Il romanzo Di niente e di nessuno, storia di crescita e formazione in un contesto di ordinaria violenza. Intervista all'autore, Dario Levantino. «Trovo che il dibattito femminista sia timido, se non inesistente, nel sottoproletariato, dove ancora si consuma la prigionia della donna.
Il 19 aprile di quest'anno è uscito per Fazi il romanzo Di niente e di nessuno, opera prima di Dario Levantino, professore di lettere in un liceo di Monza. Questa storia è ambientata nella Palermo contemporanea, in particolare nel quartiere periferico Brancaccio, definito dall'autore «un aborto urbano, un non luogo».
Il protagonista è Rosario, quindicenne che pensa, parla e agisce in prima persona, in un monologo interiore che talvolta si trasforma in triste soliloquio. Ama i libri, in particolare di mitologia, e non ha amici.
Il padre ha un negozio di integratori per sportivi dove trascorre la maggior parte del tempo, perché ha un solo obiettivo: far quattrini, anche se in maniera illecita. E comprare una Smart. Per il resto, si fa i fatti propri. Solo talvolta si ricorda di avere una moglie e un figlio, ma con loro interpreta una parte, perché mente in continuazione, tranne quando impartisce ordini.
Così Rosario si relaziona anzitutto con la madre, Maria, che ama incondizionatamente. Nei suoi confronti è protettivo, se non ansioso («Il giorno in cui mia madre non rispose al secondo squillo pensai subito a una disgrazia»). Maria trascorre il proprio tempo in casa, impegnata nelle faccende domestiche, e racconta spesso del nonno, anche lui di nome Rosario, rimasto sepolto sotto le macerie durante il terremoto del Belice, quando lei era solo una bambina. Quel nonno —idealizzato, trasfigurato — amava il calcio, «era un grande portiere» e aveva vinto una coppa, che Maria custodisce come una sacra reliquia. Per puro caso, anche il giovane Rosario inizia a giocare a pallone, rivelandosi talentuoso. Emulo del nonno, si impegna al massimo allo scopo di regalare almeno una soddisfazione alla madre, di cui comprende la solitudine, ma non riesce ancora a giustificarla. Fuori casa, conosce l'amore, la violenza, l'ipocrisia e l'amicizia, in un guazzabuglio selvaggio in mezzo al quale impara a vivere, scoprendo una terribile verità.
Fuori casa, conosce l'amore, la violenza, l'ipocrisia e l'amicizia, in un guazzabuglio selvaggio in mezzo al quale impara a vivere, scoprendo una terribile verità.
Di niente e di nessuno è infatti di un romanzo di formazione, da cui traspaiono un po' di Moravia e un po' di Pasolini, nonché Pirandello e Verga, ma senza alcuna tracotante volontà imitativa: sono semplicemente i riferimenti di un giovane professore che ha studiato lettere e ama le “storie”.
«Quando ho scritto questa storia», riferisce Levantino, «volevo denunciare la condizione disumana della periferia, quindi il mio primo riferimento è stato Pasolini, non tanto nello stile quanto nell'urgenza della denuncia sociale. Penso a Ragazzi di vita o a Una vita violenta.
Essendo pensato da un ragazzino, il mio romanzo ha anche toni comici e scanzonati: per quelle pagine, mi sono tornate utili alcuni libri di Ammaniti, come Ti prendo e ti porto via o Io non ho paura, e il Brizzi di Jack Frusciante.
Dal punto di vista narrativo, ho come mito un professore di regia americano, Robert McKee, che ha scritto diverse sceneggiature. Lui ti fa capire come si fanno i dialoghi, come gestire le dinamiche narrative. Mi sono tornate utili anche le sceneggiature dei film di Charlie Chaplin, di Ettore Scola (in particolare La terrazza) e quelle scritte da Ennio Flaiano. Infatti, l'impianto narrativo della mia storia è un po' cinematografico. Sembra strano, ma anche una fiction come Un posto al Sole può essere un riferimento: lì, i piani narrativi si intrecciano in maniera magistrale».
Di niente e di nessuno si legge senza sforzo, perché la storia “cattura”. Levantino ha costruito il suo romanzo come una casetta di Lego: ogni pezzettino è essenziale e nulla è lasciato al caso. Anche se ogni nuovo personaggio che appare sulla scena sembra di primo acchito non avere un ruolo, una giustificazione, nel volgere di poche pagine si scopre che quell'ingresso un senso ce l'aveva eccome, anzi era essenziale all'impianto narrativo, allo snodarsi della vicenda.
«Mi pongo come obiettivo che ciò che scrivo abbia un carattere cinematografico, icastico», spiega Levantino, «che restituisca le immagini. Infatti, mi piacciono le descrizioni brevi. Questo nella convinzione che meno dici, più dici, meno descrivi, più evochi. La mia è una prosa scarnificata, essenziale, sincopata come ritmo, perché non ci sono periodi di lungo respiro: è quasi come un “mordi e fuggi”. Qualche subordinata e poi punto. Ciò anche perché scrive un ragazzino e quindi il linguaggio doveva essere mimetico. Cerco di ottenere questo effetto anche con i tempi, passando dal passato al presente e dal presente al passato».
Levantino dà forma plastica alla durezza della periferia, in cui i rapporti umani paiono inesistenti
Di niente e di nessuno, a mio avviso, merita attenzione, perché inanella numerose tematiche, tanto differenti quanto importanti, e conseguenti spunti di riflessione. Sullo sfondo di una Palermo pittoresca, Levantino dà forma plastica alla durezza della periferia, in cui i rapporti umani paiono inesistenti (nei dialoghi, le parole sono sempre soppesate, calibrate, centellinate), mentre i personaggi si muovono come marionette, privi di consapevolezza: Stasera si recita a soggetto, avrebbe detto il Maestro. Qui, vince spesso la violenza finalizzata al ricatto o quella meramente gratuita, che fa volare cani da combattimento dal sesto piano.
Si giustifica allora la passione per lo sport, per il calcio in particolare, in cui incanalare lo spirito di sopraffazione e stemperare l'odio atavico in agonismo, mentre si srotola il filo sentimentale che collega un popolo intero -una famiglia- agli antenati (il nonno di Rosario): a loro si deve onore e rispetto, come insegnano gli antichi Romani, perché la loro presenza è pur sempre tangibile, nel sogno, nel delirio come in una coppa vinta cinquant'anni prima.
«Non mi sono ispirato a fatti o persone precise», puntualizza Levantino. «Il romanzo è pura fiction, ma la vicenda è verosimile. Mi viene in mente l'epigrafe finale del film Le mani sulla città, in cui si dice che le persone e i fatti citati sono frutto di invenzione, ma il contesto in cui agiscono è pur sempre verosimile. Così è nel mio romanzo. In particolare, ci sono certi episodi di cronaca che in passato mi hanno molto colpito, come quelli sul combattimento dei cani pirata: purtroppo, si sono verificati davvero».
Maria ha perso il padre quando era ancora una bambina e, forse proprio per questo, ha cercato nel marito una guida, un faro, se non una cura
Le varie tematiche presenti in Di niente e di nessuno possono toccare le corde sensibili di un lettore attento, ma è soprattutto un altro il focus su cui intendo soffermarmi: quello del rapporto di coppia tra Maria e Roberto, i genitori di Rosario. Una relazione squallida e anacronistica. Maria ha perso il padre quando era ancora una bambina e, forse proprio per questo, ha cercato nel marito una guida, un faro, se non una cura, come recita la canzone di Battiato che, non a caso, lei adora e impara a memoria. Roberto è però inesistente e, quando appare, mostra di essere insensibile e sgarbato («Ma ti s'è bruciato il sugo? C'è un retrogusto di muffa in 'sta pasta al forno!»), irriconoscente (sgrida la moglie «per aver speso più del dovuto al supermercato»: si noti l'umiliante verbo sgrida), finanche violento: poche parole e pochi sguardi ma penetranti e lapidari. Si tratta di un uomo primitivo, pre-civile: figura totalmente priva di un codice etico, perché ciò che conta sono «la bella vita, e magari anche le belle femmine» e «non ci sono regole nella vita... se tu vuoi riuscire, devi pensare solo a te».
Maria è invece una persona semplice e dimessa, ma succube del marito e da lui dipendente, forse innamorata. Inoltre, coerentemente con questo quadro psicologico, è pure autolesionista («Quando mia madre riceveva una brutta notizia, diceva sempre che era colpa sua»). Maria, sul divano, si siede «ben composta e schiacciata nell'angolo [...] per non occuparlo interamente», come attendendo l'arrivo di qualcuno; prepara un maglione con la lana acquistata alla merceria buona per stupire finalmente il marito; resta china sui maglioni mentre lui torna da lavoro e, sigaretta in bocca, guarda da solo la televisione; Roberto sfoglia «tutto ringalluzzito» il dépliant Mercedes, mentre Maria «seguiva in televisione una pubblicità di pentole»; quando, timidamente, comunica al marito di volersi mettere in affari, lui la riporta all'ordine: quei soldi servono a lui, perché deve cambiare automobile. Ogni giorno, dunque, viene confermato il ruolo subalterno di Maria e si rinnova la sua solitudine: continua ad amare il marito, come un cane ama il proprio padrone. Perché la mente immobile di quell'uomo è incrostata da retaggi di una millenaria cultura maschilista, icasticamente rappresentata dall'insegna luminosa del suo negozio, che «rischiara i contorni di un ragazzone imponente nell'atto di mostrare i muscoli gonfi a una smilza figura femminile».
«Io sono un privilegiato», racconta Levantino, «perché sono cresciuto in una famiglia borghese ma in periferia, quindi queste situazioni non mi sono limitato a leggerle, perché le ho viste accadere nelle famiglie dei vicini o dei miei amici. Una volta, quando ero alle scuole medie, andai a casa di un compagno. La mamma del mio amico era molto docile e premurosa. A un certo punto, è arrivato il padre, che l'ha pesantemente “cazziata” solo perché stava guardando la Tv: consumava energia elettrica!».
Una relazione che pare incredibile, quella tra Maria e Roberto, soprattutto se consideriamo che la vicenda è ambientata ai giorni d'oggi: essa getta luce su una realtà che, come ci conferma Levantino, lungi dall'essere scomparsa, è purtroppo ancora viva e vegeta. Il problema è forse legato al quartiere e al contesto sociale se, come sostiene Rosario, nello sguardo «di una donna del centro si leggeva l'affrancamento, in quello di una donna di periferia, invece, si scorgeva una paura antica, un giogo esistenziale».
Trovo che sia un esercizio da salottisti o radical chic il dibattito femminista all'interno della borghesia.
Ma è possibile che ancora oggi esistano realtà familiari così difficili? Risponde l'autore del romanzo:
«Trovo che sia un esercizio da salottisti o radical chic il dibattito femminista all'interno della borghesia. Lo trovo ridicolo, perché lì, oggi, la parità dei sessi è quasi del tutto raggiunta. In modo speculare, trovo che questo dibattito sia timido, se non inesistente, nel sottoproletariato, dove ancora si consuma la prigionia della donna. Perché questo? Perché la donna non lavora e non studia, quindi dipende economicamente dalle tasche del marito, che ne fa un animale domestico, oggetto di angherie, su cui scaricare le proprie frustrazioni. Questo purtroppo avviene. Per quale motivo la madre di Rosario non potrebbe, anche se lo volesse, lasciare il marito? Perché è povera, non ha lavoro, non ha studiato. Nel caso specifico, è pure orfana. È triste da dire, ma l'istruzione e il lavoro emancipano».
In questa drammatica storia di emarginazione, però, Maria non è sola: con lei c'è Rosario, che le vuole un bene infinito, ma non comprende fino in fondo la situazione. Entrambi sono inconsapevoli dello squallore in cui versano. Ne è metafora questo passaggio: «Io e mia madre restiamo di fronte a quella parete affrescata. Cerchiamo di capirne il significato, non lo afferriamo, ci vergogniamo un po'». I pensieri di Rosario sono tutti rivolti alla mamma, in cui si confonde («[...] un figlio deve difendere la propria madre perché gli appartiene, perché un figlio è un pezzo di carne che una madre si amputa di dosso». Inizialmente, il rapporto è quasi edipico. La solitudine della madre è la stessa del figlio, che non ha amici perché la scuola sta al centro («ero come un pezzo di pane duro in un piatto di ostriche», spiega Rosario, parafrasando Manzoni) e i ragazzi di periferia li ha evitati fin da subito, per volontà del padre. Che ancora una volta, come Crono (si è detto che Rosario ama la mitologia), padre padrone, decide anche del destino del figlio, relegandolo nel Tartaro di una vita irreale, in cui i libri rappresentano il rifugio a un mondo che si preferisce guardare di sbieco e non di fronte.
Rosario infatti ha solo quindici anni e, per elaborare e individuare strategie, ha bisogno di tempo («Io non ho paura, ma nemmeno certezze; avverto soltanto impulsi»): se è ormai consapevole delle logiche della vita urbana, non ce la fa ancora a guardare in faccia la realtà. È dura ammettere che il proprio padre è un essere abietto e, dunque, Rosario inizialmente soffre, ma non elabora. Si lascia trasportare dagli avvenimenti, come si lascia ballonzolare dall'autobus 214, che ogni giorno lo conduce a scuola. Quando le nebbie si diradano, subentra la rabbia, che è frustrazione da immobilità o sfogo irrazionale («Fagocito il pane con rabbia, mi convinco che devo fare qualcosa […] E invece non ho fatto niente»; «Sul marciapiede ho trovato un legno […] ho colpito con quel gladio le grate dell'inferriata per far scappare i gatti»). Ma poi, come Jack Frusciante, il Nostro inizia a spostarsi in bicicletta e la fatica fisica della pedalata assume il significato dello sforzo atto a emanciparsi dall'adolescenza e a entrare nell'età adulta.
Nulla in questo romanzo -come del resto nella vita- succede per caso. Così, Rosario scopre il primo amore, proiettato in Anna, figura femminile che non è la madre, ma le somiglia parecchio. Anche lei è di poche parole e si esprime a sguardi e contatti: «Anna ha un disagio. Le parole. Ne dice poche, violente, in putrefazione. […] Comunica con il corpo, soprattutto, come un animale impaurito; […] è triste per ragioni che non posso capire». Anna è però molto saggia: questo la distingue da Maria. La sua corporeità, che pure c'è e si sente, si stempera fino a scomparire, come se Rosario avesse paura, toccandola, di farle male, di “romperla”. Anna, si è detto, è controfigura di Maria e Rosario in entrambe si confonde: «La pancia della barca è il ventre di mia madre, c'è spazio per tutti e due».
Levantino ama evidentemente le intelaiature e i flashback, i giochi di specchi e i rimandi: se Anna corrisponde a Maria giovane, Totò, disgustoso portiere della Virtus Brancaccio, antagonista di Rosario, rinnova la tracotanza, il cinismo e la bestialità di papà Roberto. Con la comparsa di questo ragazzo e dei suoi scagnozzi, comprendiamo ancora meglio la durezza dei rapporti umani che possono intrecciarsi in periferia, secondo la logica dell'homo homini lupus. Ciò nonostante, Rosario lo scalza dalla titolarità della squadra e impara a parare le “pallonate” della vita, scoprendo poco dopo un terribile segreto che cambierà per sempre la sua esistenza e, con lui, quella di sua madre.
C'è dunque un crescendo drammatico in questa storia in fondo così ordinaria, anche perché della teatralità, che è tratto siciliano, si giova la capacità narrativa di Levantino, palermitano d.o.c., che ci conduce, parata dopo parata, sino allo scioglimento dell'intreccio, con tanto di manzoniana pioggia redentrice: Zeus vince la sfida contro Crono.
Il romanzo insegna che è possibile interrompere la catena della storia, strappare gli anelli del DNA: si può cambiare, se ci si sforza di avere paura «di niente e di nessuno». «Tu non sei come tuo padre», dice Anna a Rosario. E Rosario cambierà la storia, diventando adulto. Farsi grandi significa interrompere la catena di coazioni a ripetere, come insegna il magistrale Ritorno al futuro. C'è ancora speranza che da padri mostri nascano maschi sensibili, in grado di prendersi cura delle donne con lo stesso rispetto e amore che si deve a una madre, senza per forza scivolare nell'incestuoso, nel morboso; senza perdere quel po' di virilità che è necessaria a ogni coppia: quella che fa pronunciare a denti stretti la frase «Iu un mi scantu di nenti e di nuddu» (“Io non mi spavento di niente e di nessuno”): una forza interiore che potremmo anche definire istinto di sopravvivenza, ma che va guidata con raziocinio.
Ho una sensibilità socialista, quindi ho scritto questa storia perché ancora oggi, nel 2018, non siamo tutti uguali: chi nasce in periferia è un italiano di serie B.
«Denunciare significa cambiare», chiosa Levantino. «È questa l'urgenza che mi ha spinto a scrivere. Parto da un personaggio storico che io amo: Gesù Cristo. Attenzione: sono spregiudicatamente ateo, ma amo la sua figura. Non mi pongo il problema della sua esistenza perché, anche ammesso qualcuno ne abbia inventato la figura storica, significa che quel qualcuno quelle cose le pensava. Ho una sensibilità socialista, quindi ho scritto questa storia perché ancora oggi, nel 2018, non siamo tutti uguali: chi nasce in periferia è un italiano di serie B. Io questo l'avverto come una grandissima ingiustizia. Ho voluto scrivere perché intendevo denunciare un fatto: non può essere normale che un ragazzino cresca tra i sorci, con le siringhe per terra, senza libri, senza una guida. La maggioranza delle persone in Italia vive nelle periferie, molte delle quali sono disumane, specialmente nelle grandi città. Sono però convinto che proprio nelle periferie si nascondano i sentimenti più autentici: non ci sono solo macerie e violenza. Nella condizione più primitiva, si riesce a scorgere l'aspetto umano dei rapporti».
Concludo, citando una significativa domanda che Rosario rivolge a se stesso:
«Madre Terra […] aveva generato la sua prole da sola, senza bisogno di alcun uomo, per partenogenesi. Come sarebbe stato il mondo se anche le donne mortali avessero appreso la partenogenesi?».
Forse un po' più triste, rispondo io. Ma perché le donne non smettano di innamorarsi e conservino la speranza di trovare l'amore vero, ci vogliono tanti Rosario che imparino a essere uomini con la “u” maiuscola. Reagendo alle pallonate.