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Dall’antigiudaismo alla personalità autoritaria: un libro sulle radici profonde di ogni razzismo in un’ intervista con l’autrice, Marta Villa.

È stato presentato la scorsa settimana al Mudec, nell’ambito di Book City, il libro “Le radici antisemite dell’Occidente. Dall’antigiudaismo alla personalità autoritaria”, uscito la scorsa primavera per i tipi dell’editrice Stamen. Il testo, che propone una interpretazione dell’antisemitismo come costante della storia e della cultura europea e come paradigma delle dinamiche che attengono al “problema della relazione con la diversità”, raccoglie gli esiti di un lungo e approfondito studio della monzese Marta Villa, dottoressa di ricerca in Antropologia della Contemporaneità e collaboratrice del Dipartimento di Sociologia dell’Università di Trento: un saggio impegnativo, ma di grande interesse per chi voglia comprendere la persistenza del pregiudizio antiebraico, oggi rinfocolato da un anticapitalismo di destra e populista che impunemente e con incredibile successo ripesca le vecchie teorie del complotto pluto-masso-giudaico. Su questo aspetto si è soffermato nella presentazione il noto politologo Giorgio Galli, autore della prefazione. Sebbene a suo parere l’antisemitismo attivo sia attualmente marginale, il pericolo di una sua rinascita è legato all’anticapitalismo che unisce i populismi sia a destra che a sinistra nell’ostilità verso il potere delle banche, ancora una volta, come in un tragico passato, identificato con gli ebrei.

 

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il pericolo di una rinascita dell’antisemitismo è legato all’ostilità dei populismi verso il potere finanziario, identificato ancora pregiudizialmente con gli ebrei

A contrastare questa visione, una sua nuova ricerca sulle multinazionali che governano il mondo mostrerà come nell’attuale dominio del capitalismo globalizzato, rappresentato più dalle multinazionali che dalle banche, i gruppi più potenti siano di origine anglosassone, mentre i gruppi “ebraici” rappresentano una piccola minoranza. Gianfranco Mormino, ordinario di filosofia morale, che ha condotto il dibattito, ha sottolineato la tendenza attuale a rivolgere l’ostilità del mondo occidentale non tanto verso gruppi ritenuti minacciosi a causa del loro potere, quanto verso gruppi in realtà più deboli socialmente, come del resto erano gli ebrei poverissimi degli shtetl, vittime per secoli dei progrom nell’Europa orientale. L’irrazionalità delle posizioni complottiste, delle accuse verso capri espiatori più o meno probabili indicati come colpevoli di ogni male della società, è un modo per semplificare la complessità della storia, ed è per questo che il libro di Marta Villa risulta estremamente attuale e prezioso di fronte alla travolgente emergenza del rifiuto dell’altro, di quel “terrore del nuovo sconosciuto che tenta un dialogo” e che diviene bersaglio, come per secoli lo è stato l’ebreo, di ogni proiezione negativa dettata dalla “ricerca di una identità costruita attraverso la creazione di una linea di demarcazione inesorabilmente esclusivista da cui nasce la stigmatizzazione di chi ne è al di fuori”. Un atteggiamento che pesca nel profondo, che in un momento storico come il nostro, carico di angosce e insicurezze diffuse, ci espone a un rischio di contagio psicologico e culturale dal quale è difficile essere davvero immuni, nonostante le tremende lezioni della storia più recente, anche quando si professano convinzioni “ democratiche”, come dimostra la ricerca effettuata nel 2002 a Monza dalla stessa autrice e pubblicata adesso in appendice a questo libro.

La nostra società ha nei confronti dell’alterità e della diversità un’ ansia fobica inguaribile.

Ripercorrendo le atroci fantasie medievali che proiettavano sull’ebreo “deicida” le più diaboliche nefandezze, ne caricavano fortemente l’immagine di contorti significati simbolici, dando vita ad una mitologia e ad una iconografia ovunque presenti nell’arte medievale e da questa trasmessa ai secoli successivi, Marta Villa analizza l’antigiudaismo cristiano con i criteri delle scienze antropologiche, descrivendolo come un gioco di specchi deformanti, che nell’età moderna proseguirà assumendo come fondamento l’identificazione dell’ebreo col dominio del denaro, i cui effetti disumanizzanti non vengono riconosciuti nell’organizzazione del capitalismo, ma proiettati sul fantasma dell’ebreo usuraio, banchiere, speculatore. Una dinamica già svelata da Marx, la cui analisi, attraverso gli strumenti forniti dalla psicoanalisi con le nozioni di rimozione e proiezione, e dopo l’esito di millenarie persecuzioni nella “soluzione finale” voluta dal nazismo, approderà ad una decisiva chiarezza e profondità nelle analisi critiche di Horkheimer e Adorno sulla personalità autoritaria, ovvero sul terreno psicologico nel quale può attecchire e trovare consenso la creazione del fantasma negativo dell’altro. “Adorno e i diversi studiosi della scuola di Francoforte sono convinti che la nostra società attuale sia assolutamente compenetrata di forme pregiudiziali di varia natura ed abbia nei confronti dell’alterità e della diversità una ansia fobica inguaribile.”

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Un testo davvero ricchissimo di argomentazioni e citazioni, da leggere e meditare: all’Autrice chiedo di aiutarci ad approfondire e chiarire alcuni aspetti delle tante e complesse tematiche che affronta, in modo che la sua analisi ci aiuti a comprendere meglio, insieme al passato, anche il nostro presente:

L’antisemitismo viene tradizionalmente analizzato principalmente sotto il profilo storico e socioeconomico, mentre la tua analisi è più complessa e si avvale anche, ed è la parte più interessante e per me nuova della tua ricerca, di un approccio antropologico. Quale contributo l’antropologia può dare alla lettura di questo fenomeno?

Ho ritenuto utile, per analizzare l’antigiudaismo romano e cristiano, che è la forma più antica di antisemitismo, servirmi degli strumenti che l’antropologia ha elaborato a partire dalla seconda metà dell’Ottocento: si tratta infatti di strumenti che si applicano all’analisi delle società pre-storiche per leggere alcuni meccanismi profondi e radicati, ma che sono adattabilissimi anche alla lettura di questo fenomeno. Le reazioni umane nei confronti della diversità rappresentano, potremmo dire utilizzando lo strutturalismo lèvystraussiano, una sorta di “costante antropologica” che si ripropone ogni volta che ci confrontiamo con minoranze le cui caratteristiche sono viste come “non nostre”. Così in alcune popolazioni africane gli albini sono visti con orrore e per questo accusati di stregoneria, e fatti segno di persecuzioni e uccisioni, le stesse che nella nostra storia hanno colpito gli ebrei. Allo stesso modo i nomadi sono malvisti, sempre, dai sedentari, che trovano qualcosa di inaccettabile nella modalità di vita, nella stessa visione del mondo, di coloro che attraversano i loro territori. L’antropologia dispone di una lente di ingrandimento, per comprendere le dinamiche del rapporto con la diversità, che la storia o la filosofia non hanno: vede il meccanismo profondamente insito nella mente umana per cui la diversità, l’alterità, atterrisce, provoca stupore e terrore; insieme ad altre discipline cerca poi di capire come quelli che si ritengono tra loro uguali tentano di allontanare da sè queste “particelle di diversità”. La filosofia integra a livello teorico questo punto di vista. Ho voluto osservare tutti gli elementi che sono confluiti nell’antisemitismo, dal pregiudizio di origine religiosa, a quello che trova sospetta la diversità linguistica, a quello economico, per cercare di capire come la sommatoria di questi elementi ha portato a duemila anni di persecuzione. Per approdare infine alla convinzione, condivisa con Anna Arendt o con Adorno, che se non è l’ebreo, a scatenare il nostro orrore, è l’omosessuale, la strega, lo zingaro, il nero; che “c’è sempre un ebreo a cui dobbiamo dare la caccia per stare quieti” ed è questo che mi atterrisce, è questo che ho cercato di capire.

 

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Anche il pregiudizio che identifica l’ebreo con il potere del denaro è visto nel tuo libro come qualcosa di più complesso di un semplice fatto di tipo socio-economico, qualcosa che abbiamo rivestito di un carattere simbolico.

Il denaro è anche un simbolo e averlo addossato agli ebrei è una delle peggiori involuzioni culturali del nostro Occidente: avendo tolto loro ogni possibilità di sopravvivenza che non fosse il prestito ad interesse, vietato ai cristiani, siamo stati noi a costringere gli ebrei a diventare usurai, salvo poi attaccarli per questo motivo. E che questa accusa non avesse carattere realistico è dimostrato dalla estrema povertà in cui vivevano le comunità ebraiche, specie nell’Europa orientale, dove hanno subito per secoli le peggiori persecuzioni sulla base dell’odio suscitato da questa accusa. Il clichè che ancor oggi sopravvive dell’ebreo ricco banchiere può essere vero per una minima percentuale di questa popolazione, mentre anche il piccolo prestito ad interesse non permetteva alla maggioranza nessuna progressione sociale e nemmeno una sopravvivenza degna di esseri umani. L’analisi che ha fatto l’ebreo Marx della questione ebraica non è, come poteva apparire, un’accusa fatta al suo stesso popolo di far parte del sistema oppressivo del capitalismo, ma, come ha mostrato il filosofo milanese Luciano Parinetto, un invito a liberarsi di questa falsa identificazione che opprimeva loro per primi, costringendoli ad un ruolo odioso.

 

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Un’altra caratteristica che la tua ricerca mette in evidenza è la specificità della persecuzione contro gli ebrei come portatori di una diversità sfuggente, di una presenza ambigua, non riconoscibile a prima vista come differente, connotata come una dissimulazione: a loro si imputava la “perfidia”, il rifiuto di convertirsi, l’ostinazione a non volersi assimilare. Quasi un nemico interno, da cui ci si doveva guardare più che dai nemici esterni.

È interessante osservare cosa ci riporta la storia a questo riguardo: certamente c’erano delle comunità che volevano mantenersi fedeli alla loro religione e tradizione, come accadeva anche ad altre comunità religiose, ma c’erano anche comunità che volevano assimilarsi: pensiamo alla Berlino di fine Ottocento, primi Novecento, pensiamo agli anni della prima guerra mondiale, in cui la maggior parte degli ebrei occidentali condivideva la fede nella nazione cui sentivano di appartenere, che li portava ad arruolarsi per condividere in pieno le sorti di quella che consideravano loro patria; gli ebrei   che venivano decorati per questa partecipazione, europei pienamente assimilati, che avevano perfino dimenticato la loro appartenenza alla cultura e alla religione ebraica, che non sapevano più leggere l’ebraico biblico. Anche questi improvvisamente si trovarono non solo disconosciuti nei loro meriti verso la nazione, ma perseguitati sulla base di un’invenzione, quella dell’appartenenza ad una razza che non esisteva, che è impossibile identificare in un popolo che ha vissuto in diaspora dal 70 dopo Cristo, cioè in una condizione ineliminabile di mescolanza con altri popoli! Già dai primi secoli, quando era ancora consentito il matrimonio con i gentili, le diversità somatiche erano sfumate, le conversioni più o meno forzate li avevano ulteriormente integrati, per cui la loro riconoscibilità era legata solo alle pratiche di culto, alle usanze che li distinguevano dalla maggioranza cristiana, e che erano sottoposte ad una attenzione piena di sospetto e intrisa di ignoranza. A questa presunta segretezza, che bisognava stanare, veniva attribuito ogni genere di atrocità, anche quelle che mai avrebbero potuto essere praticate dagli Ebrei: nell’accusarli di praticare omicidi rituali, messe di sangue e perfino l’antropofagia, i cristiani dimostravano di non conoscere neanche lontanamente il testo sacro che pure condividevano, come Antico Testamento, con loro, un testo che vieta in ogni modo ai fedeli di toccare il sangue e i cadaveri! Questa abominevole accusa di origine religiosa è stata per secoli la maggior fonte di istigazione all’odio antiebraico.

Quello che sembra incredibile è come questo carico di irrazionalità, di superstizioni arcaiche, sia potuto sopravvivere e sia anzi riemerso con forza anche in momenti storici e in nazioni dove sembrava trionfare la ragione, la cultura occidentale ai suoi più alti livelli. Come pottè accadere? E questo non dimostra forse che l’umanità non consiste nella razionalità, ma che i moventi più forti del suo agire sono più profondi? E che perciò l’interpretazione psicanalitica dell’antisemitismo e del razzismo risulta forse la più decisiva?

La risposta psicanalitica non può essere considerata come unica e conclusiva, soprattutto se applicata a livello individuale, perchè finirebbe per essere assolutoria: non è alla follia di Hitler che possiamo attribuire il dramma della Shoah. L’uso della psicanalisi che ci interessa è quello che ci aiuta a comprendere i meccanismi inconsci che appartengono a tutti e che stanno alla base dell’odio verso il diverso, perchè questa lettura può andare di pari passo con la lettura storiografica, processuale, degli eventi. Quello che ho tentato di dimostrare è che alla base di quel dramma ci sia stato il riemergere e il confluire di una coralità di elementi, che ha riattivato quella dinamica della ricerca del capro espiatorio di cui parla Réné Girard. Nel suo metodo di lettura confluiscono tutte le categorie, quella psicanalitica, quella filosofica, quella storica, quella antropologica: è insomma la lettura più completa che si possa dare di questo fenomeno ricorrente nelle società umane. Sembra che nel periodo fra le due guerre la mente delle persone sia andata in tilt, abbia fatto un corto circuito, divenendo preda del panico, di un terrore collettivo che vedeva una maggioranza minacciata da una minoranza. La quale d’altro canto, ritenendosi del tutto simile alla maggioranza, non riusciva a credere di poter essere fatta bersaglio di tutto l’armamentario secolare di accuse contro i Giudei, la cui memoria sembrava ormai sepolta. Così non vennero visti come avvisaglie di una tragedia, non vennero collegati tra loro, episodi che potevano apparire isolati, ma che invece erano la spia di un clima montante: dal caso Dreyfus, ad alcuni editoriali de La civiltà cattolica, a episodi di bambini ebrei battezzati forzatamente. A leggere i fatti col senno di poi, si può pensare che questa insufficiente attenzione ai segnali favorì la crescita di un antisemitismo sempre più acceso, sempre più gridato. In verità, come afferma Sartre, il paese da cui ci si sarebbe potuta aspettare un’ondata di violenze antisemite era la Francia, data la forte diffusione di odio antiebraico che da tempo la caratterizzava. Ma quel che fece precipitare la situazione in Germania dopo la prima guerra mondiale fu, insieme a tutto il peso della congiuntura economica sfavorevole, l’umiliazione dall’orgoglio nazionale subita da un paese che era stato imperiale e imperialista. Così venne trovata una minoranza da lungo tempo sospetta, un nemico interno, da accusare come causa della crisi: accade sempre così, quando le cause reali sono troppo complesse per poter essere additate e punite. Occorre un colpevole con gambe e braccia, che sia uguale a te ma abbia nello stesso tempo gli stigmi della diversità, e tanto più comodo se non è in grado di difendersi: sono per l’appunto i deboli, neri, omosessuali, zingari, che vengono accusati, rivestendoli quasi di un potere mistico e occulto. E ogni volta che questo accade, dobbiamo comprendere che è in chi accusa che c’è qualcosa che non va.

 

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Nel ripercorrere attraverso il tuo testo la storia dell’antigiudaismo cristiano, accade di ripensare alla pretesa emersa qualche anno fa di definire le radici culturali dell’Europa come “giudaico-cristiane”: un tentativo di riparazione, o piuttosto una totale rimozione del rapporto perverso che l’Europa cristiana ha stabilito con la sua matrice giudaica, accettabile solo se negata, superata e inglobata nella sola identità collettiva consentita, quella sostenuta dalla adesione al cristianesimo? E, in più, un modo per tracciare una linea che escluda questa volta “altri”?

Il dato storico che l’antisemitismo non è un’ invenzione dei pagani nazisti, ma è iniziato col Cristianesimo e si è accentuato col Cattolicesimo, è qualcosa di cui ci si dimentica facilmente, qualcosa che non sempre si insegna a scuola, e che tendiamo a rimuovere per autoassolverci. Senza duemila anni di storia antigiudaica, la propaganda nazista non avrebbe avuto così facile presa. Così la tesi delle radici giudaico-cristiane dell’Europa da un lato tende ad acquietare la nostra coscienza, ma risulta opportuna, dall’altro, per respingere un’altra “diversità”, stavolta quella islamica, negando così il contributo della Spagna o della Sicilia musulmane alla nostra cultura e la contaminazione che le stesse Crociate comportarono negli scambi con quel mondo. L’identità europea è un’identità dinamica, in cui confluiscono molte culture diverse da cui abbiamo tratto la ricchezza e la complessità della nostra, e questa mescolanza vale anche a livello individuale: quei texani che si illudevano di essere di pura razza bianca e anglosassone, sono rimasti molto sorpresi dall’esame del loro DNA che mostrava componenti di origine africana o cinese. Non siamo che un crogiolo di contaminazioni, dobbiamo solo farcene una ragione! Purtroppo non c’è un vaccino, una medicina risolutiva contro le posizioni di rifiuto e odio dell’altro: l’unico possibile vaccino è la conoscenza, che combatte la stratificazioni dei pregiudizi favorita dall’ignoranza, e la consapevolezza delle nostre pulsioni e motivazioni irrazionali, dovremmo capire quando emerge in noi l’animalità che la ragione non riesce a contrastare, i meccanismi ancestrali che scattano in noi, alimentati dalla propaganda, per poterli contrastare.

Le correnti “di sinistra” della psicanalisi hanno elaborato la nozione di “personalità autoritaria”, indagata da Horkheimer e Adorno nei suoi nessi con la tendenza ad assumere posizioni antisemite e antidemocratiche, in uno Studio pubblicato nel 1973. Vuoi illustrarcene la logica e i risultati?

Adorno, fuggito in California col gruppo della Scuola di Francoforte negli anni della seconda guerra mondiale, era intervenuto nel dibattito intellettuale dell’epoca con l’intento di comprendere l’affermarsi di quegli atteggiamenti culturali che loro riassumono sotto il nome di “fascismo”. Ha condotto su un campione di migliaia e migliaia di persone, contattate per posta e alle quali si chiedeva di dichiarare anche l’orientamento politico, una ricerca sociologica volta a stabilire quale grado di assenso o di dissenso fosse diffuso rispetto a certe affermazioni improntate ad atteggiamenti di disprezzo per le minoranze o i deboli o di ammirazione o sottomissione all’autorità e alla forza. Affermazioni mescolate, ma suddivise per l’analisi in diverse scale: quella del fascismo, dell’antisemitismo, dell’autoritarismo, dell’etnocentrismo. Alcune affermazioni sono esplicitamente riferibili a questi atteggiamenti, altre sono apparentemente neutre e tendono a superare le difese ideologiche. La conclusione di quella ricerca fu che le scale dell’autoritarismo e del fascismo erano molto accentuate anche in persone che si dichiaravano politicamente democratiche. Molte di queste erano fermamente convinte che gli ebrei governassero il mondo..

“Io non sono razzista, ma...”: è in quel “ma” che sta il problema, è su quel “ma” che bisogna lavorare.

Non ci conosciamo abbastanza, insomma! Alla luce dell’attuale successo di posizioni xenofobe e del diffondersi nel nostro paese di gesti francamente definibili come razzisti, si direbbe che certa propaganda ha trovato un terreno molto ricettivo, in cui le appartenenze politico-ideologiche non sembra abbiano fatto da barriera: per questo ho molto apprezzato la prima appendice al tuo libro, in cui riferisci di una tua ricerca condotta a Monza nel 2003 applicando proprio il questionario di Adorno a un certo numero di volontari. Come è stata effettuata questa ricerca e quali ne sono stati i risultati?

Per la mia tesi del 2003 ho voluto svolgere una ricerca, utilizzando una delle versioni del test di Adorno, su una parte della popolazione monzese che era per me accessibile, costituita da componenti del consiglio comunale, da studenti maggiorenni e insegnanti del liceo classico, membri di associazioni di volontariato, tutti appartenenti alla middle class, chiedendo anche l’orientamento politico oltre all’appartenenza religiosa. La maggior parte apparteneva all’area di centro o centro-sinistra. Ne è risultata una distanza dall’antisemitismo dichiarato, ma una notevole adesione ad affermazioni che, sfuggendo al filtro ideologico, rivelavano una tendenza all’autoritarismo in contrasto con le dichiarazioni di appartenenza politica. È questo il problema da cui stare in guardia: come si diceva in un recente convegno sul razzismo, di fronte al diffuso “Io non sono razzista, ma...” è in quel “ma” che sta il problema, è su quel “ma” che bisogna lavorare.

 

Gli autori di Vorrei
Carmela Tandurella
Carmela Tandurella

Se scrivere è “scegliere quanto di più caro c'è nel nostro animo”, ecco perchè scrivo prevalentemente di letteratura. Storia, filosofia, psicologia, antropologia, tutte le discipline che dovrebbero farci comprendere qualcosa in più della nostra umanità, mi sono altrettanto care, ma gli studi classici, la laurea in filosofia, anni di insegnamento e una vita di letture appassionate mi hanno convinto che è nelle pagine degli scrittori che essa si riflette meglio. Il bisogno di condividere quello che ho letto e appreso, che prima riversavo nell'insegnamento, mi ha spinto ad impegnarmi prima con ArciLettore, poi, dal 2013, con Vorrei, del cui direttivo faccio parte. Da qualche anno sono impegnata anche nella collaborazione alle pubblicazioni e alle iniziative del Comitato Antifascista di Seregno e del Circolo Culturale Seregn de la memoria, di cui sono attualmente vicepresidente.Qui la scheda personale e l'elenco di tutti gli articoli.