue pagine – come per esempio quelle legate alla scientificità in campo umanistico – rimangono notevoli.
E poi... poi c’è l’importanza storica che un testo può aver avuto. Freud può non essere più scientificamente accettabile, ma per capire una parte consistente della letteratura (e non solo) novecentesca è importante averlo letto. Lettera a una professoressa è un’invettiva contro una scuola che oggi non esiste più, ma è stato un testo che ha cambiato le cose, evento rarissimo per un libro.
Rimaniamo a don Lorenzo Milani e occupiamoci di un altro suo testo che dopo tantissimi anni è ancora in catalogo e che si intitola L’obbedienza non è più una virtù.
L’oggetto del saggio è “l’obiezione di coscienza”. Attualmente gli unici obiettori di coscienza ancora in circolazione sono i ginecologi che non praticano aborti, ma l’obiezione di coscienza a cui si riferiva don Milani era un’altra, era l’obiezione di coscienza vera e propria, e cioè quella nei confronti del servizio militare. Oggi è un discorso che suona vecchio, e in parte lo è, ma nel 1965 – anno in cui presero il via fatti che originarono il saggio – le cose andavano diversamente e l’obiezione di coscienza nei confronti del servizio militare esisteva, e praticarla comportava dei rischi.
La seconda guerra mondiale era finita da soli vent’anni e tutte le famiglie avevano avuto almeno un combattente, un ferito o un caduto. Il rifiuto della guerra, non teorico ma pratico, esisteva eccome; così come al contrario esisteva un diffuso senso di obbedienza nei confronti della Patria e delle sue esigenze belliche. Tuttavia nel 1965 si era nel pieno della guerra fredda, il muro di Berlino era stato eretto da pochi anni; i due schieramenti internazionali si guardavano in cagnesco e l’Italia era strategicamente importante: pertanto la leva obbligatoria in Italia era una necessità, e lo sarebbe stata per altri trentacinque anni. Nel 1965 – poi la legge cambiò – chi si rifiutava di prestare il servizio militare finiva dunque in prigione, e in quei giorni in Italia erano in carcere oltre trenta persone per il reato di obiezione di coscienza.
Il saggio è una raccolta di documenti.
Il primo documento è “L’ordine del giorno dei cappellani militari in congedo della Toscana” del 11 febbraio 1965, una paginetta smilza, ripresa dal quotidiano “La Nazione” del giorno dopo, in cui i cappellani militari in congedo della Toscana dichiaravano solennemente: “Consideriamo un insulto alla Patria e ai suo caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”.
Don Milani rispose inviando una lettera furente – il secondo documento riportato nel saggio – ai cappellani militari e a tutti i parroci della provincia, che poi verrà pubblicata da “Rinascita”, il periodico degli intellettuali vicini al Partito Comunista Italiano.
La sua polemica era vibrante, e cominciava con un’osservazione da lotta di classe: “se voi avete il diritto […] di insegnare che italiani e stranieri possono eroicamente squartasi a vicenda, allora io reclamo il diritto di dire che anche i poveri possono e debbono combattere i ricchi”. Poi però don Milani precisava: “E almeno nella scelta dei mezzi sono migliore di voi: le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere […]. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”.
La sua argomentazione procedeva successivamente in modo poco lineare, prima ricordando che la Costituzione sanciva il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, e poi chiedendo retoricamente se le guerre combattute dal 1860 rispettassero questo nobile principio e infine chiedendo retoricamente anche se per caso l’onore della Patria non fosse stato difeso piuttosto dagli obiettori, che non parteciparono alle guerre, rispetto ai soldati che obbedirono ciecamente agli ordini.
Don Milani prendeva quindi in esame le guerre combattute dal 1860 in poi. Alcune osservazioni sono ancora interessanti: “i nostri figli rideranno del vostro concetto di Patria così come tutti ridiamo della Patria Borbonica”. Altre sono vere e proprie ovvietà, come la sua invettiva contro le indifendibili guerre coloniali. Altre ancora sono un po’ sconclusionate: a proposito della marcia su Roma, durante la quale il re non firmò lo stato di assedio che avrebbe fatto intervenire l’esercito, don Milani osserva per esempio che se i cappellani militari avessero insegnato ai soldati a obbedire alla coscienza piuttosto che agli ordini, l’Europa avrebbe risparmiato cinquanta milioni di morti. Capite bene anche voi che ragionando in questo modo non si arriva da nessuna parte.
L’unica guerra giusta sarebbe stata – secondo il parroco di Barbiana – la guerra partigiana, dove, sempre secondo la sua opinione, i partigiani sarebbero stati degli obiettori. Qui c’è una fragilità di analisi abbastanza marcata.
In primo luogo don Milani non considerava nel novero dei resistenti i 600.000 internati militari italiani – cioè i militari che non vollero rompere il giuramento fatto al re e che per questo furono internati in Germania – e in secondo luogo don Milani non sembrava ricordare che vi fu anche una resistenza militare propriamente detta, soprattutto nella zona di Roma. Ma soprattutto don Milani non sembrava nemmeno vedere che la Resistenza italiana – così come è accaduto per tutti i movimenti di liberazione nazionale, sia precedenti sia successivi alla Resistenza italiana – non rifiutò di certo l’uso della violenza, ma anzi talvolta la utilizzò perfino senza precisi fini militari ma solo a fini propagandistici: si pensi per esempio all’attentato di via Rasella a Roma. Per non citare poi le rappresaglie e le violenze inutili sui civili di cui oggettivamente alcuni suoi esponenti si macchiarono.
Tutto questo per dire che definire i resistenti come obiettori di coscienza è una tesi tirata per i capelli.
Il problema è che quando si mescolano il rifiuto della violenza e la guerra giusta/ingiusta ci si incarta sempre, soprattutto quando dalla teoria bisogna passare a formulare esempi concreti. Don Milani non fa eccezione a questa regola.
Alla fine della sua lettera concludeva scrivendo: “Preghiamo per quegli infelici che avvelenati senza loro colpa da una propaganda d’odio, si sono sacrificati per il solo malinteso ideale di Patria calpestando senza avvedersene ogni altro nobile ideale umano”.
Frasi come quest’ultima costarono a don Milani una denuncia all’autorità giudiziaria – terzo documento riportato nel saggio – da parte di un gruppo di ex combattenti.
A questa denuncia don Milani replicò scrivendo una lettera ai giudici – quarto, e più lungo, documento riportato nel saggio – non potendo comparire personalmente davanti a loro in quanto gravemente malato.
Si tratta di uno scritto di alto valore morale in cui il parroco di Barbiana precisava meglio alcuni passaggi della lettera, un po’ confusa, che gli era costata una denuncia e portava il dibattito a un livello diverso – decisamente più alto – rispetto al livello della lettera ai cappellani militari, affrontando con decisione il tema dell’obbedienza agli ordini e alle leggi, separando concettualmente la questione spinosa della nonviolenza (e mettendo quest’ultima in sordina) da quella della guerra giusta/ingiusta e rivendicando la sua apologia di reato (tale era all’epoca l’obiezione di coscienza).
Don Milani, come è noto, era maestro (anche se di una classe sui generis), e spiegò cosa fosse secondo lui l’insegnamento: “è l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato formare il loro senso di legalità […], dall’altro la volontà di leggi migliori […]“. Per far capire questo concetto don Milani ricordò che fino a non tanti anni prima era in vigore la pena di morte e che ci furono insegnanti che allora criticarono in classe la legge allora vigente. E poi ancora, a ulteriore chiarimento di questo concetto aggiungeva: “la tragedia di voi giudici è dover giudicare con leggi che ancora non sono tutte giuste. L’insegnante insegna a lottare per cambiare le leggi ingiuste”.
È un ragionamento più ordinato rispetto a quello espresso nella lettera precedente, e che ha anche illustri precedenti nel pensiero cattolico. Non si tratta di essere pro o contro l’uso delle armi tout court. Si tratta di ragionare di volta in volta in modo etico e critico rispetto a quello che ci viene ordinato di fare. I criminali nazisti e chi pilotò l’Enola Gay su Hiroshima obbedivano agli ordini dell’autorità costituita, i resistenti no.
Davanti all’esempio di questo tipo di obbedienti, don Milani ammoniva: “l’obbedienza è la più subdola delle tentazioni […] bisogna che ciascuno si senta l’unico responsabile di tutto”.
Difendere il reato di obiezione di coscienza era dunque per lui difendere l’autonomia etica del singolo.
È difficile dire cosa sia giusto e cosa non sia giusto. È anche rischioso. Ma è meglio rischiare da soli piuttosto che a prendere questa decisione sia qualcun altro per noi.
Bisogna che ognuno si senta responsabile di tutto.
Chiude il saggio – quinto contributo – la sentenza: assoluzione.
Lorenzo Milani, L’obbedienza non è più una virtù, Libreria Editrice Fiorentina, 2010, 112 pp., 18,00.