“Una normalità che consideri normale il fatto che uno non ce la faccia.” Ma nell’epoca delle tre effe, “fashion fitness e fiction”, mix micidiale, la verità non importa più a nessuno.
Per navigare fra le contraddizioni occorre sangue freddo, ché se il mare è in tempesta si tende a scambiare un facile approdo per il paradiso. Il linguaggio è negazione, la politica lo sa bene. Per mantenere ferma la barra del timone, nei marosi giova una chiglia robusta ma flessibile.
Oggi, 10 ottobre, è la giornata mondiale della salute mentale, e sarebbe da chiedersi cosa direbbe (poche parole), cosa farebbe Franco Basaglia, psichiatra fenomenologo, a quarant’anni dalla legge che porta il suo nome.
Prima di lui, valeva una legge del 1904, secondo la quale poteva essere internato chiunque arrivasse in manicomio con un certificato di un qualsiasi medico che attestasse la pericolosità o la condotta scandalosa del malcapitato. In manicomio – gestito a gironi infernali giù giù fino a contenere gabbie con dentro persone ignude e legate come bestie -, finivano minorati, ubriaconi, prostitute e malati di cui le famiglie non volevano occuparsi. Dall’entrata nella fossa dei serpenti, responsabile del malcapitato diveniva il direttore di quel luogo infame.
Il 13 maggio 1978 tutto questo iniziò a finire con la promulgazione della legge 180.
Nell’Italia di quarant’anni fa, la puzza e la miseria dei manicomi cominciò a diradarsi dopo che Basaglia aprì porte e finestre.
Nell’Italia di quarant’anni fa, la puzza e la miseria dei manicomi cominciò a diradarsi dopo che Basaglia aprì porte e finestre. La legge 180 prevedeva altri criteri di trattamento coatto: la necessità e urgenza delle cure, il rifiuto delle cure, l’impossibilità a effettuare le cure a domicilio. Rispetto a più di settant’anni prima, la legge tolse di mezzo la pericolosità dei malati di mente e la sostituì con l’obbligo della cura. Ciò significa che la psichiatria non era più responsabile della condotta dei pazienti nel caso di dimissioni. Non ci fu uno psichiatra che non fece un sospiro di sollievo.
Ma sorge spontanea una domanda: la pericolosità – ammesso che il diritto di ciascuno finisca dove inizia l’interesse collettivo -, è davvero sfumata nell’aria quando aprirono porte e finestre dei manicomi? E ancora, prima di arrivare all’urgenza, quanti segnali e invocazioni d’aiuto, evidentemente ignorati, ha lanciato il malcapitato?
Gli psicofarmaci sono stati introdotti nel 1954 e in caso di urgenza delle cure la dose è più che massiccia, dose che annienta, per non dire degli effetti disastrosi a lungo termine.
Fatta fuori la contenzione – ma non è così ovunque-, fatto fuori l’elettroshock (è così ovunque?), eccoci in balia degli psicofarmaci e c’è da chiedersi se alla psichiatria vada bene così. Se a mamma collettività vada bene così (sicuramente va bene alle case farmaceutiche).
C’è da chiedersi se basti abolire parole o cambiarle per far sparire le persone e i problemi che ci stanno dietro.
In questo maledetto imbroglio è finita anche la cronicità che non si nomina, eppure le cliniche e varie Ville convenzionate a fior di quattrini, ne pullulano. Stando agli ultimi dati del 2016, sono circa 800.000 i pazienti che ricorrono a quasi dodici milioni di prestazioni offerte dai servizi psichiatrici. E se la stampa accelera sull’emergenza, per l’enorme incremento degli ultimi anni, poi frena se si tratta di proteggere i lavoratori del settore.
Basaglia affermava di non sapere cosa fosse la follia, ma allora c’è da riformulare la salute mentale.
Ci prova Franco Rotelli, psichiatra basagliano, in un saggio del 2006 “Cos’è la salute mentale” in cui scrive: “Può essere che la salute mentale sia il contrario della follia, per quel che mi riguarda io mi immagino che essere folli altro non significhi che prendersi molto, o troppo (o del tutto) sul serio. Se sta all’opposto, la salute mentale non potrà che identificarsi con l’esercizio della vacuità, dell’insignificante: in sintesi la realizzazione completa dell’essere in malafede e del subire l’ottusa piattezza dell’inerzia.”
Una normalità che consideri normale il fatto che uno non ce la faccia.
Parole forti, ispirate forse alla dialettica che aveva in mente Franco Basaglia, dialettica che non produce mai una sintesi. Di certo è importante pensare “una normalità che consideri normale il fatto che uno non ce la faccia.” Ma nel frattempo che si costruisce “una normalità dove c’è posto per tutti”, sarebbe il caso di riprendere il discorso su cosa è stata la rivoluzione basagliana. In questo intento riesce Pier Aldo Rovatti che nel 2013 raduna lezioni tenute a Trieste sul pensiero di Franco Basaglia con interventi dei suoi collaboratori. “Restituire la soggettività” è un libro che vuole richiamare l’attenzione proprio su problemi che da allora a oggi restano attualissimi perché irrisolti. Come questo, fulminante: “Oggi per essere normali dobbiamo essere in balia di una macchina bisogno/consumo che si muove con estrema velocità.” Un ingranaggio da tempi moderni che può schiacciare e chi non riesce a formulare una domanda che esprima i suoi bisogni, può impazzire.
Ma quali sono i bisogni ineludibili?
Prima di ogni altro, il bisogno del soggetto di essere un soggetto, la malattia mentale appare così una costruzione che nasconde e occlude la soggettività. Restituirla, significa passare attraverso rapporti di potere: lo psichiatra detiene un potere sul paziente, un potere che dev’essere controllato. Da chi? Dai malati, si rispose quarant’anni fa.
Oggi, fra tante criticità, ci sarebbe da rifare la domanda. Ma a chi? Il tavolo di lavoro degli anni ’70 è stato fatto saltare dalla follia del capitale di cui la maggioranza accetta supinamente le regole selvagge.
E dopo quarant’anni di televisione di Stato e non, nell’ubriacatura da propaganda, è venuta a mancare la coesione sull’idea di umano.
E dopo quarant’anni di televisione di Stato e non, nell’ubriacatura da propaganda, è venuta a mancare la coesione sull’idea di umano. Ci siamo persi per strada l’umanesimo e ci ritroviamo in un’epoca in cui è vietato soffrire.
Una soglia però c’è: al di qua si sta male ma si riesce ad andare avanti, al di là ci si spezza.
E solo la malafede di cui parla Rotelli può confondere la disintegrazione di chi soffre con un bisogno d’integrazione. Ma ragionare è doloroso e pur di allontanare da sé l’amaro calice s’accetta la piattezza della cura offerta dallo Stato. Una cura non cura, confusa e fraintesa con l’eliminazione del sintomo, ma curare non è bombardare il sintomo di psicofarmaci in nome di una normalità che non c’è.
Allora cos’è cura? C’è chi sostiene e porta avanti la disponibilità ad ascoltare il dolore dell’altro, la verità di una vita. Ma nell’epoca delle tre effe, “fashion fitness e fiction”, mix micidiale, la verità non importa più a nessuno. Ecco allora che tentativi di sottrarre a cliniche e ville convenzionate i soliti malcapitati, in progetti di autogestione affiancata da coraggiosi sperimentatori in appartamenti e case, non è raro che vengano osteggiati e tarpati.
Che fare? Sarebbe bello poter dire: non lo so. Tuttavia ricordare le parole di Franco Basaglia grande uomo prima che psichiatra, forse può aiutare nei mala tempora: diceva che l’importante era aver testimoniato che una rivoluzione era stata possibile.
Le foto sono di Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, tratte da “Morire di classe” di Franco Basaglia e Franca Basaglia Ongaro, pubblicato per la prima volta nel 1969 da Einaudi.